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Divisa aziendale come strumento di lavoro e non retribuzione

La sentenza chiarisce la distinzione tra benefit accessori alla retribuzione e strumenti di lavoro forniti al dipendente per l’esecuzione della prestazione. Viene ribadito il principio di omnicomprensività della retribuzione, evidenziando come solo gli elementi che costituiscono un vantaggio economico per il lavoratore, oltre la normale retribuzione, debbano essere considerati nel calcolo del trattamento di fine rapporto.

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Pubblicato il 28 maggio 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA

in nome del popolo italiano La Corte di Appello di Firenze Sezione Lavoro composta da dr. NOME COGNOME Presidente dr. NOME COGNOME Consigliera dr.

NOME COGNOME Consigliera rel. nella causa iscritta al n. r.g. 36/2024 promossa da:

con gli avv.ti NOME COGNOME, NOME COGNOME ricorrente in riassunzione contro , quali eredi di con l’avv. NOME COGNOME resistenti in riassunzione resistente contumace avente ad oggetto:

giudizio di rinvio all’esito dell’ordinanza della Suprema Corte n. 29950/2023, pubblicata il 27.10.2023 all’esito della camera di consiglio dell’udienza del 5 novembre 2024, ha pronunciato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA N._610_2024_- N._R.G._00000036_2024 DEL_28_04_2025 PUBBLICATA_IL_28_04_2025

Con sentenza n. 8/2020, pubblicata il 9.1.2020, il Tribunale di Firenze aveva il accolto il ricorso proposto dagli odierni appellati nei confronti di con il quale i lavoratori avevano chiesto di accertare la nullità delle clausole degli accordi collettivi che escludevano il Tribunale, nel merito, aveva accolto la domanda dichiarando il diritto dei lavoratori ad includere nell’indennità di buonuscita /tfr le voci retributive rivendicate in giudizio, nella misura calcolata dalla consulenza contabile che includeva anche l’equivalente monetario della massa vestiario. In merito a quest’ultima voce, aveva ritenuto la natura retributiva dell’equivalente monetario della massa vestiario (controvalore economico virtuale della divisa di lavoro che i ricorrenti erano tenuti ad indossare in quanto operatori di esercizio), sul presupposto del carattere corrispettivo, da un lato, dell’obbligo della società di fornire la divisa e, dall’altro lato, del dipendente di indossarla.

Tale sinallagma rendeva il fatto di indossare la divisa una modalità obbligatoria della prestazione, presupposto dell’esatto adempimento di entrambe le parti del rapporto.

Di conseguenza, gli accordi aziendali che ponevano a carico integrale della società il costo degli indumenti si riferivano ad una voce retributiva corrisposta in natura, poiché assicuravano al lavoratore un trattamento economico migliorativo, che a sua volta compensava una modalità vincolata della prestazione.

Quindi, le società erano state condannate in solido ad accantonare sul tfr la differenza maturata di riflesso alla inclusione di tutte le voci rivendicate, con versamento di una somma a oltre al pagamento delle spese di lite liquidate in complessivi €. 23.089,50 a titolo di compenso oltre accessori.

Infine, a carico solidale delle stesse società era stato posto in via definitiva il compenso liquidato al CTU contabile.

Con sentenza n. 258/2021, pubblicata il 2.7.2021, la Corte di Appello di Firenze, aveva respinto l’appello di confermando integralmente la decisione anche quanto al carattere retributivo dell’equivalente monetario della massa vestiario (divisa), ed alla sua conseguente inclusione nella base di calcolo del tfr.

A proposito di quest’ultima voce, aveva premesso il carattere pacifico dell’obbligo di indossare la divisa da parte degli operatori di esercizio, quale segno distintivo di riconoscimento nei confronti degli utenti.

Non si trattava quindi di uno strumento di lavoro, poiché la prestazione avrebbe potuto essere svolta con le stesse modalità anche con indumenti anonimi.

Le fonti collettive addebitavano integralmente al datore il costo della divisa, che doveva essere fornita ai dipendenti a garanzia della loro riconoscibilità in favore della stessa società.

A tale interesse aziendale si affiancava quello del lavoratore che non avrebbe di riflesso utilizzato, e quindi consumato, il proprio abbigliamento personale.

L’accordo collettivo stipulato da nel giugno 1990 stabiliva che il costo della divisa doveva essere imputato al 70% alla società, e per il residuo 30% al lavoratore, e che alla cessazione del rapporto (per motivi diversi dal pensionamento) il lavoratore avrebbe trattenuto la divisa pagando Corte di appello aveva quindi condannato l’appellante al pagamento delle spese di lite di secondo grado sostenute dai lavoratori, liquidate in €. 7.320,00 di compenso oltre accessori, con distrazione in favore della procuratrice antistataria NOME COGNOME. Con ordinanza n. 29950/2023 pubblicata il 27.10.2023, la Suprema Corte aveva accolto congiuntamente i tre motivi di ricorso con i quali aveva censurato la sentenza di secondo grado limitatamente alla sola inclusione dell’equivalente monetario della massa vestiario nella base di calcolo del tfr, pronunciando in continuità all’orientamento già espresso da Cass. n. 24401/2022 e n. 24394/2022.

Di conseguenza, il giudizio era stato rinviato a questa Corte perché valutasse la natura retributiva o risarcitoria di tale singola voce, anche alla luce degli accordi sindacali aziendali del 1990 e del 2001 “nei quali si rinviene la previsione di un addebito del costo della divisa esclusivamente a carico del datore..

sia in fase di acquisto che in caso di restituzione delle uniformi alla cessazione del rapporto di lavoro”.

ha riassunto la causa, chiedendo che la divisa fosse ritenuta uno strumento di lavoro, e non una retribuzione in natura, e che quindi l’equivalente monetario della massa vestiario non fosse qualificato come corrispettivo per la prestazione, bensì il controvalore economico di uno strumento fornito dal datore.

Di conseguenza, in linea con il più recente orientamento di legittimità espresso dall’ordinanza rescindente, doveva essere respinta la domanda dei lavoratori tesa ad includere anche l’equivalente monetario della massa vestiario negli accantonamenti destinati ai trattamenti finali del rapporto.

Il presente giudizio di rinvio derivava dalla constatazione che, nelle precedenti fasi di merito, non erano stati interpretati gli accordi collettivi del giugno 1990 e del dicembre 2001, in relazione ai quali invece era argomentata l’ordinanza rescindente.

Ribadiva le circostanze, già ritenute dalla Corte rescindente, a proposito del fatto che il costo della divisa era a carico integrale della società sia all’inizio del rapporto, quando il bene era consegnato al lavoratore, sia alla sua cessazione, quando il lavoratore poteva trattenerlo.

Infatti, in entrambe le occasioni, il costo era sostenuto solo dalla società poiché indossare la divisa corrispondeva all’esclusivo interesse datoriale che gli operatori di esercizio fossero riconoscibili, e rispettabili, nel loro aspetto.

La divisa non rappresentava un beneficio aggiuntivo concesso al lavoratore di riflesso alla prestazione, né un parziale controvalore nell’ambito del rapporto di scambio.

Chiedeva quindi che, respinta la domanda, ai sensi dell’art. 389 cpc i lavoratori fossero condannati a restituire quanto già ricevuto nei precedenti gradi di merito per il solo titolo qui controverso, con il favore delle spese.

sono costituiti , quali eredi di In via preliminare, i resistenti avevano svolto le seguenti eccezioni:

1) inammissibilità/nullità del ricorso in riassunzione per indeterminatezza del provvedimento impugnato, essendo omessa l’allegazione nel corpo del ricorso delle statuizioni della sentenza impugnata, del dispositivo e delle somme riconosciute 2) inammissibilità/nullità del ricorso in riassunzione per violazione del requisito di specificità dei motivi di appello (art. 434 n. 1 e 2 cpc), mancando l’indicazione dei capi impugnati della sentenza del Tribunale, della motivazione che si assume viziata e delle relative censure 3) inammissibilità/nullità del ricorso in riassunzione per indeterminatezza, genericità e contraddittorietà dell’oggetto e del petitum dell’appello, per avere la società chiesto da un lato la riforma della sentenza del Tribunale nei limiti della questione controversa (massa vestiario), e dall’altro lato il rigetto della domanda dei lavoratori senza alcuna specificazione dei relativi titoli, riferendosi quindi all’intera domanda che cumulava anche voci diverse dalla massa vestiario; in particolare, il vizio in esame derivava dal fatto che non erano state richieste modifiche specifiche alla sentenza impugnata, mentre la società avrebbe dovuto precisare gli importi retributivi riconosciuti a titolo di massa vestiario, o quantomeno il criterio per determinarli, in modo da chiedere la corrispondente riduzione di quanto riconosciuto in sentenza per il complesso delle voci retributive da includere nella base di calcolo dei trattamenti finali 4) indeterminatezza e genericità della domanda di condanna alla restituzione di quanto pagato in base alle sentenze di merito, senza precisare il relativo titolo giuridico del preteso obbligo restitutorio né la necessaria quantificazione del preteso credito alla restituzione 5) inammissibilità della domanda riferita alle spese di primo grado perché difforme dalle conclusioni già rassegnate dalla stessa società nel precedente giudizio di appello.

Nel merito, i resistenti avevano chiesto di ribadire il carattere retributivo alla divisa quale bene in natura (come già avevano fatto il Tribunale e la Corte di Appello nelle precedenti fasi di merito), previo esame delle fonti negoziali sulla base e rimediando agli errori della precedente sentenza di appello quanto al richiamo delle fonti contrattuali aziendali.

In particolare, il primo errore consisteva nel richiamo agli accordi aziendali del 27 giugno 1990 e del 27 dicembre 2001, come fondamento della natura retributiva della massa vestiario, nonostante che tali accordi ponessero il relativo costo a carico esclusivo del datore sia al momento dell’acquisto che ”, “inficiato da errore” indotto dalle “false allegazioni di (pag. 10 memoria).

La società aveva sostenuto che, alla fine del rapporto, il dipendente poteva scegliere se trattenere la divisa e pagare una somma equivalente, oppure restituirla e non pagare alcunché.

Ma tale alternativa non esisteva, poiché il dipendente aveva l’obbligo di trattenere la divisa e subire il corrispondente addebito del controvalore, mentre la restituzione poteva riguardare il solo, rarissimo, caso di un capo nuovo, mai usato.

Ed era appunto sulla base di tali errati richiami alle fonti negoziali aziendali che la Cassazione aveva rinviato a questa Corte per motivare più adeguatamente sull’interpretazione degli accordi stessi.

Per di più, la ordinanza rescindente nel presente giudizio era lacunosa anche perché non si era pronunciata sulle denunciate violazioni delle fonti nazionali, sia di legge che di contratto collettivo, mentre più complete erano le altre ordinanze di rinvio emesse contemporaneamente in giudizi seriali promossi da che avevano respinto i primi due motivi di ricorso della società, quanto alla pretesa natura della massa vestiario di strumento di lavoro nell’esclusivo interesse aziendale (Cass. n. 3762/2023, n. 3145/2023, n. 3146/2023). In conclusione, integrando la ordinanza rescindente del presente giudizio con le altre ora richiamate, anche nel caso in esame dovevano ritenersi respinti i primi due motivi di ricorso di Come si ricavava dalla combinazione fra le fonti normative e negoziali di primo e secondo livello contrattuale, in tema di divisa vi era una connessione delle reciproche obbligazioni radicata nello scambio contrattuale fra le parti (obbligo della società di fornire la divisa e obbligo del dipendente di indossarla durante la prestazione), nonché una utilità economica della stessa divisa in favore del lavoratore (esentato dalla necessità di acquistare un abbigliamento dignitoso con il quale svolgere le mansioni). Tutto ciò smentiva la natura di strumento di lavoro e dimostrava invece quella di bene patrimoniale in natura, corrisposto obbligatoriamente in modo fisso e continuativo, con onere esclusivo a suo carico, ed in favore dell’agente che aveva diritto a tale dotazione.

Si trattava di un diritto dei dipendenti qualificato come “trattamento garantito”, la cui determinazione e quantificazione era affidata esclusivamente alla contrattazione sindacale, in ragione dei reciproci interessi delle due parti.

L’attribuzione in natura era causalmente collegata al rapporto e funzionale alla prestazione di lavoro;

l’obbligo contrattuale dell’azienda di consegnare la divisa, alle scadenze previste, corrispondeva l’obbligo dell’agente di indossarla secondo le modalità prescritte per rendere la prestazione lavorativa con una peculiare modalità (appunto indossando la divisa);

modalità a sua volta connessa all’organizzazione dei servizi, tesa alla riconoscibilità degli agenti, che realizzava quindi “l’esatto dall’agente – era oggetto di addebito in busta paga del controvalore, pari alla durata residua del bene non coperta da prestazione di lavoro (salvo che nel caso di pensionamento, in cui l’addebito era abbonato in ragione premiale dell’anzianità di servizio).

Il sinallagma era comprovato dall’obbligatoria regolamentazione sindacale dei rispettivi obblighi contrattuali delle due parti (sul quantum debeatur e sul quomodo della prestazione), e persino delle disposizioni di dettaglio e secondarie, e perciò dall’assenza di qualsivoglia discrezionalità o scelta unilaterale in capo all’azienda.

L’attribuzione della divisa compensava la prestazione eseguita obbligatoriamente in tale modalità, ovvero le restrizioni imposte all’agente obbligato ad indossarla anche negli intervalli in cui era fuori servizio (lo stesso operatore non poteva vestirsi più comodamente, come invece potevano fare le altre categorie di personale).

La divisa compensava sia gli obblighi di dettaglio sulle rigorose modalità di indossare ed abbinare i singoli capi, nell’aver cura del loro stato per assicurarne la loro durata, sia la doverosa cooperazione dell’agente, per dare un’immagine positiva ed efficiente dell’azienda.

E la complessiva funzione compensativa era comprovata dalla disciplina sindacale aziendale modificativa della dotazione vestiario attuata nella garanzia (invariazione) del valore economico della dotazione in atto (divieto di modifiche in pejus).

La massa vestiario realizzava al contempo gli interessi patrimoniali di entrambe le parti del rapporto:

quello organizzativo della società alla riconoscibilità del personale da parte di terzi, nonché all’immagine uniforme del personale operativo nonché quello patrimoniale dell’agente al risparmio di usura dei propri capi vestiario (non usati per lavorare), nonché dal risparmio della spesa periodica di acquisto dei capi vestiario necessari per andare a lavoro abbigliato in modo dignitoso (spesa incombente ai colleghi di altri settori aziendali).

E tutto ciò si traduceva di fatto in un beneficio sotto forma di aumento (in natura) della retribuzione.

L’interesse patrimoniale era realizzato altresì nel, consentito e dimostrato, uso privato del bene divisa, senza onere di concorso di costo, con risparmio della spesa per il vestiario privato, dunque un beneficio economico in natura che aumentava di riflesso la retribuzione.

Tale interesse patrimoniale dell’agente (sotteso al diritto soggettivo di ricevere il bene alle scadenze previste) legittimava l’azione risarcitoria ex art. 1218 cc contro l’azienda in caso di inadempimento di questa all’obbligo contrattuale della fornitura della dotazione, concretizzandone il valore.

La condotta negoziale anteriore al presente giudizio, tenuta da in sede di arbitrato concluso con ai sensi dell’art. 1362 cc, confermava la natura retributiva della massa vestiario.

rimesso ad arbitri la definizione della misura delle differenze sui trattamenti finali dei dipendenti, conseguenti agli esiti del contenzioso seriale già in atto con contenuto analogo a quello attuale.

L’arbitrato aveva riguardato plurime voci retributive controverse, fra le quali anche l’equivalente monetario della massa vestiario, con riferimento a tutti gli agenti trasferiti con la cessione di azienda.

ll lodo, ritenuta la natura retributiva della massa vestiario, per l’uso pacificamente anche privato del bene divisa, aveva posto a carico di il pagamento in favore di della somma di €. 383.337,04 per il titolo specifico qui in esame, quale differenza sui trattamenti finali dei dipendenti che sarebbe stata dovuta di conseguenza alla medesima natura retributiva della massa vestiaria.

Peraltro, nell’occasione di tale arbitrato era stata proprio la cessionaria a sostenere la natura retributiva della massa vestiario, pretendendo quindi che la cedente le pagasse le relative differenze sui trattamenti finali dei dipendenti.

Quindi, poiché già nel 2013 aveva incassato da le intere somme differenziali per tutto il personale trasferito, era contrario a buona fede e correttezza che nel presente giudizio negasse invece la medesima natura retributiva al solo fine di non riconoscere la specifica voce nei trattamenti finali dei dipendenti, pur trattandosi dello stesso personale già interessato al lodo arbitrale.

I resistenti contestavano la domanda di restituzione ai sensi dell’art. 389 cpc, perché generica e riferita prevalentemente al periodo lavorato presso coincidendo quindi con gli importi che aveva già ottenuto da nel 2013 in esecuzione dello stesso lodo arbitrale.

Per di più tutti i resistenti nel presente giudizio non avevano ricevuto alcuna somma a titolo di trattamento finali del rapporto perché erano ancora dipendenti.

Quindi l’effetto favorevole delle precedenti pronunce si era limitato al diritto al corrispondente accantonamento a titolo di Tfr, senza che alcuna somma fosse entrata nel loro patrimonio.

Nessun pagamento diretto era stato effettuato neppure nei confronti dell’ per il quale la sentenza del primo grado aveva pronunciato condanna diretta nei sui confronti.

La domanda di restituzione era infondata anche perché l’onere economico della massa vestiaria per la quasi totalità era stato sostenuto in precedenza da datrice di lavoro dei resistenti fino al 30 novembre 2012, e da solo dal 1 dicembre 2012, mentre i conteggi a base della domanda si fermavano al 31 dicembre 2016.

In proposito, per ciascuno dei lavoratori erano distinte le somme accantonate da fino al 30 novembre 2012 e quelle accantonate da dal 1 dicembre 2012 al 31 dicembre 2016, così come calcolate nella consulenza di primo grado (pag. 28 memoria di costituzione).

una molteplicità di voci retributive (10 su 11), diverse dalla massa vestiario, in relazioni alle quali la prevalente fondatezza della domanda dei lavoratori era ormai definitiva.

La sentenza di appello aveva respinto tutti i motivi proposti dalla società.

Inoltre, il giudizio rescindente non si era concluso a favore di bensì con un mero rinvio per nuovo esame della questione controversa relativa alla sola massa vestiario, per di più all’esito di un ricorso per Cassazione proposto dalla stessa società sulla base di dati falsati.

Le spese del giudizio di rinvio dovevano gravare sul datore di lavoro e, in caso di riforma della statuizione, dovevano essere compensate.

Nonostante regolare notifica del ricorso, nessuno si è costituito per dichiarata contumace.

******* QUESTIONI PRELIMINARI Secondo il Collegio, il complesso delle eccezioni preliminari si basa sul presupposto che il presente giudizio sia un appello nei confronti della sentenza del Tribunale, nuovamente introdotto dalla società dopo che l’ordinanza rescindente aveva annullato la sentenza della Corte d’appello.

E, da tale presupposto, conseguirebbe che il ricorso introduttivo del presente giudizio avrebbe dovuto rispettare i requisiti dell’art. 434 cpc in tema di oggetto, specificità dei motivi e conclusioni.

Al contrario, il rinvio è un nuovo giudizio di merito sulla domanda, e non una impugnazione di precedenti pronunce.

Il rinvio rescissorio è tipicamente un giudizio chiuso, nel quale si deve pronunciare una nuova decisione sulla questione oggetto della ordinanza rescindente, nei termini ed allo stato di istruzione in cui si trovava nel momento in cui fu pronunciata la sentenza cassata con rinvio.

Dal punto di vista oggettivo, la questione controversa riguarderà il tema oggetto dell’ordinanza rescindente.

In concreto, come si dirà nel merito ed in punto spese, nell’ambito della presente vicenda le sentenze di primo e di secondo grado sono ormai divenute definitive quanto all’accoglimento della domanda dei lavoratori per le voci retributive diverse dalla massa vestiario, dal momento che il ricorso in Cassazione da parte di era proposto esclusivamente in relazione alla ulteriore voce della massa vestiario, unico oggetto dalla medesima ordinanza rescindente.

Pertanto, le eccezioni preliminari sub 1), 2) 3) vanno superate poiché il ricorso introduttivo del giudizio di rinvio non deve essere strutturato sulla base di motivi di appello alla sentenza di primo grado né deve rispettare i medesimi requisiti di specificità del contenuto richiesti per legge per i veri e propri atti di impugnazione.

Quanto al suo contenuto ed alle relative conclusioni, il ricorso in riassunzione di ‘equivalente monetario della massa vestiario nella base di calcolo dei trattamenti finali del rapporto.

Per il resto, le eccezioni preliminari sub 4) e 5) – che riguardano piuttosto contestazioni sulla fondatezza delle richieste contenute nel ricorso in riassunzione in tema di obbligo di restituzione di quanto pagato a titolo di massa vestiario, nonché di riparto delle spese di lite – saranno quindi esaminate a conclusione della presente decisione.

MERITO DEL CONTENDERE Il giudice del rinvio deve riesaminare la vicenda controversa alla luce dell’ordinanza rescindente la quale, con motivazione unitaria, aveva accolto i seguenti motivi di ricorso in Cassazione proposti da come nella stessa pronuncia indicati:

“Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931, art. 2, allegato A, degli artt. 2099 e 2120 c.c. e dell’art. 50 del c.c.n.l.

23 luglio 1976.

Sostiene la ricorrente che dalle disposizioni normative richiamate emergerebbe, con chiarezza, che la divisa deve essere indossata obbligatoriamente dall’autoferrotranviere e che, pertanto, si tratta di strumento di lavoro che non può essere sostituito con indumenti “anonimi” (e soddisfa un interesse esclusivo del datore di lavoro, non del dipendente).

Pertanto, l’equivalente monetario della massa vestiario non può configurarsi quale corrispettivo in natura per la prestazione di lavoro e, conseguentemente, non può rientrare nella base di calcolo del t.f.r..

Nè la divisa può ritenersi un fringe benefit (ossia “un vantaggio accessorio rispetto alla normale retribuzione”), costituendo semmai un onere per il lavoratore.

2.

Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931 All. A, art. 2 e degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1371 c.c. in relazione all’art. 50 del c.c.n.l.

23 luglio 1976, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

Sostiene che erroneamente la Corte ha ritenuto che la parziale imputazione del costo anche a carico del lavoratore confermi il contemporaneo interesse di quest’ultimo ad utilizzare la divisa laddove invece l’art. 50 del c.c.n.l.

deve essere correttamente interpretato, anche ai sensi dell’art. 1369 e dell’art. 1371 c.c., nel senso che i lavoratori sono obbligati ad indossare la divisa per ragioni di decoro e di ordine senza che sugli stessi gravi interamente il costo di tale obbligo contrattuale.

3. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1369 e 1371 c.c. in relazione agli artt. 1,2,3,4,5 e 6 dell’Accordo sindacale aziendale del 27 giugno 1990 e alle disposizioni di cui alle lettere A), B), C) e D) dell’accordo sindacale aziendale del 27 dicembre 2001.

Ad avviso della ricorrente la Corte non avrebbe colto che la comune intenzione delle parti sociali rinvenibile anche negli accordi del 27 giugno 1990 e 27 naturale obsolescenza.

Sostiene che la circostanza che il dipendente che cessi dal servizio sia tenuto a corrispondere il valore del vestiario trattenuto non dimostrerebbe l’interesse patrimoniale in capo al dipendente ma costituirebbe solo un obbligo, contrattualmente previsto di tener indenne il datore di lavoro dal costo dell’indumento trattenuto.

La divisa costituirebbe un mero strumento di lavoro, a carico dell’azienda, da indossare obbligatoriamente e non un fringe benefit per il lavoratore….

”.

Assume la Corte che le tre censure potevano essere esaminate congiuntamente, con loro accoglimento, dando continuità a quanto affermato dalla stessa Corte con le sentenza n. 24401 del 05.8.2022 e la n. 24394/2022; accoglimento che motivava nei seguenti termini:

“5. L’allegato A, del R.d.

n. 148 del 1931, art. 2, recita:

“Gli agenti in servizio nelle stazioni, sui treni e sui natanti delle linee di navigazione interna, debbono portare in maniera visibile il numero di matricola ed indossare il vestiario uniforme prescritto dal Ministero delle comunicazioni (Ispettorato generale ferrovie, tranvie ed automobili) od, in mancanza, dalle aziende esercenti”.

6.

Anche la contrattazione collettiva (contratto nazionale e accordi aziendali) prevede – come evidenziato dalla stessa Corte territoriale – che il personale sia tenuto ad indossare “l’uniforme” durante il servizio.

7. La Corte territoriale ha, altresì, rilevato che la natura retributiva della c.d. massa vestiario si evince dal concorso (pari al 30%) del lavoratore nell’acquisto della divisa e nell’obbligo del versamento del suo controvalore (salvo la naturale obsolescenza) alla cessazione del servizio (tranne il caso del pensionamento), elementi che confermano il contemporaneo interesse del lavoratore (oltre che del datore di lavoro) e, dunque, la natura retributiva della fornitura;

ha, dunque, da una parte, evidenziato come la divisa costituisca un “distintivo segno di riconoscimento del lavoratore nei confronti dei terzi, utenti del servizio di trasporto”, e, dall’altra, l’ha inclusa tra i benefit ricevuti dal lavoratore.

8. Questa Corte (valutando il CCNL del 1976 di settore nonchè accordi aziendali diversi da quelli evocati nel presente giudizio) ha già affermato che la fornitura della divisa integra una forma ulteriore di corrispettivo e che in caso di inadempimento del datore di lavoro all’obbligo, contrattualmente assunto, di fornitura ai dipendenti di “vestiario uniforme” – ove il dipendente, al fine di adempiere alla propria obbligazione di indossare in servizio abiti “uniformi”, sia conseguentemente costretto ad acquistare a proprie spese abiti che, per tipo e foggia, diversamente non avrebbe acquistato – il datore di lavoro è tenuto (in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1218 e ss. c.c.) a risarcirgli il danno rappresentato dal costo aggiuntivo incontrato per detto acquisto, all’inadempimento (vedi sul punto Cass. n. 23897 del 2008, Cass. n. 8531 del 2012, Cass. n. 20550 del 2015, Cass. 31176 del 2021). 9. In materia di natura retributiva dei benefit assegnati ai dipendenti, è stato, inoltre, affermato che il criterio distintivo va individuato nella riferibilità dello stesso a spese che, se pur indirettamente collegate alla prestazione lavorativa, sono comunque a carico del lavoratore sicchè la concessione del benefit si risolve, in buona sostanza, in un adeguamento della retribuzione (cfr. Cass. n. 14835 del 2009, Cass. n. 14388 del 2000, Cass. n. 8512 del 1993 e Cass. n. 7646 del 1991);

ove per contro il benefit costituisca una reintegrazione di una diminuzione patrimoniale, allorchè ad esempio si riferisce a spese che il lavoratore dovrebbe sopportare nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, allora ha una funzione riparatoria della lesione subita (cfr. Cass. n. 14385 del 2009 cit.).

9.1.

Il criterio per ritenere retributiva una erogazione è dato, pertanto, dal rapporto sinallagmatico prestazione/controprestazione propria del rapporto di lavoro nonchè dal vantaggio economico conseguito dal lavoratore in aggiunta alla normale retribuzione;

detto vantaggio economico, se rimasto inutilizzato, è suscettibile, alla scadenza, di essere tramutato in un controvalore economico e il lavoratore può richiederne la sostituzione con il pagamento di una somma di danaro (Cass. n. 586 del 2017).

10. Se, pertanto, è vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte il concetto di retribuzione recepito dall’art. 2120 c.c. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio della onnicomprensività, in quanto “Nella nozione di retribuzione deve farsi rientrare qualsiasi utilità corrisposta al lavoratore dipendente che proviene dal datore di lavoro se causalmente collegata al rapporto di lavoro, anche ove si tratti di somme materialmente erogate da un soggetto diverso dal datore di lavoro, ed anche se l’attribuzione patrimoniale costituisca la prestazione di un contratto diverso da quello di lavoro, ove tale contratto costituisca lo strumento per conseguire il risultato pratico di arricchire il patrimonio del lavoratore in correlazione con lo svolgimento del rapporto di lavoro subordinato” (così Cass. n. 16636 del 2012), il controvalore dell’assegnazione periodica dei capi di abbigliamento può essere attratto nella nozione onnicomprensiva purchè rivesta carattere retributivo ossia concretizzi un vantaggio economico conseguito dal lavoratore in aggiunta alla normale retribuzione. 11.

La società ricorrente denuncia specifici vizi di interpretazione degli accordi aziendali 27.6.1990 e 27.12.2001 (che riporta integralmente) ed invero la lettura della sentenza impugnata non consente di rintracciare alcuna indagine sulla volontà delle parti sociali così come espressa nei suddetti accordi, nei quali si rinviene la previsione di un addebito del costo della divisa esclusivamente a al personale nn. 48 del 25.11.2014 e 4 del 15.1.2015) sia in fase di acquisto che in caso di restituzione delle uniformi alla cessazione del rapporto di lavoro. 12.

A fronte delle rilevate lacune ermeneutiche, che non consentono di rinvenire conferma degli argomenti utilizzati dalla Corte territoriale nel materiale negoziale acquisito al giudizio, la causa va rinviata al giudice di merito, essendo riservata allo stesso l’interpretazione degli accordi aziendali, in ragione della loro efficacia limitata (diversa da quella propria degli accordi e contratti collettivi nazionali, oggetto di esegesi diretta da parte della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006). 13.

In conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, che valuterà la natura retributiva dell’equivalente economico della dotazione rappresentata dalla massa vestiario anche alla luce della interpretazione degli accordi sindacali aziendali 27.6.1990 e 27.12.2001;

provvederà, altresì, alla determinazione delle spese del presente giudizio di legittimità”.

Da ciò discende in modo necessario che il quadro di fatto e di diritto sul quale fondare la decisione rimessa a questo giudice del rinvio (qualificazione dell’equivalente monetario della massa vestiario, nell’alternativa fra valore retributivo e risarcitorio), è quello chiaramente esposto nell’ordinanza rescindente:

– in adempimento della normativa primaria che impone agli operatori di esercizio di svolgere il servizio indossando una divisa aziendale (art. 2 RD 148/1931), la datrice era sempre stata obbligata a fornire tale divisa, distinta fra dotazione invernale e dotazione estiva, ciascuna delle quali composta da plurimi capi principali di abbigliamento e dai relativi accessori, che dovevano essere combinati fra di loro come stabilito negli accordi collettivi del giugno 1990 e del dicembre 2001 – secondo gli stessi accordi collettivi, nello svolgere le loro mansioni, gli operatori di esercizio erano obbligati ad indossare la medesima divisa, alternativamente estiva o invernale, in entrambi i casi completa dei relativi accessori, da abbinare come previsto – sulla stessa divisa doveva essere apposto il distintivo aziendale, bel visibile al pubblico – l’obbligo di indossare la divisa riguardava sia il personale a diretto contatto con gli utenti del servizio di trasporto, sia il personale addetto alla sorveglianza (personale viaggiante o di controllo); addetto all’ufficio informazioni o alla vendita dei titoli di viaggio ecc.) – al medesimo personale era vietato prestare servizio con indumenti diversi da quelli che, secondo gli accordi collettivi, componevano le divise (salvo documentate necessità per motivi di salute o altro, autorizzate dalla direzione del personale) poteva trattenerla.

Quest’ultima affermazione, sviluppata al punto 11 dell’ordinanza rescindente, incontrava severe critiche da parte dei lavoratori secondo i quali la Cassazione avrebbe recepito in modo acritico le difese della società.

Invece, avrebbe trascurato le difese degli stessi lavoratori, i quali, richiamando la lettera D dell’accordo 27 dicembre 2001, avevano invece valorizzato come alla cessazione dal servizio (se per motivo diverso dal pensionamento) il lavoratore aveva l’obbligo di trattenere la divisa e subiva l’addebito del valore residuo della medesima divisa.

In proposito, il Collegio osserva che, per giurisprudenza costante (da ultimo, Cass. n. 17240/2023, n. 448/2020, n. 27337/2019) al giudice del rinvio è preclusa ogni correzione di ipotetici errori in fatto od in diritto contenuti nel provvedimento rescindente.

Piuttosto, il giudice del rinvio deve limitarsi ad applicare i principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione e/o a valutare le circostanze su cui è segnalata un’omessa motivazione.

Qualora il rinvio sia stato disposto per violazione di norme di diritto (come nel caso in esame, in cui sono stati accolti i tre motivi con cui aveva impugnato la sentenza d’appello per avere violato la normativa primaria in tema di base di calcolo dei trattamenti finali del rapporto esclusivamente quanto alla massa vestiario), il giudice del rinvio si deve uniformare alla regola enunciata dalla Cassazione, nonché alle premesse logico giuridiche della medesima ordinanza rescindente.

E quindi, deve attenersi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza estendere la propria indagine a questioni che, se per ipotesi non esaminate in sede di legittimità, rappresentano comunque presupposto della stessa ordinanza, e quindi formano oggetto di giudicato implicito interno (Cass. n. 7091/2022, conforme n. 20887/2018).

In tutti i casi, per le seguenti considerazioni di merito ritiene il Collegio che, la complessiva considerazione degli accordi collettivi del 1990 e del 2001, alla luce dei principi di diritto enunciati nella ordinanza rescindente (quanto alla fondamentale distinzione fra il carattere retributivo o risarcitorio dei conferimenti in natura da parte della società in favore dei lavoratori), porti necessariamente a concludere che nel caso in esame la divisa rappresentava uno strumento di lavoro imposto nell’esclusivo interesse aziendale, e non un benefit riconosciuto in forma di voce aggiuntiva di adeguamento della retribuzione. In tal senso, questa Corte d’appello quale giudice del rinvio si era già pronunciata in analoghe controversie nei confronti di (sentenze n. 464/2023 del 5.9.2023 e n. 596/2023 del 31.10.2023).

Nell’ambito della domanda dei lavoratori, accolta integralmente in primo e secondo grado, ’esito della fase rescindente, l’accoglimento della domanda era diventato definitivo per le voci diverse dalla massa vestiario, le quali peraltro rappresentavano la parte predominante dei crediti accertati ed oggetto di condanna.

Invece, in relazione all’unica voce qui ancora controversa, secondo questo giudice del rinvio, la domanda è infondata, dal momento che la divisa risulta uno strumento di lavoro, e non una retribuzione in natura.

Quindi il principio di omnicomprensività della retribuzione di cui all’art. 2120 cc non si applica, e l’equivalente monetario non va incluso nella base di calcolo delle indennità finali del rapporto.

Prima di tutto, la giurisprudenza di legittimità richiamata al punto 8 dell’ordinanza rescindente (da ultimo, Cass. n. 31176/2021) aveva risolto vicende fondamentalmente diverse, relative a casi in cui le datrici avevano violato l’obbligo contrattuale di fornire le divise e quindi erano state condannate a risarcire il danno rappresentato dal costo aggiuntivo che i lavoratori avevano dovuto affrontare per acquistare a spese proprie le medesime divise con le quali avevano, pacificamente, reso nel tempo la loro prestazione. E’ evidente che, nelle pronunce richiamate allo stesso punto 8, l’affermazione della natura “retributiva” dell’obbligo di fornire la divisa non fosse svolta in contrapposizione a quella “risarcitoria” (accezione nella quale invece i due termini erano enunciati, e contrapposti, nell’ordinanza rescindente con riferimento al caso in esame).

Piuttosto, in quei casi, la natura “retributiva” dell’obbligo di fornire la divisa era sinonimo di natura contrattuale dello stesso obbligo datoriale, il cui inadempimento fondava quello, altrettanto contrattuale, di risarcire il danno subìto dai lavoratori che avevano dovuto affrontare un costo improprio per munirsi privatamente della stessa divisa.

Per contro, nel caso in esame si discute di divise pacificamente fornite dalla società, che ne sopportava l’intero costo al momento della consegna, e che (come espressamente affermato al punto 11 dell’ordinanza rescindente, in modo non sindacabile da questo giudice del rinvio) non chiedeva alcun contributo al lavoratore nel momento in cui questi risolveva il rapporto e tratteneva i medesimi indumenti da lui già usati.

Ciò premesso, la natura “retributiva” di tale fornitura era qui pretesa dai lavoratori sul presupposto che si trattasse di un benefit, ovvero una voce aggiuntiva in natura, in funzione di adeguamento della retribuzione, come tale da includere nel principio di omnicomprensività della retribuzione di cui all’art. 2120 cc, inserendola nella base di calcolo dei trattamenti finali del rapporto.

Invece, il Collegio ritiene decisivo che la divisa fosse imposta in funzione della riconoscibilità, uniforme e decorosa, dell’immagine aziendale dei suoi operatori, analogamente al distintivo da – potessero essere svolte indipendentemente dal tipo di abbigliamento indossato nell’occasione.

Piuttosto, come imposto dall’art. 2 RD 148/19319, la divisa fornita dalla società era essenziale per svolgere la prestazione, in costanza della quale il lavoratore non poteva indossare altro che la dovuta combinazione, dei capi principali e degli accessori propri delle versioni estive e invernali, senza possibilità di aggiungere eventuali altri capi personali (salvo autorizzazioni da chiedere alla Direzione del personale in caso di esigenze specifiche).

Ciò rende evidente che l’obbligo di fornire la divisa corrispondeva al fondamentale interesse della società di avere personale abbigliato in modo uniforme e decoroso, riconoscibile con tale segno distintivo aziendale.

Non possono invece essere condivisi gli ulteriori argomenti dei lavoratori secondo i quali la fornitura della divisa si inserirebbe nel sinallagma, a compensazione del loro obbligo di prestare servizio abbigliati in modo puntualmente determinato dagli accordi aziendali, nel contempo rinunciando alla libertà di indossare abiti propri, eventualmente più comodi e più confortevoli.

Infatti, le circostanze ora dette non sono altro che il necessario riflesso dell’obbligo (legale e contrattuale) di prestare servizio indossando esclusivamente la divisa, così come disciplinata dagli accordi aziendali, senza che nelle medesimi fonti (legali e contrattuali) la perdita della libertà individuale di abbigliarsi a piacere emergesse come interesse rilevante del dipendente, meritevole di adeguamento della retribuzione.

Né possono essere condivisi i successivi argomenti dei lavoratori secondo i quali la fornitura della divisa corrisponderebbe, anche, ad un loro interesse patrimoniale.

Il fatto che i dipendenti durante il servizio non dovessero sottoporre ad usura abbigliamento personale, e quindi non fossero tenuti in proprio ad acquistarlo/ sottoporlo a pulizia e manutenzione, non rappresenta un interesse proprio del sinallagma contrattuale tutelato dagli accordi aziendali, bensì ancora una volta una mera conseguenza della, doverosa, necessità di svolgere le proprie mansioni esclusivamente in divisa.

In altri termini, non si può sostenere che la divisa fosse fornita dalla società anche come benefit in natura per sollevare i lavoratori dai costi di acquisto, pulizia e manutenzione dell’abbigliamento personale, esigenza quest’ultima del tutto estranea alla ratio della regolamentazione legale e contrattuale della materia, Nemmeno può essere condiviso l’argomento dei lavoratori secondo i quali la fornitura della divisa si accompagnerebbe all’autorizzazione datoriale al suo utilizzo promiscuo, ovvero sia per l’esercizio delle mansioni che per la vita privata degli stessi operatori. accessori (camicia, golf, cintura, Tshirt ecc.) che, a differenza dei capi principali, non erano evidentemente riferibili alla società.

Per contro, secondo il Collegio, il preteso uso promiscuo avrebbe dovuto caratterizzare l’intera divisa, ma in tali termini nemmeno la difesa dei lavoratori aveva preso posizione.

Infine, l’arbitrato concluso nel 2013 fra rimane un dato estraneo all’ordinanza rescindente né può influire sulla presente decisione in sede di rinvio che in nessun modo riguarda i rapporti interni fra le società cedente e cessionaria (unico oggetto regolato dal lodo), bensì la sola domanda retributiva dei lavoratori.

Appurato quindi che l’equivalente monetario della massa vestiario non é voce retributiva, non cade nel principio di omnicomprensività, e non dove essere incluso nella base di calcolo degli accantonamenti destinati alle rispettive indennità finali del rapporto, dalle complessive somme già riconosciute in favore dei lavoratori nella sentenza del Tribunale, confermata dalla sentenza della Corte d’appello, vanno detratti i rispettivi importi.

Si tratta delle medesime somme ricavate dalla consulenza contabile di primo grado, e relativi allegati, suddivise fra periodo fino al 30 novembre 2012 e periodo dal 1 dicembre 2012 al 31 dicembre 2016, ovvero per come riportati anche alla pag. 28 della memoria dei resistenti:

, € 225,87 (€ 147,02+€ 78,84) , € 568,37 (€ 466,36+€ 102,01) € 212,21 (€ 98,08+€44,45+€ 66,46+€ 3,22) , € 363,06 (€ 274,94+€ 88,12) , € 369,98 (€ 281,39+€ 88,59) , € 277,73 (€ 195,38+€82,35) , € 684,40 (€ 566,56+€ 109,85) , € 204,60 (€ 106,30+€ 30,56+€ 66,46+€ 2,19) , € 305,23 (€ 221,02+ € 84,21) , € 220,15 (€ 92,18+€57,35+ € 66,46+€4,16) , € 568,62 (€ 522,18+€ 38,45) , € 521,90 (€ 423,04+€98,86) , quali eredi di , € 622,85 (€ 517,16+€ 105,69) In favore di tali lavoratori il Tribunale non aveva pronunciato la condanna al pagamento del tfr differenziale (come invece avrebbe potuto se al momento della sentenza avessero risolto il rapporto di lavoro). diretto alcuna somma agli interessati.

Ciò, fatto salvo per la posizione dell’ per cui era intervenuta condanna diretta.

Di conseguenza, poiché i maggiori accantonamenti erano quelli risultanti dalla consulenza contabile relativa ai titoli oggetto della domanda originaria, mentre all’esito del presente giudizio di rinvio era venuto meno il titolo afferente la massa vestiario (come sopra distinta separatamente in parentesi fra quanto maturato entro il 30.11.2012 e quanto maturato dal 1.12.2012), la società potrà rideterminare l’accantonamento/importo dovuto detraendo le somme fra parentesi, che la stessa consulenza contabile aveva individuato per la sola voce di equivalente monetario della massa vestiario. In conclusione, essendo mancata allegazione e prova di un pagamento in favore dei lavoratori sulla base del titolo controverso, non sarebbe possibile accogliere la domanda di condanna alla restituzione ai sensi dell’art. 389 cpc, così come formulata dalla società nel ricorso in riassunzione.

SPESE DI LITE Le spese di lite di primo e secondo grado devono rimanere liquidate a favore dei lavoratori, e distratte in favore della procuratrice NOME COGNOME dichiarata antistataria quanto alle spese del secondo grado.

Fermo altresì il regime delle spese di consulenza tecnica.

Tale esito è imposto dalla fondatezza della parte predominante della domanda, relativa alle voci retributive riconosciute (esclusa la massa vestiario) in relazione alle quali si è formato il giudicato.

Peraltro, la soccombenza per la parte residuale della domanda, relativa alla sola massa vestiario, ora pronunciata all’esito del presente giudizio di rinvio, conclude un iter giurisprudenziale estremamente controverso, nell’ambito di un filone di contenzioso nel quale sia il Tribunale che la Corte d’appello di Firenze, con pronunce successive relative a diversi gruppi di lavoratori, avevano deciso la medesima questione in modo contrastante.

Per tali motivi, devono essere compensate interamente fra le parti le spese di lite del giudizio di legittimità e del presente giudizio di rinvio, i quali – nell’ambito di un quadro giurisprudenziale estremamente contrastante – hanno riguardato i contenuti importi della sola voce relativa alla massa vestiario, sui quali i lavoratori sono risultati soccombenti.

La Corte, definitivamente pronunciando, all’esito del giudizio di rinvio, così provvede:

1) nell’ambito del ricorso proposto al Tribunale di Firenze, respinge la domanda dei resistenti in riassunzione per la sola parte tesa ad includere l’equivalente monetario della massa vestiario nella base di calcolo delle rispettive indennità finali del rapporto di lavoro, voce corrispondente ai seguenti complessivi importi oggetto della CTU contabile di primo grado:

€ 212,21 , € 363,06 , € 369,98 , € 277,73 , € 684,40 , € 204,60 , € 305,23 , € 220,15 , € 568,62 , € 521,90 , quali eredi di , € 622,85 3) restano ferme le sentenze di primo e di secondo grado quanto al residuo accoglimento nel merito della domanda dei lavoratori per le voci diverse dall’equivalente monetario della massa vestiario;

4) restano ferme le sentenze di primo e di secondo grado anche quanto alle spese di lite, liquidate in favore dei lavoratori, con distrazione in favore della procuratrice NOME COGNOME dichiaratasi antistataria quanto alle spese del secondo grado nonché alle spese di consulenza tecnica;

5) compensa per intero fra le parti le spese di lite del giudizio di legittimità e del presente giudizio di rinvio.

Firenze, 5 novembre 2024 La Consigliera est. La Presidente dott.ssa NOME COGNOME dott.ssa NOME COGNOME

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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