N. R.G. 808/2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI FIRENZE SECONDA
SEZIONE CIVILE
La Corte di Appello di Firenze, SECONDA SEZIONE CIVILE, in persona dei Magistrati:
dott. NOME COGNOME Presidente dott. NOME COGNOME Consigliere Relatore dott. NOME COGNOME Consigliere ha pronunciato la seguente
SENTENZA N._798_2025_- N._R.G._00000808_2023 DEL_29_04_2025 PUBBLICATA_IL_29_04_2025
nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 808/2023 promossa da:
(C.F. ), con il patrocinio dell’avv. COGNOME e dell’avv. COGNOME NOME COGNOME contro (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. COGNOME avverso la sentenza n. 274/2023 emessa dal Tribunale di Siena pubblicata il 30/03/2023
CONCLUSIONI
In data 28.2.2025 la causa veniva posta in decisione sulle seguenti conclusioni:
Per la parte appellante:
“Voglia l’Ecc.ma Corte d’Appello di Firenze adita, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, in riforma dell’impugnata sentenza e previa qualunque forma o statuizione, così giudicare:
Nel merito:
– accertare e dichiarare la nullità della sentenza appellata per tutti i motivi analiticamente esposti in narrativa, in particolare per aver ritenuto il Tribunale di Siena che con la documentazione versata in atti la allora parte attrice ovvero il ole che disciplinano l’attività bancaria caratterizzata da colpa (cfr. sentenza impugnata pagg. 7 e 8);
– accertare e dichiarare la nullità della sentenza appellata per tutti i motivi analiticamente esposti in narrativa, in particolare per aver il Tribunale di Siena nella persona del Giudice Unico Dott.ssa NOME COGNOME ritenuto che non ha dimostrato di aver assunto, con la concessione del credito, un gionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale e di superamento della crisi (cfr. sentenza impugnata pag. 9);
– accertare e dichiarare la nullità della sentenza appellata per tutti i motivi analiticamente esposti in narrativa, in particolare per aver la Dott.ssa NOME COGNOME ritenuto provata la richiesta di risarcimento del danno così come formulata dal lo h ili dell’accordo del 30 novembre 2017 (cfr. sentenza impugnata pag. 9);
– per l’effetto, e come già chiesto da ultimo con il foglio di precisazione delle conclusioni depositato in uno con le note di trattazione scritta in data 01 dicembre 2022, rigettare integralmente ogni avversaria domanda, sia essa principale e subordinata, perché infondata in fatto e diritto per le causali di cui in premessa, assolvendo da qualsivoglia richiesta di accertamento e condanna;
– per l’effetto, e sempre come già chiesto da ultimo con il foglio di precisazione delle conclusioni depositato in uno con le note di trattazione scritta in data 01 dicembre 2022, rigettare integralmente le avversarie generiche eccezioni e domande svolte da parte attrice sia in via preliminare che nel merito, nei confronti di o comunque spieganti effetti nei confronti della qui deducente, in date in fatto e diritto per le causali di cui in narrativa;
– in ogni caso, rigettare integralmente ogni avversaria domanda, sia essa principale o subordinata, preliminare o di merito, perché tutte infondate in fatto e diritto per le causali di cui in premessa e per l’effetto assolvere la odierna appellante da qualsivoglia richiesta di accertamento, pagamento e condanna;
– alla luce di quanto statuito con la sentenza di primo grado di giudizio impugnata, condannare la parte appellata al rimborso in favore della parte appellante delle somme eventualmente versate nelle more del giudizio in esecuzione della sentenza di primo grado ovvero sia della condanna al pagamento di Euro 270.031,53 oltre interessi dal dovuto al saldo sia della condanna al pagamento delle spese e competenze del giudizio liquidate in Euro 11.229,00 per compensi, Euro 1.241,00 per spese, oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CAP se per legge. Con vittoria di spese e compensi professionali dei due gradi di giudizio oltre accessori di legge”.
Per la parte appellata:
“Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello adita, disattesa ogni contraria istanza, IN VIA PRELIMINARE, dichiarare l’inammissibilità dell’appello;
NEL MERITO, dichiarare la manifesta infondatezza dell’appello e, comunque, rigettare integralmente il gravame e le eccezioni e le domande tutte ivi contenute per tutti i motivi esposti in atti e, per l’effetto, confermare in ogni sua statuizione la sentenza appellata.
Con vittoria di spese, diritti ed onorari”.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il giudizio di primo grado (di seguito anche solo APPELLATO o fallimento) citava in giudizio, davanti al Tribunale di Siena, la società (di seguito anche solo APPELLANTE o o concedente) per chiedere il risarcimento del danno conseguente all’abusiva concessione del credito alla società in un momento in cui era formalmente in bonis, ma sostanzialmente in stato di dissesto economico- finanziario, se non addirittura di insolvenza.
In particolare, la Curatela deduceva che:
– con contratto di locazione finanziaria n. 1158225 del 25.10.2007 aveva concesso in locazione finanziaria ad una porzione di immobile facente parte di un più ampio complesso sito nel Comune di Perugia;
– il contratto, della durata originaria di 15 anni (poi allungato a 18), per un importo complessivo di € 2.130.168,00, prevedeva il pagamento della prima rata pari al 15% dell’importo finanziato e di ulteriori 179 corrispettivi mensili;
– in data 30.11.2017 l’utilizzatrice e la concedente avevano sottoscritto un accordo con il quale, stante l’arretrato maturato di € 220.547,35, aveva concesso una moratoria di 24 mesi (dal canone non pagato del 01.10.2015 al 1.9.2017), con una riduzione dello scaduto da € 220.547,35 ad € 63.550,19 e postergazione del pagamento della differenza, pari ad € 156.997,16;
– in forza di tale accordo la concedente aveva ottenuto il pagamento del residuo scaduto di € 63.550,19 oltre interessi mediante un assegno di € 33.000,00 all’atto della sottoscrizione dell’accordo e la restante somma entro il dicembre 2017 e la cessione dei crediti di per i canoni di locazione commerciale sottoscritti con terzi, concedendo in cambio un allungamento della durata contrattuale da 18 a 25 anni;
– in data 28.2.2019 la concedente, preso atto che lo scaduto ammontava ad € 136.030,81, aveva comunicato all’utilizzatore la risoluzione del contratto e aveva depositato istanza di fallimento, dichiarato con sentenza del 11.2.2021;
– nelle more, tra la sottoscrizione dell’accordo del 30.11.2017 e il fallimento, la concedente aveva percepito, oltre al pagamento di € 69.458,13, anche € 135.220,88 per l’incasso dei crediti ceduti.
Il fallimento allegava inoltre che la società poi fallita già al momento della sottoscrizione dell’accordo del 30.11.2017 si trovava in stato di dissesto economico finanziario e/o di insolvenza, avendo maturato debiti scaduti per € 220.547,35, tanto che la stessa concedente, pochi mesi prima della sottoscrizione dell’accordo, in data 4.5.2017, si era già avvalsa della clausola risolutiva espressa.
Lo stato di dissesto, poi, era conoscibile alla concedente, in quanto chiaramente evincibile dai bilanci.
Il danno, quindi, veniva quantificato in misura pari a quanto percepito a seguito dell’accordo del 30.11.2017, ovvero € 69.458,13 corrisposti direttamente da ed € 135.220,88 per i crediti incassati fino alla dichiarazione di fallimento, oltre al pagamento del debito IMU maturato dopo il 30.11.2017, pari ad € 65.352,52 ed € 19.218,11 per ritenute, imposta ed Irap relative alle annualità 2017, 2018 e 2019, per le quali l’Agenzia delle Entrate ha proposto istanza di ammissione al passivo.
Si costituiva la convenuta chiedendo in via preliminare la sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello di opposizione allo stato passivo pendente avanti al Tribunale di Perugia, nel quale erano state dedotte le medesime questioni;
sempre in via preliminare la convenuta eccepiva il mancato esperimento del procedimento obbligatorio di mediazione.
Nel merito, contestava i presupposti della domanda avversaria, affermando di essersi limitata a venire incontro alle esigenze della società utilizzatrice e contestando che la stessa si trovasse in stato di dissesto, in quanto il debito maturato alla data di risoluzione del contratto, pari ad € 192.838,15, corrispondeva ad una somma minima rispetto all’entità dell’intera operazione, e comunque non poteva essere considerata l’ulteriore somma di € 49.981,68, dovuta a titolo di indennità di occupazione.
La causa veniva istruita a mezzo di documenti per poi giungere in decisione.
La sentenza impugnata Con la sentenza n. 274/2023 pubblicata il 30/03/2023 il Tribunale di Siena così statuiva:
“il Tribunale, definitivamente pronunziando nella causa in epigrafe, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così provvede:
in accoglimento della domanda avanzata da , accertata l’abusiva concessione di credito da parte di servizi finanziari alle imprese s.p.a., condanna la convenuta al pagamento in favore di parte attrice di € 270.031,53 oltre interessi dal dovuto al saldo;
rigetta il resto;
condanna alla rifusione delle spese di lite in favore di che liquida in € 11.229,00 per compensi, € 1.241,00 per spese, oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CAP se per legge”.
In particolare, il giudice riteneva provata la colpa della concedente nella concessione dell’ulteriore credito, non avendo questa provato di avere assunto un rischio non irragionevole.
Così argomentava il decidente:
“Si deve in primo luogo evidenziare che già con comunicazione del 4.5.2017 la concedente era avvalsa della clausola risolutiva espressa stante l’inadempimento dell’utilizzatrice al pagamento dei canoni di leasing, segno di un’evidente difficoltà economico-finanziaria.
Infatti, l’utilizzatrice aveva corrisposto regolarmente i canoni solo dalla prima fattura del 1.8.2011 fino al giugno 2014, mentre successivamente aveva iniziato a maturare insoluti coperti solo parzialmente per poi cessare definitivamente i pagamenti ad agosto 2015.
Oltre a ciò si consideri che dall’analisi dei bilanci emergeva ulteriore conferma del sostanziale stato di crisi dell’impresa.
In particolare, dal bilancio al 31.12.2015 e al 31.12.2016 (doc. 4 fasc. attrice) risultava una costante riduzione dei fatturati della società, passati da € 331.393,00 nel 2011 ad € 324.356,00 nel 2012, ad € 294.158,00 nel 2013, ad € 237.532,00 nel 2014, ad € 160.475,00 nel 2015 e ad € 85.112,00 nel 2016.
Inoltre, la concedente avrebbe dovuto considerare anche che i crediti iscritti in bilancio al 31.12.2016, pari ad € 256.806,00 erano riconducibili esclusivamente a crediti verso i clienti e l’importo rappresentava oltre il triplo del fatturato conseguito nel medesimo anno.
Sempre dal bilancio al 31.12.2016 risultava, inoltre, quanto alla situazione debitoria:
– debiti verso fornitori per € 163.458,00;
– debiti verso le banche per € 65.733,00;
– debiti tributari per € 51.686,00;
– debiti verso istituti di previdenza per € 10.468,00.
Si consideri, altresì, che lo stesso accordo del 30.11.2017 aveva previsto che parte del dovuto, buona parte per la precisione, fosse corrisposto attraverso cessioni di crediti di verso terzi, con la previsione inoltre di ulteriori cessioni in caso di mancato integrale soddisfacimento di quanto dovuto.
Si noti, inoltre, che parte convenuta non ha allegato nemmeno di aver chiesto alla società debitrice un piano economico-finanziario idoneo ad attestare la sua capacità di fronte agli impegni derivanti dalla stipula dell’accordo, né ha allegato di aver svolto verifiche in ordine alla consistenza economico-patrimoniale della società.
Parte convenuta, pertanto, non ha dimostrato di aver assunto, con la concessione del credito, un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi (Cass. 18610/21), non avendo allegato nemmeno di aver assunto alcuna documentazione o notizie in merito allo stato economico- patrimoniale della Il danno veniva poi ritenuto pari alle somme percepite in forza dell’accordo, maggiorate del debito per IMU. Non veniva invece ritenuto dovuto il risarcimento per le somme per le quali vi era stata l’ammissione al passivo a titolo di imposte, in quanto il relativo esborso non era conseguenza della concessione del credito ulteriore.
Il giudizio di appello Con atto di citazione, regolarmente notificato, conveniva in giudizio, innanzi questa Corte di Appello proponendo gravame avverso la sopra richiamata sentenza.
Parte appellante ritenendo la sentenza gravata errata e ingiusta, la impugnava relativamente ai seguenti capi:
1) quello con cui è stato ritenuto che con la documentazione versata in atti la allora parte attrice abbia provato la condotta violativa da parte di delle regole che disciplinano l’attività bancaria caratterizzata da colpa;
2) quello in cui è stato ritenuto che non avesse dimostrato di aver assunto, con la concessione del credito, un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale e di superamento della crisi;
3) quello con cui è stata ritenuta provata la richiesta di risarcimento del danno, comprendendo anche somme non direttamente riconducibili dell’accordo del 30 novembre 2017.
Per tali ragioni veniva pertanto formulata dall’appellante richiesta di riforma della sentenza gravata in accoglimento delle conclusioni come in epigrafe trascritte, con condanna della controparte alla rifusione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.
Radicatosi il contraddittorio, nel costituirsi in giudizio, il fallimento eccepiva in via preliminare l’inammissibilità dell’appello e nel merito contestava, perché infondate, le censure mosse da parte appellante nei confronti della sentenza impugnata, della quale chiedeva per contro la conferma con vittoria delle spese anche in questo grado di giudizio.
Senza svolgimento di alcuna attività istruttoria, la causa era trattenuta in decisione sulle conclusioni riportate in epigrafe e veniva discussa all’odierna camera di consiglio dopo la decorrenza dei termini concessi per il deposito delle difese conclusionali.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare va disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c..
Tale norma, anche nell’attuale formulazione, richiede all’appellante, al pari di quanto già avveniva nel vigore della precedente formulazione, di articolare i motivi di gravame in una parte volitiva – vale a dire l’individuazione dell’oggetto e della latitudine della cognizione devoluta al giudice di appello – ed una parte argomentativa – vale a dire l’esposizione delle ragioni di erroneità di ciascuna delle statuizioni impugnate.
Tuttavia, è ormai pacifico in giurisprudenza che, da un lato, la specificità delle censure rivolte alla sentenza impugnata deve proporzionarsi all’ampiezza ed alla specificità della motivazione della stessa
(cfr. ex multis Cass. S.U. n. 27199/2017) e, d’altro lato, “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020). Nella specie il gravame è stato proposto nel sostanziale rispetto delle prescrizioni di legge come chiarite in via pretoria, risultando indicate in maniera comprensibile le ragioni di doglianza, come sopra accennate, unitamente alle modifiche richieste, col corredo di un apparato argomentativo più che proporzionato all’ampiezza e al grado di approfondimento raggiunto nella corrispondente parte della sentenza gravata.
Occorre altresì premettere che le parti dimostrano di condividere, per quanto implicitamente, i principi giuridici espressi dal giudice di prime cure nella sua decisione, che peraltro sono conformi alla giurisprudenza costante.
E’ pertanto sufficiente richiamare i principi fondamentali indicati nella sentenza impugnata:
– in caso di fallimento della società alla quale sia stato concesso credito in maniera abusiva, il curatore fallimentare è legittimato ad agire per il ristoro del danno anche per conto della massa;
– nel concetto di concessione del credito rientrano la concessione, il rinnovo o la proroga di un finanziamento;
– sussiste la responsabilità della banca ove tenga una condotta, dolosa o colposa, diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore in stato di dissesto, in tal modo cagionando al patrimonio del medesimo un danno, pari all’aggravamento del dissesto, nonché delle perdite generate dalle nuove operazioni così favorite;
– a fronte della richiesta di una proroga o reiterazione di finanziamento, ai fini della valutazione della sussistenza di responsabilità o meno in capo alla banca, il giudice, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, è tenuto a valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agito con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento; – ciò che rileva non è tanto che l’impresa finanziata fosse in stato di crisi o d’insolvenza, pur noto al finanziatore, quanto l’insussistenza di fondate prospettive, in base alla ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi;
– grava su colui che domanda il risarcimento del danno dedurre e provare:
a) la condotta violativa delle regole che disciplinano l’attività bancaria, caratterizzata da dolo o almeno da colpa, intesa come imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p.;
b) il danno- evento, dato dalla prosecuzione dell’attività d’impresa in perdita;
c) il danno- conseguenza, rappresentato dall’aumento del dissesto;
d) il rapporto di causalità fra tali danni e la condotta tenuta.
Giova altresì descrivere preliminarmente contenuto dell’accordo transattivo al quale viene ricollegata l’abusiva proroga del credito.
Il 30 novembre 2017 hanno sottoscritto un atto integrativo al contratto di leasing, avente natura di accordo transattivo, attraverso il quale l’ si è riconosciuta debitrice dell’importo di Euro 220.457,35 ed ha ottenuto una moratoria di 24 mesi del debito scaduto (dal 01 ottobre 2015 al 01 settembre 2017), con un prolungamento del contratto di locazione finanziaria, portando la scadenza del contratto all’1.6.2036, riducendo quindi l’ammontare del debito scaduto a complessivi € 87.181,93.
A fronte di tale concessione l’utilizzatrice si è impegnata a corrispondere la somma di Euro 69.458,13, di cui Euro 33.000,00 alla firma dell’accordo ed Euro 36.458,13 entro e non oltre il 31 dicembre 2017, nonché a cedere i crediti derivanti dai contratti di sublocazione di porzioni dell’immobile oggetto del leasing.
La concedente ha rinunciato anche a parte delle garanzie originariamente ricevute.
Passando alla disamina dell’avanzato gravame, si osserva quanto segue.
4.1.
La critica contenuta nel primo motivo di gravame è infondata.
Con il primo motivo l’appellante contesta l’affermazione secondo cui il danno subito dalla società fallita sarebbe la conseguenza della stipula dell’accordo transattivo, evidenziando che il contratto di leasing è stato stipulato 14 anni Parte prima della dichiarazione di fallimento e anche gli accordi integrativi degli anni 2009 e 2017 sono di gran lunga antecedenti all’apertura della procedura concorsuale, e quindi sono stati raggiunti in un momento in cui la società era in bonis ed era in grado di far fronte alle obbligazioni assunte. La capacità di far fronte alle obbligazioni assunte sarebbe confermata dal fatto che, come ammesso dalla controparte, “nel periodo intercorrente tra la sottoscrizione dell’accordo del 30 novembre 2017 e la data di fallimento, aveva ottenuto in pagamento dalla deducente euro 69.458,13 nonché gli ulteriori importi di euro 135.220,88”.
A tale riguardo si osserva che il mero dato temporale non è decisivo ai fini delle valutazioni utili per risolvere la controversia.
Il fatto che il fallimento sia intervenuto solo tempo dopo la sottoscrizione dell’accordo transattivo, infatti, ben potrebbe essere la semplice conseguenza del fatto che con l’abusiva concessione del credito si sia garantita l’ulteriore operatività di un soggetto in realtà da tempo decotto.
Anche il fatto che le obbligazioni assunte nei confronti di con l’atto transattivo siano state rispettate non è di per sé decisivo, dovendo essere valutata la situazione finanziaria della società al momento della dilazione del credito.
Come correttamente evidenzia il giudice di prime cure, infatti, ciò che rende legittima la condotta dell’istituto di credito è che si sia assunto, con la concessione del credito, un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito ai detti scopi (Cass. 18610/21). Ciò che è dirimente, quindi, è verificare se, tramite una valutazione ex ante, fosse possibile prevedere che la situazione di crisi dell’impresa fosse superabile, e non Parte tanto quindi che fosse in grado di far fronte alle obbligazioni assunte con lo specifico atto.
In tale ottica non risulta rilevante neppure il fatto che il debito complessivo scaduto fosse nettamente inferiore all’ammontare del credito originario.
Come meglio verrà argomentato in sede di esame del secondo motivo di appello, ciò che è decisivo è verificare se al momento della concessione del credito vi fossero o meno elementi oggettivi dai quali desumere, usando la diligenza del professionista bancario, che la crisi fosse superabile per effetto delle concessioni ricevute.
4.2.
Sotto un diverso profilo l’appellante deduce che “l’ulteriore credito di Euro 49.981,68 per cui si è chiesta l’ammissione al passivo avanti al Tribunale di Perugia corrisponde all’indennità di occupazione dell’immobile oggetto di leasing, maturata dalla risoluzione del contratto sino alla data di fallimento ed evidentemente lo stesso non poteva essere incluso nelle valutazioni per fondare una eventuale responsabilità di A tale riguardo, però, si osserva che il giudice ha parametrato il danno risarcibile alle somme percepite dalla convenuta a seguito della conclusione dell’accordo del 30.11.2017, ovvero: – € 69.458,13 corrisposti da alla convenuta in forza di detto accordo;
– € 135.220,88 relativi alle cessioni di crediti vantati da nei confronti di terzi ed incassati dalla convenuta come dalla stessa riconosciuto;
– € 65.352,52 a titolo di debito IMU maturato dall’utilizzatrice dal 2017.
Non vi è stato pertanto fatto alcun riferimento al debito che è stato estinto.
Risulta pertanto ininfluente, nell’ottica della decisione, il fatto che con i pagamenti sia stato estinto anche il debito per occupazione illegittima dell’immobile.
Il motivo di impugnazione, quindi, non si confronta correttamente con la pronuncia impugnata e conseguentemente risulta inammissibile.
4.3.
La seconda censura alla sentenza impugnata è infondata.
Con il secondo motivo l’appellante deduce che il giudice non avrebbe correttamente governato i principi giuridici che affermava di applicare.
Viene in particolare riportato il seguente passaggio della sentenza della Corte di Cassazione n. 18610/2021 (citata anche dal giudice di primo grado) “onde ogni accertamento, ad opera del giudice del merito, dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agìto con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento. Tale seconda situazione potrà, ad esempio, verificarsi ove la banca – pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa – abbia operato nell’intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile. Sarà compito del giudice del merito individuare lo spazio ammissibile per il finanziamento lecito, allorché, pur se concesso in presenza di una situazione di difficoltà economico-finanziaria dell’impresa, sussistevano ragionevoli prospettive di risanamento”.
A giudizio dell’appellante essa aveva sufficientemente dimostrato di avere agito al fine di risanare l’azienda, per cui il giudice di primo grado avrebbe errato nel ritenere abusiva la sua condotta.
Tale rilievo è infondato.
Il Tribunale di Siena ha correttamente applicato i principi giurisprudenziali richiamati anche da Come si desume dalla pronuncia richiamata, non è infatti sufficiente che il creditore abbia agito nell’intento di risanare l’impresa debitrice, dovendo anche emergere che il suo intervento non sia stato irragionevole, in quanto intervenuto in un momento in cui non vi era più una concreta possibilità di ottenere lo scopo perseguito.
A tale riguardo risulta decisivo evidenziare, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, che dai bilanci della società emergevano dati univoci in ordine al fatto che la situazione di crisi non fosse transitoria, essendosi il fatturato costantemente e consistentemente ridotto nel corso degli anni ed emergendo una stabile incapacità di far fronte alle obbligazioni, non venendo corrisposti da anni i canoni di leasing, con un indebitamento complessivo ampiamente superiore al fatturato.
Con la cessione dei crediti, poi, veniva ulteriormente ridotta la liquidità della società, rendendo sostanzialmente impossibile onorare i debiti nei confronti dei creditori diversi da Per di più, dall’esame del bilancio risultava già evidente l’insostenibilità dl nuovo piano di ammortamento, visto che esso prevedeva un esborso complessivo per ciascun anno di € 81.937,20 (pari ad una rata mensile di € 6.628,10), quasi corrispondente all’intero fatturato prodotto nell’esercizio precedente alla stipula, pari ad € 85.112,00. In assenza di elementi che portassero a ritenere verosimile un’inversione nella tendenza al ribasso del fatturato, poi, non era ragionevole supporre che la società potesse in futuro far fronte al pagamento dei canoni di leasing, inadempiuti anche quando gli incassi erano di molto superiori all’epoca di redazione dell’atto transattivo.
4.4.
La terza censura alla sentenza impugnata è infondata.
Con il terzo motivo l’appellante torna a lamentarsi della quantificazione del danno.
Afferma che la decisione di ricomprendere nella liquidazione la somma di € 69.458,13 sarebbe errata, trattandosi di un debito scaduto precedentemente e corrisposto.
Quanto al debito per IMU, essendo un’imposta collegata al possesso di un immobile, il pagamento avrebbe dovuto essere effettuato dalla utilizzatrice, specie considerando la sua inerzia nel restituirlo.
Occorre premettere che l’azione svolta nel presente giudizio è quella tesa ad ottenere il risarcimento del danno patito dalla società per effetto della condotta illecita che viene attribuita a consistita nell’aver procrastinato il suo stato di insolvenza mediante un’abusiva dilazione del debito, con ciò aggravando il dissesto.
In quest’ottica, quindi, il danno va individuato nei maggiori oneri sostenuti dalla società per effetto della continuazione dell’attività di impresa nonostante lo stato di insolvenza.
Si tratta di una fattispecie analoga a quella disciplinata dall’art. 2486 c.c., sebbene in tal caso il soggetto responsabile dell’indebita protrazione dell’attività illecita sia l’amministratore della società.
In tale ipotesi il legislatore, consapevole della difficoltà di quantificare esattamente il danno, ha previsto una presunzione secondo la quale “il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”. Sebbene la norma non sia direttamente applicabile alla fattispecie, tale criterio può comunque essere mutuato.
Nel caso in esame il danno può essere individuato nel fatto che, nonostante si fosse avvalsa della facoltà di risolvere del contratto, attraverso l’accordo transattivo ha ottenuto che lo stesso rimanesse formalmente in essere, così da poter incassare i crediti ceduti, oltre alle somme versate nell’immediatezza, laddove, qualora si fosse manifestato lo stato di insolvenza, avrebbe dovuto rivalersi in sede concorsuale, con minori probabilità di rimanere soddisfatta.
In quest’ottica, quindi, risulta corretto individuare nelle somme versate in forza dell’accordo transattivo il danno patito dalla società.
Quanto all’IMU, poi, è corretto il riferimento operato dal giudice di primo grado al fatto che per effetto della risoluzione del contratto di leasing l’imposta avrebbe dovuto gravare sulla concedente, a prescindere dal fatto che l’immobile fosse o meno rientrato nella sua disponibilità (Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 29973 del 19/11/2019).
Attraverso l’indebita protrazione del rapporto, quindi, ha ottenuto la possibilità che l’imposta gravasse sull’utilizzatrice, causandole un danno di pari importo.
La liquidazione operata dal giudice risulta pertanto corretta.
L’appello deve conseguentemente essere respinto e, in applicazione del principio di soccombenza, spese processuali del presente grado del giudizio devono essere poste a carico dell’odierna appellante nella misura liquidata in dispositivo, ai sensi del D.M. 55/2014 come modificato dal D.M. n. 147 del 13/08/2022, in relazione al valore effettivo della controversia ed all’attività svolta.
Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il pagamento del contributo unificato in misura doppia.
La Corte di Appello di Firenze, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria domanda, eccezione, istanza e deduzione, sull’appello proposto da nei confronti del avverso la sentenza n. 274/2023 emessa dal Tribunale di Siena e pubblicata il 30/03/2023, così provvede:
1. rigetta l’appello e per l’effetto conferma integralmente la sentenza impugnata;
2. condanna a rifondere al fallimento appellato le spese di costituzione nel presente giudizio, che liquida in complessivi € 9.991 per compensi di avvocato, oltre al rimborso delle spese generali del 15%, IVA e CPA, come per legge;
3. dichiara che sussistono in capo all’appellante i presupposti per il pagamento del contributo unificato in misura doppia.
Firenze, camera di consiglio del 28 aprile 2025.
Il Consigliere relatore ed estensore dott. NOME COGNOME Il Presidente dott. NOME COGNOME Nota La divulgazione del presente provvedimento, al di fuori dell’ambito strettamente processuale, è condizionata all’eliminazione di tutti i dati sensibili in esso contenuti ai sensi della normativa sulla privacy ex D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196 e successive modificazioni e integrazioni.
La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di
Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.
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