REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da:
Dott. NOME COGNOME PRESIDENTE Dott.ssa NOME COGNOME CONSIGLIERA Dott. NOME COGNOME CONSIGLIERE Rel.
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A N._315_2025_- N._R.G._00000140_2025 DEPOSITO_MINUTA_13_06_2025_ PUBBLICAZIONE_13_06_2025
nella causa di lavoro iscritta al n. 140/2025 R.G.L. promossa da:
c.f. ), elettivamente domiciliato in Torino, INDIRIZZO presso lo studio degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che lo rappresentano e difendono per procura in calce al ricorso in appello APPELLANTE CONTRO P.IVA ), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME presso il cui studio sito in Salerno, INDIRIZZO è elettivamente domiciliata, per procura a margine della memoria difensiva in appello APPELLATO Oggetto: Impugnazione licenziamento per giusta causa
CONCLUSIONI
Per l’appellante:
come da ricorso depositato il 18.3.2025
Per l’appellata:
come da memoria depositata il 30.5.2025
RAGIONI DI FATTO
E DI DIRITTO DELLA DECISIONE a convenuto in giudizio innanzi a Tribunale di Ivrea la già datrice di lavoro, chiedendo:
“Nel merito in via principale:
C.F. , condannare la in persona del l.r.p.t., a reintegrare il sig. el posto di lavoro ed a corrispondere al ricorrente l’indennità prevista dall’art. 3, co. 2, D. Lgs. 23/2015, dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, nella misura massima consentita, oltre agli interessi legali ex art. 1284, co. 1, c.c., dalla data del dovuto a quella della domanda, ed ex art. 1284, co. 4, c.c., dalla data della litispendenza al saldo effettivo, ed alla rivalutazione monetaria, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal recesso fino alla reintegrazione NEL MERITO, IN INDIRIZZO Stante l’assenza degli estremi del licenziamento per giusta causa, intimato al lavoratore in data 23/11/2022, dichiarare estinto il rapporto di lavoro tra le parti e, conseguentemente, condannare la in persona del l.r.p.t., a corrispondere al sig. ’indennità prevista dall’art. 3, co. 1, D. Lgs. 23/2015, nella misura di tredici (13) mensilità, oltre agli interessi legali ex art. 1284, co. 1, c.c., dalla data del dovuto a quella della domanda, ed ex art. 1284, co. 4, c.c., dalla data della litispendenza al saldo effettivo, ed alla rivalutazione monetaria”.
A sostegno delle proprie domande esponeva:
– di essere stato dipendente della dal 23.4.2016 con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato e mansioni di autista, addetto allo stabilimento di Leinì;
– che il rapporto di lavoro era cessato a seguito di licenziamento per giusta causa irrogato con lettera consegnata in data 23 novembre 2022 in ragione del fatto che in data 3 ottobre 2022 e in data 6 ottobre 2022 il lavoratore si era ingiustificatamente rifiutato di effettuare i viaggi comandatigli dal proprio superiore gerarchico, così violando i propri obblighi contrattuali e ledendo irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti;
– di ritenere l’illegittimità del licenziamento irrogato atteso che in entrambe le occasioni il proprio rifiuto sarebbe stato legittimo posto che l’esecuzione dei due viaggi comandati avrebbe comportato lo svolgimento di ore di lavoro straordinario e, nel caso del 6 ottobre 2022, anche della trasferta.
Ha, inoltre, osservato come, in ogni caso, la sanzione del datore di lavoro fosse sproporzionata rispetto alla condotta contestata, anche in ragione delle previsioni di cui al contratto collettivo.
si è costituita in giudizio difendendo la legittimità del recesso datoriale vanamente la conciliazione, la giudice di prime cure ha svolto istruttoria orale ed ha deciso la causa all’udienza del 13.1.2025, respingendo il ricorso e condannando il ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta.
Il Tribunale ha rigettato il ricorso sulla base delle approfondite considerazioni che seguono:
– l’addebito mosso al lavoratore con la lettera di contestazione disciplinare consiste nel mancato rispetto degli ordini di servizio impartiti dal sig. il 3 e 6 ottobre 2022, non risultando conferenti i richiami fatti dalla difesa del ricorrente in sede di ricorso e relativi alla fattispecie dell’abbandono ingiustificato del posto di lavoro, basati sulla lettera di licenziamento;
– la condotta contestata doveva ritenersi pacifica nella sua materialità, in quanto ammessa dal lavoratore;
– i motivi allegati dal suddetto per il rifiuto di eseguire gli ordini impartiti non potevano ritenersi legittimi, atteso che non era stata allegata alcuna circostanza volta a dimostrare che la richiesta del datore di lavoro sarebbe stata arbitraria o in contrasto con i principi di correttezza a buona fede;
– l’istruttoria orale svolta aveva poi escluso che vi fosse un accordo fra le parti nel senso che il sig. potesse svolgere solo lavori locali e non fuori Regione e, quanto al mancato pagamento degli straordinari, il lavoratore non aveva provato di aver effettuato ore di lavoro straordinario, mentre la deduzione che per le giornate oggetto di contestazione egli aveva già completato il proprio orario lavorativa era giuridicamente scorretta, posto che gli autisti hanno un orario settimanale e non giornaliero;
– il comportamento tenuto dal lavoratore aveva indubbio rilievo disciplinare ed il provvedimento espulsivo doveva ritenersi proporzionato al disvalore delle condotte tenute, trattandosi di due rifiuti a distanza di pochi giorni per ragioni connesse alla percezione soggettiva del lavoratore di non essere pagato a sufficienza per l’attività svolta, circostanza questa non dimostrata in giudizio avuto riguardo a straordinario o trasferte non pagate.
Propone appello il sig. formulando tre separati motivi di appello.
Resiste la società già datrice di lavoro, chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza in data 11.6.2025, all’esito della discussione delle parti, la Corte ha deciso erroneamente individuato la causa del licenziamento disciplinare nell’insubordinazione del lavoratore e non nell’interruzione anticipata della prestazione lavorativa, illecito che, ai sensi dell’art. 32 CCNL applicato al rapporto di lavoro, è punito con la sanzione disciplinare conservativa della multa.
Il motivo d’appello non è fondato.
Invero, va ricordato in linea generale che in materia di esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro sussiste il principio della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, ed in virtù del quale i fatti su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio devono coincidere con quelli oggetto dell’avvenuta contestazione.
Ciò posto, si riporta di seguito il contenuto della lettera di contestazione disciplinare datata 26.10.2022:
“Il giorno 3.10.2022, alle ore … circa, Ella veniva contattato sull’utenza telefonica aziendale dall’operatore al traffico, sig. , che Le forniva, come di consueto, le indicazioni per la successiva attività da svolgere, ovvero agganciare al trattore in Sua dotazione il rimorchio vuoto ubicato presso il ns. piazzale di Leinì (TO) e dirigersi verso lo stabilimento RAGIONE_SOCIALE, sito in Torino, alla INDIRIZZO per effettuare le operazioni di sgancio.
Senonchè, Ella rifiutava immotivatamente di ottemperare all’ordine di servizio impartitoLe e, nel rivolgersi al sig. , con tono seccato e infastidito, rispondeva:
“Lì non ci vado!”.
Il successivo 06.10.2022, alle ore 10:30, terminate le operazioni di consegna presso la società ns. cliente, RAGIONE_SOCIALE sita in Volpiano (TO), alla INDIRIZZO il ns. operatore al traffico, sig. , La contattava per comunicarLe i dettagli del successivo viaggio da effettuare.
Precisamente, le veniva richiesto di recarsi presso la società ns. cliente, RAGIONE_SOCIALE, sita in Chivasso (TO), alla INDIRIZZO a Chivasso (To), per caricare il semirimorchio (…) da trasportare al porto di Savona per l’imbarco.
Senonché, Ella disattendeva immotivatamente l’ordine impartitole dal sig. Suo diretto superiore, poiché, concluse le operazioni di aggancio del semirimorchio al trattore in sua dotazione, anziché procedere per Savona, si dirigeva direttamente, Dalla piana lettura della contestazione sopra riportata emerge in modo inequivoco che i fatti contestati riguardano il rifiuto del lavoratore di svolgere l’attività lavorativa secondo le direttive ricevute dal datore di lavoro e con “la diligenza richiesta dalla natura della stessa e nell’interesse aziendale” (cfr. contestazione disciplinare), mentre in alcun passo della lettera di contestazione disciplinare la società appellata si duole dell’interruzione dell’attività lavorativa dell’appellante prima del termine dell’ordinario orario lavorativo. Non determina, né potrebbe determinare un consentito mutamento della contestazione sulla quale si fonda il provvedimento espulsivo e che deve essere valutato nella sua legittimità dall’Autorità Giudiziaria, il fatto che nella lettera di licenziamento sia riportata la frase:
“risulta (…) sostanzialmente confermata l’arbitraria e immotivata interruzione della prestazione lavorativa in entrambe le occasioni richiamate, nelle quali emerge altresì la grave insubordinazione da lei posta in essere nel disattendere le disposizioni ricevute dal suo superiore gerarchico”.
Invero, il richiamo alla “arbitraria e immotivata interruzione della prestazione lavorativa” risulta evidentemente in connessione e risposta alle giustificazioni del lavoratore il quale aveva affermato di contestare “l’interruzione della prestazione lavorativa indicata nella contestazione a proposito del 03-10-2022 in quanto ha lavorato comunque 10 ore”.
Nella lettera di contestazione disciplinare non si fa alcun riferimento all’interruzione dell’attività lavorativa, ma unicamente al rifiuto arbitrario di ottemperare agli ordini impartiti dal superiore gerarchico e, dunque, ad una condotta di insubordinazione verificatasi in due occasioni a distanza di tempo ravvicinata.
La sentenza di primo grado ha, dunque, correttamente colto il contenuto ed i motivi della contestazione disciplinare, dovendosi, pertanto, rigettare il primo motivo di appello.
3. Con il secondo motivo di appello il sig. lamenta l’errata valutazione da parte del giudice di primo grado dei fatti costitutivi del licenziamento, i quali dovevano, al contrario, ritenersi totalmente privi di antigiuridicità, atteso che il lavoratore aveva rifiutato di effettuare i servizi richiesti in quanto, ove li avesse svolti, avrebbe svolto lavoro straordinario non retribuito, posto che la società appellata remunerava lo in giudizio, che, ove adeguatamente valutati, avrebbero dimostrato che laddove il lavoratore avesse aderito alle richieste della ditta avrebbe compiuto lavoro straordinario eccedente le due ore mensili pagate a forfait. Avrebbe, altresì, errato la giudice di primo grado, a non considerare che alcun pregiudizio era derivato all’azienda datrice di lavoro, che aveva assegnato il servizio ad altro dipendente.
Il motivo di appello, pur suggestivo, non può essere accolto.
Ed invero, innanzitutto va osservato come sia pacifico, in quanto ammesso dallo stesso lavoratore, che, a fronte della richiesta in data 3.10.2022 di effettuare un viaggio da Torino a Leinì ed in data 6.10.2022 di effettuare un viaggio al porto di Savona, il sig. si era rifiutato di adempiere alle due suddette direttive aziendali provenienti dal sig. , soggetto che gestiva per la l traffico nella zona di Torino e unico autorizzato dalla società ad impartire gli ordini agli autisti.
Appurata la materialità dei due fatti, la difesa dell’appellante sostiene peraltro che i rifiuti dovevano ritenersi giuridicamente legittimi in quanto:
l’ordine di svolgere il viaggio da Torino a Leinì del 3.10.2022 era giunto nel tardo pomeriggio, quando egli aveva completato il suo orario giornaliero e l’effettuazione del viaggio avrebbe comportato lo svolgimento di lavoro straordinario, non correttamente pagato;
parimenti l’ordine di effettuare il viaggio fino a Savona era giunto nel primo pomeriggio e anche in questo caso avrebbe costretto il lavoratore a svolgere lavoro straordinario sostanzialmente non pagato.
In merito, va condivisa la valutazione operata dalla prima giudice secondo la quale, seppure le allegazioni dell’appellante fossero vere e, dunque, se fosse provato che i viaggi avrebbero comportato ore di lavoro straordinario non regolarmente pagate, tuttavia il rifiuto di svolgere detta attività lavorativa rimarrebbe illegittimo, violativo dei doveri nascenti dal contratto di lavoro e, dunque, rilevante disciplinarmente.
Oltre al dovere di svolgere le mansioni per il quale è stato assunto, gravavano infatti sul dipendente altri obblighi di collaborazione, tra i quali quello di osservare “le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del datore di lavoro impartite dall’imprenditore” (art. 2104 c.c.), comprendente certamente quello di eseguire gli ordini impartiti, purché non manifestamente illegittimi.
Secondo il condivisibile orientamento della Suprema Corte, invero, “Quando la di questo e della corrispondente subordinazione del dipendente, alla discrezionalità dello stesso datore di lavoro, con la conseguenza che, secondo l’art. 2697 cod. civ., grava sul prestatore d’opera l’onere di provare, a giustificazione del rifiuto di corrispondere alla richiesta, una inaccettabile arbitrarietà della medesima.
Detto rifiuto, se le prestazioni domandate sono contenute nei limiti di legge, può concretare un inadempimento sanzionabile disciplinarmente, a condizione che il potere discrezionale dell’imprenditore di richiedere la prestazione dello straordinario sia stato esercitato secondo le regole di correttezza e buona fede, poste dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ. nel contenuto determinato dall’art. 41, secondo comma, Cost.” (così, Cass. n. 11821/2003; nello stesso senso, Cass. n. 4011/2007).
Non è, inoltre, superfluo osservare che, come è noto, il dipendente deve conformare la propria condotta ai principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., offrendo la prestazione lavorativa e dando concreta esecuzione alle direttive datoriali.
La Suprema Corte ha chiarito che “In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’art. 1460, comma 2, c.c., secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete” (Cass. n. 12777/2019). Nei contratti a prestazioni corrispettive una parte può rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 cod. civ. soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte.
Il rifiuto della prestazione lavorativa costituisce una legittima forma di autotutela a fronte di un inadempimento datoriale che comprometta i beni personali del lavoratore (vita e salute) (cfr. Cass. n. 24459/2016, Cass. n. 831/2016, Cass. n. 10553/2013).
Quindi il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., “e potendo egli invocare medesimo” (Cass. n. 836/2018, Cass. n. 12696/2012).
Ebbene, nella specie, quand’anche fosse provato che lo straordinario non era interamente pagato al lavoratore secondo le norme di legge e di contratto collettivo, tuttavia, il rifiuto dell’appellante di eseguire gli ordini impartiti, se anche comportanti la necessità di svolgere lavoro straordinario, non può ritenersi legittimo esercizio dell’eccezione di inadempimento, non essendo provata l’arbitrarietà della richiesta o un totale inadempimento del datore di lavoro, tanto grave da incidere in modo irrimediabile sulle esigenze vitali essenziali del lavoratore. Il sig. qualora avesse ritenuto illegittima la previsione adottata in azienda – in conformità ad un accordo sindacale di secondo livello applicato in azienda, cfr. deposizione teste sig.ra – di pagare lo straordinario in modo forfettizzato per 2 ore al mese, avrebbe potuto agire in giudizio per far dichiarare l’illegittimità di detta disposizione, atteso che il rifiuto in via generale e preventiva di svolgere il lavoro straordinario risulta essere contrario ai principi di correttezza e buona fede, non essendo in alcun modo allegato un pregiudizio apprezzabile a beni di rilievo costituzionale riguardanti l’odierno appellante. E’ risultato poi del tutto sconfessato delle univoche deposizioni testimoniali assunte durante il giudizio di primo grado un qualsivoglia accordo fra le parti in virtù del quale il lavoratore avrebbe svolto solo viaggi locali e non, dunque, fuori Regione (si vedano in merito le convergenti deposizioni dei testi Parimenti, non può ritenersi provato che se il lavoratore avesse svolto i due servizi comandati avrebbe svolto lavoro straordinario non remunerato.
In tal senso militano le deposizioni delle testi La prima ha, invero, riferito, per quanto qui rileva:
“Noi abbiamo un accordo di secondo livello sullo straordinario e sulle trasferte forfettizzate;
può essere che il signor si fosse lamentato che non gli veniva pagato lo straordinario, forse lo ha fatto anche con me, ma in realtà in busta paga c’è, viene pagato lo straordinario forfettizzato.
L’accordo prevede che siano pagate 2 ore di straordinario al mese;
se ne vengono fatte di più non sono pagate.
Posso dire comunque che generalmente nessuno supera lo straordinario forfettario e neanche l’orario ordinario;
in sede di stipula di accordo di secondo livello abbiamo necessariamente fatto questo tipo di analisi che abbiamo presentato ai sindacati ed di aver già effettuato 8 o 9 ore di prestazione lavorativa;
quella, però, era la sua presenza ma di lavoro effettivo aveva fatto 4 o 5 ore, questo si evidenzia dai dati del cronotachigrafo.
Proprio in quelle giornate c’erano numerose ore di mancata attività lavorativa.
Posso dire che già mi aveva detto che aveva rifiutato l’ordine perché aveva già svolto il suo orario ordinario e poi l’ha ribadito anche lui nelle giustificazioni.
Inoltre lui nelle giustificazioni parla di accordi presi dei quali posso garantire l’inesistenza.
Mi sembra che nella settimana oggetto degli episodi contestati, lui aveva fatto o 27 o 33 ore di lavoro effettivo.
Come lavoro effettivo consideriamo sia il tempo di guida che il tempo di lavoro nelle altre attività;
io ho escluso solo i riposi e le soste dove lui non fa nulla che sia attinente ad una prestazione lavorativa.
Questo dato lo evinco dal sistema Tis web.
Le registrazioni del cronotachigrafo vengono fatte dagli autisti;
loro possono scegliere tra guida, riposo, altre attività e disponibilità”.
La teste ha poi precisato:
“Noi abbiamo dato alla i dati di scaricati dal Tis web.
Quando io ho scaricato i dati li abbiamo anche controllati;
io ho visto che erano rispettati tutti i parametri:
ho controllato il rispetto delle ore di guida durante la giornata, il rispetto delle ore di guida durante le due settimane, i riposi regolari ogni sera e quelli nel fine settimana e il recupero dell’eventuale riposo ridotto fatto nel fine settimana.
I dati di RAGIONE_SOCIALE erano corretti e non risultava alcuna violazione.
Posso dire che lo stesso portale segnala eventuali problemi.
I dati relativi alla guida sono rilevati automaticamente dal camion;
quando si ferma, invece, è il lavoratore che manualmente indica riposo o altre attività lavorative.
Nei giorni in cui aveva rifiutato i servizi il ricorrente non aveva completato il proprio orario e non avrebbe sforato il suo orario se avesse fatto i servizi richiesti”.
Dalle deposizioni suddette, univoche e convergenti, emerge che la società appellata, prima di procedere alla contestazione disciplinare, aveva verificato se il lavoratore avesse svolto nella settimana un orario superiore a quello consentito o fosse stato comunque violato qualche parametro inerente ai riposi, ai tempi di guida o all’orario massimo settimanale, escludendo qualsiasi violazione dei parametri suddetti.
Ciò che è poi ulteriormente emerso è che i dati ritratti dai dischi cronotachigrafici sono è fermo è l’autista che decide quale attività indicare, se pausa, riposo o lavoro.
A fronte delle univoche dichiarazioni rese dalle due testi sopra indicate in merito alla verifica dello svolgimento di un orario effettivo di molto inferiore alle 47 ore settimanali previste dal CCNL, i dati emergenti dai dischi cronotachigrafici, immessi dallo stesso lavoratore appellante quanto ai periodi in cui l’automezzo non era in movimento non possono, pertanto, assurgere a convincente prova contraria dello svolgimento di attività di lavoro straordinario oltre alle 47 ore (+0,5 settimanali pagate a forfait). Se anche poi alle 33 ore che risultavano svolte nella settimana (la teste riferito che il sig. aveva svolto o 27 o al massimo 33 ore nella settimana dal 3 al 6 ottobre) si fossero aggiunte le ore per i due servizi richiesti e non espletati, quantificati quello verso Savona in 6/7 ore e in circa 2 ore e mezza per il servizio presso l’Iveco di Torino (si vedano in merito anche le chiare ed univoche dichiarazioni rese dal teste sig. ), comunque il sig. non avrebbe superato le 47 ore settimanali.
In assenza di prova di un inadempimento datoriale alla disciplina dell’orario di lavoro nella settimana lavorativa rilevante ai fini di lite, è da ritenersi ingiustificato il rifiuto della prestazione lavorativa ex art. 1460 cod. civ. Non coglie nel segno, poi, l’affermata assenza di ogni pregiudizio in capo all’azienda derivante dal rifiuto opposto dal lavoratore, atteso che detto pregiudizio appare sussistente essendo stata costretta la società datrice di lavoro a distogliere altro autista dai propri compiti, per effettuare i viaggi che l’odierno appellante ha rifiutato di svolgere in modo illegittimo. Appare poi del tutto intuitivo che in una società che, come da visura camerale prodotta sub doc. 7 dell’odierno appellante nel fascicolo di primo grado, occupa oltre 250 dipendenti, la maggior parte dei quali autisti, il rifiuto del singolo lavoratore di svolgere gli incarichi affidati, determina, a cascata, rilevanti problemi organizzativi dovendo la società datrice di lavoro reperire in tempi rapidi altro autista non impegnato in differenti viaggi per sostituire quello che ha rifiutato di svolgere il trasporto richiesto, non essendo, in ogni caso, certo che un sostituto sia sempre immediatamente reperibile. E’ evidente, poi, che se tutti gli autisti potessero liberamente rifiutarsi di svolgere i viaggi affidati si avrebbe lo stallo totale dell’attività della società appellante, con gravi conseguenze sulle commesse ottenute e difficoltà nella gestione dei rapporti con i eventualmente connesso al mancato svolgimento del trasporto, dovendo valutarsi il complessivo disservizio causato dalla condotta del lavoratore all’organizzazione del lavoro in azienda.
In definitiva, deve confermarsi che parte appellante ha disatteso le legittime direttive datoriali, rendendosi inadempiente alle proprie obbligazioni contrattuali e ponendo in essere una condotta disciplinarmente rilevante e foriera di conseguenze pregiudizievoli per la società datrice di lavoro, costretta a far effettuare ii viaggi rifiutati dall’appellante ad altro autista, con conseguente rigetto anche del secondo motivo di appello in esame.
4. Con il terzo motivo di appello la difesa del sig. a censurato la valutazione della nozione di proporzionalità del licenziamento compiuta dalla giudice del primo grado.
In particolare, si duole l’appellante, da un lato, che il Tribunale di Ivrea abbia ritenuto la condotta contestata come rientrante nell’ipotesi di insubordinazione e non in quella di interruzione anticipata della attività lavorativa, atteso che in quest’ultimo caso il CCNL prevedeva quale sanzione disciplinare unicamente la multa.
Dall’altro lato, la giudice di primo grado aveva errato nel ritenere che qualsiasi tipo di insubordinazione doveva ritenersi quale automatico motivo di licenziamento, anche tenuto conto che l’art. 32 CCNL, pur non esplicitando la condotta di insubordinazione, considerava quali giustificative del licenziamento condotte molto più gravi della disobbedienza alle direttive dei superiori.
Anche detto motivo di appello non può trovare accoglimento.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, che questa Corte condivide, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. Il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso si essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 cod. civ., cosicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ex art. 3, L. n. 604/66 o addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto ex art. 2119 cod. civ. Per tutte Cass. n. 26679/2017: “Per giustificare la giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve quindi risultare idonea a incidere sulla fiducia del datore di lavoro e a far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per gli interessi aziendali” (Cass. n. 23697/2017, Cass. n. 24014/2017).
Ai fini della valutazione della sussistenza del fatto contestato alla base del licenziamento disciplinare per giusta causa, questo deve configurarsi come fatto grave e idoneo a ledere l’affidamento del datore di lavoro in ordine alla futura correttezza della prestazione, non solo in sé considerato, ma altresì apprezzato in una valutazione globale dello svolgimento del rapporto di lavoro, in ossequio al principio di proporzionalità tra fatto e sanzione, e tenuto conto anche della recidiva.
La Suprema Corte ha statuito che:
“nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento fiduciario;
la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto” (cfr. Cass. n. 1475/2004, Cass. n. 12197/1999, Cass. n. 3270/1998). Dunque per valutare la legittimità del licenziamento è necessario accertare se:
1) la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore;
2) l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulti giustificata solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi Ciò premesso, va innanzitutto disattesa la prospettazione secondo la quale il fatto addebitato è l’anticipata interruzione dell’attività lavorativa, così come già rilevato al capo 2 di questa sentenza.
Le condotte contestate costituiscono insubordinazione del lavoratore, avendo egli disatteso i legittimi e non arbitrari ordini e direttive del datore di lavoro di svolgere due viaggi in due giornate lavorative differenti.
L’elemento soggettivo ed intenzionale appare di intensità rilevante atteso che, in una sola settimana in ben due occasioni ravvicinate, l’odierno appellante, disinteressandosi del buon andamento dell’organizzazione datoriale e della disciplina del lavoro in azienda, si è rifiutato di svolgere due incarichi affidatigli dal proprio superiore, oltretutto non esplicitando i motivi di tale rifiuto nell’immediatezza degli episodi, come riferito dal sig. , il quale, quanto meno per l’episodio del 3.10.2022, ha ricordato come la conversazione telefonica fosse stata chiusa dall’autista odierno appellante, il quale, dopo aver rifiutato “con tono duro, senza dare nessuna spiegazione” (cfr. deposizione teste ) di svolgere il viaggio richiesto, aveva poi chiuso la telefonata con il superiore, dimostrando spregio delle gerarchie aziendali e degli ordini impartiti dai propri superiori. A fronte di due rifiuti, non motivati nell’immediatezza dei fatti, a direttive legittime del soggetto incaricato dall’azienda di organizzare i viaggi degli autisti, rifiuto espresso in modo duro e senza possibilità di ragionamento e confronto con il superiore, cui addirittura in una occasione il lavoratore risulta aver chiuso la telefonata, e considerato ulteriormente che anche le motivazioni addotte per i rifiuti sono risultate non adeguatamente provate in giudizio e frutto di una valutazione dei rapporti contrattuali fra le parti improntati a comportamenti non solo non collaborativi, ma ingiustificatamente oppositivi, ritiene questa Corte che possa considerarsi effettivamente venuta meno in via definitiva la fiducia del datore di lavoro nel futuro corretto adempimento da parte dell’appellante della proficua prosecuzione del rapporto di lavoro, avendo manifestato il lavoratore incapacità a conformarsi alle legittime direttive aziendali, causando certamente disservizi nell’organizzazione del lavoro, dovendo il responsabile provvedere a contattare altro autista per lo svolgimento dei viaggi non effettuati dall’appellante. Quanto alla valutazione operata dalle parti sociali dei comportamenti legittimanti il comportamento legittimante qualsivoglia sanzione disciplinare, rientrando nel compito del giudice valutarne la gravità e rilevanza disciplinare.
In merito, appare opportuno rilevare che essa appare di disvalore assimilabile (o anche parzialmente maggiore) ad alcune delle condotte indicate dall’art. 32 come legittimanti il licenziamento, quali, ad esempio, la non comunicazione dell’assenza per malattia con i tempi e modi prescritti, o l’assenza ingiustificata per 4 volte in un anno, determinando, come le condotte suddette, un disservizio al regolare svolgimento dell’attività lavorativa e manifestando, parimenti, il disinteresse per l’ordinato e proficuo svolgimento del lavoro in azienda. E d’altronde, la pervicacia con cui l’appellante, in una sola settimana, in ben due occasioni, ha rifiutato di eseguire gli ordini non manifestamente illegittimi del proprio superiore (che richiedeva, si rammenta, lo svolgimento di due viaggi, uno neppure fuori Regione), colora in modo particolarmente intenso l’elemento soggettivo intenzionale della condotta, aggravando ulteriormente la condotta di insubordinazione posta in essere dall’odierno appellante.
Il licenziamento appare, dunque, reazione datoriale legittima, con conseguente rigetto anche del terzo motivo di appello.
5.
Con l’ultimo motivo di appello il sig. educe la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. per non avere la giudice di primo grado disposto la compensazione fra le parti delle spese di lite.
Si duole, in particolare, la difesa dell’appellante che la giudice di primo grado non abbia valorizzato, ai fini della compensazione delle spese di lite, la convinzione, in capo al lavoratore che le ore di lavoro straordinario erano scarsamente retribuite, così diminuendo il disvalore percepito dal dipendente riguardo la propria condotta;
eccepisce, inoltre, che l’insubordinazione per giustificare il licenziamento doveva ritenersi grave e tale non era immediatamente percepibile dal lavoratore;
rileva, infine, come tutti i suddetti elementi, oltre alle dimensioni dell’azienda e alle differenti capacità patrimoniali delle parti, avrebbero dovuto indurre a compensare le spese di lite.
Il motivo di appello non può trovare accoglimento.
Con la sentenza n. 77/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 92, comma 2 c.p.c. nella parte in cui non consente di compensare parzialmente o per intero le spese di lite ove ricorrano gravi ed eccezionali ragioni, ragioni” tutte quelle ipotesi analoghe a quelle tipizzate espressamente nell’art. 92 co. 2 c.p.c., ovvero che siano di pari o maggiore gravità ed eccezionalità, con la conseguenza che “l’assoluta novità della questione trattata” e il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti” assumono la sola funzione di parametro di riferimento per la determinazione dell’area di operatività della norma e non un ruolo tipizzante esclusivo. La Consulta ha chiarito che la condizione soggettiva di “lavoratore” non comporta alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro;
tuttavia ove “il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite”. Nella specie, peraltro, non ritiene la Corte siano ravvisabili i presupposti per disporre la compensazione, neppure parziale, delle spese di lite, atteso che il lavoratore al momento in cui ha deciso di impugnare giudizialmente li licenziamento aveva a disposizione tutti gli elementi di fatto decisivi per valutare la probabile fondatezza della propria domanda, mentre alcun rilievo – al fine della compensazione delle spese di lite – può attribuirsi allo stato soggettivo dello stesso, che ha allegato di agire nella convinzione che lo straordinario fosse scarsamente retribuito. Deve, pertanto, confermarsi la sentenza di primo grado anche in punto regolazione delle spese di lite.
6.
Le spese del presente grado seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo in conformità ai parametri vigenti tenuto conto del valore della causa, della non particolare complessità della stessa e dell’attività difensiva svolta.
Atteso che il procuratore di parte appellata ha dichiarato di essere antistatario, si dispone la distrazione delle spese di lite in suo favore.
Al rigetto dell’appello consegue ex lege (art. 1, commi 17-18, l. 228/2012) la dichiarazione che sussistono i presupposti per l’ulteriore pagamento, a carico dell’appellante, di un importo pari a quello del contributo unificato dovuto per Visto l’art. 437 c.p.c., Respinge l’appello ;
Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di lite in favore dell’appellata, che liquida in € 5.000,00, oltre 15% spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore dell’avvocato antistatario;
dichiara la sussistenza delle condizioni per il pagamento, a carico dell’appellante, dell’ulteriore importo pari al contributo previsto per l’impugnazione, se dovuto.
Così deciso all’udienza dell’11 giugno 2025 IL
CONSIGLIERE Est.
IL PRESIDENTE Dott. NOME COGNOME Dott. NOME COGNOME
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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