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Mancato pagamento prezzo di cessione di quote societarie

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado che condannava il liquidatore al risarcimento del danno per la cessione di quote societarie a un prezzo inferiore al valore nominale e per atti di mala gestione, tra cui la compensazione del prezzo di cessione con un credito chirografario in violazione della par condicio creditorum.

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N. R.G. 965/2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE DI APPELLO DI FIRENZE SEZIONE

IMPRESE La Corte di Appello di Firenze, seconda sezione civile, in persona dei Magistrati:

dott. NOME COGNOME relatore dott. NOME COGNOME Consigliere dott. NOME COGNOME Consigliere ha pronunciato la seguente

SENTENZA N._780_2025_- N._R.G._00000965_2024 DEL_28_04_2025 PUBBLICATA IL_28_04_2025

nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 965/2024 promossa da:

(CF: ) con il patrocinio dell’Avv. NOME COGNOME (CF:

APPELLANTE nei confronti di (CF ) con il patrocinio dell’Avv. NOME COGNOMECF APPELLATA avverso la sentenza n. 1072/2024 emessa dal Tribunale delle Imprese di Firenze e pubblicata il 02/04/2024

CONCLUSIONI

In data 18.03.2025 la causa veniva posta in decisione sulle seguenti conclusioni:

C.F. C.F. C.F. Per la parte appellante ”richiama e precisa le conclusioni già rassegnate sia nel presente giudizio di appello che in quello di primo grado nei seguenti termini:

– in via pregiudiziale e cautelare, sospendere e/o revocare la provvisoria esecutorietà della sentenza impugnata per i motivi tutti meglio dedotti nel presente atto;

– in via principale e nel merito, accogliere per i motivi tutti dedotti in narrativa il proposto appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza n.1072/2024 resa inter partes dal Tribunale di Firenze Sezione Imprese in composizione collegiale (Dott.ssa NOME COGNOME, Dott.ssa NOME COGNOME e Dott.ssa NOME COGNOME Relatore), R.G.6353/2024, pubblicata il 26.03.2024 e notificata in data 02.04.2024, accogliere tutte le conclusioni avanzate nel giudizio di primo grado che qui si riportano: – In via principale, respingere le domande di parte attrice perché infondate in fatto ed in diritto per i motivi esposti in narrativa.

– In via subordinata, ridurre l’importo delle pretese avanzate da parte attrice nei confronti del convenuto in ragione delle difese e delle risultanze istruttorie.

e conseguentemente disattendere tutte le eccezioni e le istanze sollevate dall’appellata dinanzi il Tribunale per tutti i motivi meglio esposti nel presente atto.

Con vittoria di spese e compensi oltre il rimborso forfettario per spese generali oltre IVA e CPA come per legge relativi ad entrambi i gradi di giudizio.

In via istruttoria, si chiede l’ammissione delle istanze istruttorie avanzate nel corpo di quest’atto, e nello specifico si richiede l’ammissione di prova per teste del sig. residente in Prato sul seguente capitolo di prova:

1. DCV che le due email che vi si mostra in copia del 05.01.2017 e del 08.09.2023 sono state da lei inviate al sig. e confermate il loro contenuto.

Si richiede infine la rinnovazione della CTU contabile sul valore della Oktò al tempo della cessione delle quote a Per la parte appellata:

Voglia l’Ecc.ma Corte d’Appello di Firenze – Sezione Imprese, contrariis reiectis:

– Respingere l’appello principale promosso dal sig. per le motivazioni dedotte in atti;

– Accogliere per i motivi dedotti in narrativa il proposto appello incidentale, e, per l’effetto, in riforma parziale della sentenza 1072 emessa in data 26.03.2024 dal Tribunale delle Imprese di Firenze, Presidente dott.ssa NOME COGNOME Giudice Relatore dott.ssa NOME COGNOME nell’ambito del giudizio N.R.G. 6353/2020, depositata in cancelleria in data 02.04.2024 e comunicata in pari data alle parti, accogliere le conclusioni avanzate nel giudizio di primo grado che qui si trascrivono limitatamente alle domande non accolte: “Voglia l’Ill.mo Tribunale di Firenze, Sezione Imprese, ogni contraria e diversa istanza ed eccezione disattesa:

– accertare la responsabilità del convenuto, nella sua veste di liquidatore della ”, per atti di mala gestio, derivanti dalla violazione di doveri imposti dalla Legge, dall’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale, dall’omessa e/o irregolare tenuta delle scritture contabili e di ogni altra violazione descritta in atti;

– accertare e dichiarare che i danni subiti dall’attrice e dai creditori sociali, in conseguenza delle condotte descritte in atti e contestate al convenuto, è pari ad € 759.000,00 (Settecentocinquantanovemila/00) od a quella maggiore o minore somma che risulterà di giustizia;

– conseguentemente, condannare il convenuto a pagare all’attore la somma di € 759.000,00 (Settecentocinquantanovemila/00) o quella maggiore o minore somma che risulterà di giustizia per il risarcimento di tutti i danni di cui in narrativa.

Con vittoria di spese e compenso professionale, oltre il rimborso forfettario per spese generali, IVA e CPA come per legge relativi ad entrambi i gradi di giudizio”.

RAGIONI DI FATTO

E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con sentenza n. 1072/2024 pubblicata il 30/03/2024, il Tribunale delle Imprese di Firenze, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, ha così deciso:

• condanna a pagare in favore del fallimento la somma di € 290.000,00 a titolo di risarcimento, oltre interessi e rivalutazione, come in parte motiva;

• condanna a pagare in favore del la somma di € 19.000,00 a titolo di restituzione di somme, oltre interessi, come in parte motiva;

• condanna a rimborsare al le spese di lite che liquida in complessivi € 37.671,00 per compenso professionale (di cui € 8.478,00 per il procedimento cautelare ed € 29.193,00 per il merito) ed in € 5.239,01 per spese vive, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali come per legge;

• condanna a rifondere alla curatela le spese della consulenza tecnica;

• condanna altresì a rifondere alla curatela le spese del consulente tecnico di parte, ritenute congrue.

Tale sentenza è stata emessa sulla azione di responsabilità esperita dalla ex artt. 146 L.F. e 2393, 2394 e 2495 c.c., nei confronti di in veste di liquidatore, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni, per atti di mala gestio al medesimo imputati.

A sostegno della domanda, la aveva allegato l’esecuzione, da parte del delle seguenti operazioni non conservative del patrimonio sociale, stante la situazione di dissesto in cui versava la società, la quale, già al bilancio 2013, aveva un capitale sociale al di sotto del limite legalmente stabilito:

✓ cessione, in data 29/05/2014, della totalità delle quote detenute nella società RAGIONE_SOCIALE per un controvalore di € 700.000,00, mai corrisposto, in violazione di quanto deliberato dall’organo assembleare, il quale aveva disposto la vendita del solo 50% delle partecipazioni al prezzo nominale, derivandone una minusvalenza in capo alla alienante e, conseguentemente, un grave pregiudizio per il ceto creditorio della fallita;

✓ restituzione a sé stesso, quale socio unico, dell’importo di € 9.000,00 a titolo di finanziamento soci, in violazione del principio della postergazione ex art. 2467 c.c.;

pagamento in via preferenziale alla ***, in data del 18/01/2017, della somma di € 40.000,00 in violazione della par condicio creditorum, stante la presenza di creditori muniti di privilegio; ✓ prelevamento dell’importo di € 10.000,00, in assenza di titolo giustificativo.

Si era costituito in giudizio il il quale aveva eccepito, in via pregiudiziale, la sospensione del processo, limitatamente alla domanda di risarcimento di € 700.000,00, per la pendenza del procedimento ex art 702 bis c.p.c., innanzi al Tribunale di Lucca, promosso dalla nei confronti di per il medesimo titolo ed importo.

Nel merito, il convenuto aveva contestato gli assunti attorei ed evidenziato che:

• ***, (controllata) aveva effettuato finanziamenti in favore della società fallita (controllante) per complessivi € 985.000,00;

• il giorno antecedente l’operazione di cessione, ovvero il 28/05/2014 era stata conclusa una scrittura privata, tra la fallita e a mezzo della quale, questi ultimi si erano impegnati a garantire la rinuncia al credito di RAGIONE_SOCIALE nei confronti della controllante , a fronte della cessione del 100% delle quote sociali detenute da quest’ultima, in favore di per un valore di complessivi € 700.000,00;

• l’operazione di dismissione delle quote, sebbene anomala, aveva costituito l’assunzione da parte di di una obbligazione del fatto di terzo ed aveva rappresentato un vantaggio per la fallita, avendo *** rinunciato al restante credito di € 285.000,00;

• il pagamento della somma di € 40.000,00 ad *** avrebbe trovato il suo titolo giustificativo nell’accordo tra le due società sottoscritto il 30/10/2016, in base al quale quest’ultima aveva versato tale somma alla con assegno bancario, ma poi, non essendosi avverate le condizioni inserite nella dichiarazione di intenti entro la data stabilita (31.12.2016), era maturato l’obbligo per la predetta società fallita, di restituire la somma incassata a titolo di garanzia.

Il T.I. ha ravvisato la responsabilità del per gli atti di mala gestione e non conservativi a lui ascritti dalla e per questo lo ha condannato, come sopra riportato, al risarcimento della somma di € 290.000,00 (250.000,00 + 40.000,00) ed alla restituzione della somma di € 19.000,00 (9.000,00 + 10.0000,00).

Con atto di citazione, regolarmente notificato, (di seguito anche LIQUIDATORE o APPELLANTE) ha, quindi, convenuto in giudizio, innanzi questa Corte di Appello la (di seguito solo o anche APPELLATA) proponendo gravame avverso la suddetta sentenza per i seguenti motivi di appello:

a) Cessione delle Partecipazione RAGIONE_SOCIALE;

b) La restituzione di finanziamenti infruttiferi ai soci ed il prelievo di contanti;

c) Il Pagamento preferenziale in favore di RAGIONE_SOCIALE

Per tali ragioni è stata pertanto formulata dall’APPELLANTE richiesta di riforma della sentenza gravata in accoglimento delle conclusioni come in epigrafe trascritte.

Radicatosi il contraddittorio, la nel costituirsi in giudizio, ha contestato, perché infondate, le censure mosse da parte appellante alla sentenza impugnata, della quale ha chiesto, a sua volta la riforma, per il motivo di appello incidentale afferente, sostanzialmente, all’errato accertamento della responsabilità del per non aver conseguito l’importo di € 700.000,00 a titolo di corrispettivo del prezzo di vendita delle partecipazioni di RAGIONE_SOCIALE pur avendolo quietanziato in sede di compravendita e segnatamente, alla limitazione della condanna del a pagare solo la differenza (€ 250.000,00) fra il valore di mercato che avevano le quote della RAGIONE_SOCIALE al momento della cessione (€ 950.000,00) ed il prezzo pattuito (€ 700.000,00). Con ordinanza del 17.12.2024 la Corte ha rigettato l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

In data 18.03.2025, sulla previa concessione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, la causa è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni delle parti, precisate come in epigrafe trascritte, a seguito di trattazione scritta, ex art. 127 ter c.p.c. *** SULL’APPELLO PRINCIPALE L’appello principale è infondato e va respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata.

Passando alla disamina dell’avanzato gravame, si osserva quanto segue.

I.

La critica contenuta nel primo motivo di gravame è infondata.

Col primo motivo di gravame il lamenta che il primo giudice, nell’accogliere le doglianze della , abbia fondato la propria decisione sulla delibera assembleare dei soci della (di seguito solo ), con cui era stata autorizzata la cessione, al valore nominale, delle quote della società RAGIONE_SOCIALE per il 50% al sig. assimilando, in maniera apodittica e del tutto illegittima, concetto valore nominale delle quote (usato specificatamente nella delibera assembleare, nella scrittura privata e nell’atto notarile) al concetto di valore del patrimonio netto della società, mentre invece, il valore nominale delle quote di una società si determina in base al rapporto con l’ammontare del capitale sociale. Il Tribunale, inoltre, non avrebbe motivato, in alcun modo, sul perché “per determinare il valore nominale delle quote occorra far riferimento al patrimonio netto della società” né sul perché avrebbe assimilato i due concetti non affini tra loro, ossia quello del valore nominale e quello del patrimonio netto.

Deduce, altresì, l’APPELLANTE che la scelta sul valore da attribuire alle quote in sede di cessione sarebbe stata dettata esclusivamente dal fatto che tutti gli istituti di credito con cui la aveva intrattenuto rapporti bancari (come la Banca Popolare di Vicenza e la BCC di Vignole) avevano richiesto, a gran voce, l’azzeramento del valore della partecipazione della predetta nella RAGIONE_SOCIALE, proprio per l’esistenza del debito della medesima controllante, di € 985.000,00 verso la controllata RAGIONE_SOCIALE.

replica richiamando la sentenza n. 801/2024, pubblicata il 06/05/2024, resa da questa Corte d’Appello, in parziale diversa composizione, che – chiamata a pronunciarsi sulla decisione del giudice di prime cure che – adito dal con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. – aveva condannato i cessionari delle quote della RAGIONE_SOCIALE, detenute dalla cedente , in ragione del 50% ciascuno, al pagamento, a favore di quest’ultima, della somma di € 350.000,00 cadauno ed aveva escluso la sussistenza dei presupposti per la compensazione parziale del maggior credito di RAGIONE_SOCIALE (pari ad € 985.000,00), con quello della , pari per l’appunto ad € 700.000,00. Detta pronuncia n. 801/2024, in parziale riforma della sentenza impugnata, anche se si è pronunciata su motivi afferenti alla sola debenza degli interessi ed alle spese di lite – statuendo che sulle somme liquidate nella impugnata ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., sono dovuti gli interessi al saggio indicato dal primo comma dell’art. 1284 c.c., dalla data di stipula del contratto di compravendita a quella di introduzione del giudizio, nonché quelli di cui al quarto comma del medesimo articolo, dalla data di proposta della domanda giudiziale al saldo – ha di fatto accertato che la sorte capitale sulla quale avrebbero dovuto essere applicati i predetti interessi era quella di € 700.000,00 quale prezzo delle quote consacrato nel contratto di cessione. Ciò posto, il Collegio osserva quanto segue.

Si legge nella precitata sentenza d’appello n. 801/2024 che in quel giudizio – vertente tra i cessionari delle quote de quibus, ragione del 50% ciascuno ed il – non fosse stato contestato che il valore delle quote sociali, al momento della compravendita fosse nel complesso pari ad € 700.000,00, in quanto tale dato, emergente dal contratto, non era stato in quel processo, minimamente messo in discussione dalle parti.

Tale pronuncia di secondo grado ha quindi ritenuto che tale fosse il prezzo concordato tra le parti, essendo stato documentato che, con contratto di compravendita del 29.05.2014, la in persona del liquidatore, odierno COGNOME, avesse ceduto ai sigg.ri il 50% ciascuno delle quote societarie della RAGIONE_SOCIALE

” al prezzo di € 350.000,00 per ciascuno di essi, senza che il prezzo totale di € 700.000,00 fosse stato effettivamente corrisposto in quanto compensato col preteso maggior credito di *** pari ad € 985.000,00.

Essa, tuttavia, ed in particolare l’accertata non contestazione in quel processo del prezzo di acquisto pari ad € 700.000,00 della partecipazione detenuta da in ***, non può condizionare l’esito del presente giudizio, in quanto non resa nei confronti del in proprio.

In questa sede invece è invece in contestazione la determinazione del prezzo di cessione da parte del LIQUIDATORE, in quanto contraria al tenore della delibera autorizzativa del 6.12.2003.

Quanto all’omessa motivazione in ordine al riferimento al patrimonio netto della società per determinare il valore nominale delle quote ed alla assimilazione dei due concetti non affini tra loro del valore nominale e quello del patrimonio netto, rileva il Collegio che il T.I. ha ritenuto pacifico il fatto che il – avesse ceduto le quote di RAGIONE_SOCIALE ad un prezzo (€ 700.000,00) inferiore al loro valore nominale, quantificato in € 950.000,00;

– non avesse riscosso alcun prezzo per tale cessione.

Lo stesso Giudice di prime cure, poi, in ordine alla quantificazione del danno, ha ritenuto che “questo coincida con la differenza tra il valore effettivo della partecipazione, così come stimato in corso di causa e che avrebbe dovuto essere effettivamente richiesto come controvalore dell’operazione di cessione (€ 950.000,00) ed il prezzo invece effettivamente pattuito (€ 700.000,00), per un importo pari quindi ad € 250.000,00”.

Appare evidente quindi che il T.I. abbia inteso stimare il valore della partecipazione per cui è lite, con riguardo al valore contabile rettificato della situazione patrimoniale di ***, sulla base delle risultanze della espletata CTU che, come meglio argomentato in ordine all’appello incidentale, ha dato ampiamente conto delle ragioni per cui è addivenuta alla stima secondo il criterio contabile rettificato del patrimonio netto.

Quanto al mancato pagamento del predetto corrispettivo ed alla illegittima compensazione operata non si possono che condividere le argomentazioni svolte da questa Corte nella precitata sentenza di secondo grado, in quanto coerenti e logiche e corrette dal punto di vista tecnico giuridico.

Infatti, la scrittura privata del 28.05.2014 invocata dal giustificazione del proprio operato, (rappresentata dal contratto preliminare di cessione delle quote di cui trattasi) oltre a non recare data certa e a non essere, quindi, opponibile alla , prevede che il corrispettivo avrebbe dovuto essere pagato come segue:

Come si può notare la compensazione non avrebbe operato tra gli stessi soggetti contraenti, come prescrive l’art. 1241 c.c., secondo cui “quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”, bensì tra soggetti diversi e cioè tra la e la ***, nonostante i promissari acquirenti delle quote e cioè i sigg.ri fossero, per l’appunto, le controparti contrattuali della nel contratto di cessione de quo.

Si deve ritenere, quindi, che l’obbligazione del pagamento del prezzo di cessione delle quote della nella ***, pari a complessivi € 700.000,00 non sia stata estinta, non potendo ritenersi corretto quanto indicato nell’atto di cessione di quote del 29.05.2014 e cioè che:

Neppure va sottaciuto che il credito opposto in compensazione fosse un credito chirografario, pari ad € 985.000,00, per un preteso finanziamento erogato da *** alla controllante, che non avrebbe potuto essere soddisfatto con precedenza rispetto a crediti di maggior rango, data la precaria situazione economico- patrimoniale in cui versava la , che aveva riportato perdite di bilancio sin dal 2012 ed aveva visto ridotto il capitale sociale al di sotto del limite legale come da seguente prospetto della non specificamente contestato: Ne deriva l’infondatezza del rilievo critico in commento e la conferma della sentenza appellata sul punto.

II.

La seconda censura alla sentenza impugnata è infondata.

Col secondo motivo di gravame, il critica la sentenza appellata in merito alla restituzione di finanziamenti infruttiferi ai soci ed al prelievo di contanti, deducendo che il Tribunale avrebbe erroneamente considerato il prelievo di € 10.000,00 in contanti e i bonifici per complessivi € 9.000,00 come pagamenti effettuati in violazione della par condicio creditorum o comunque integranti atti di mala gestio.

Deduce, in particolare, l’APPELLANTE che:

• nel verbale di messa in liquidazione della del 19.03.2014 era stato stabilito il proprio compenso quale liquidatore in € 1.000,00 mensili e che, essendo stata la liquidazione chiusa con la sentenza di fallimento della società del 19.02.2019, egli, pertanto, avrebbe avuto diritto al compenso per 60 mensilità, in misura pari ad € 60.000,00;

• i prelievi complessivi sarebbero stati di appena € 19.000,00, ossia meno di un terzo del dovuto e tutti incassati in epoche ampiamente antecedenti la sentenza dichiarativa di fallimento;

• erroneamente non sarebbero state ritenute le quattro buste paga emesse, dalla a proprio favore, idonee a provare la natura dei prelievi effettuati con la motivazione che “non si può ipotizzare un pagamento per contanti”, avendo, invece, il T.I. tralasciato di considerare che per gli anni 2011/2015, il limite massimo imposto dal legislatore per i pagamenti per contanti era di € 1.000,00 e che, nel periodo 2016/2020, era stato innalzato addirittura a € 3.000,00, con la conseguenza che i prelievi di € 1.000,00 alla volta, sarebbero stati fatti a titolo di corresponsione dei propri, limitati, emolumenti. Al riguardo, il Tribunale delle Imprese si è così espresso:

“La curatela ha imputato al liquidatore anche l’ulteriore condotta relativa alla restituzione ai soci e, quindi, a sé stesso, dei finanziamenti infruttiferi per complessivi € 9.000,00, in violazione della regola della postergazione in considerazione della situazione di dissesto in cui versava la società.

In particolare:

– nel 2017 sono stati restituiti € 9.000,00, – nel 2018 sono stati restituiti € 6.000,00.

Rispetto a tale credito, però, risulta già emesso decreto ingiuntivo rispetto al quale nessuna parte ha rilevato la pendenza di un giudizio di opposizione e per il quale, quindi, sussiste autonomo titolo.

Ora, dovendo guardare al bilancio della fallita al 31.12.2016, essendo la restituzione dei finanziamenti stata fatta nel 2017, emergono debiti per € 2.334.380 a fronte di un attivo di € 1.577.774, con un patrimonio netto negativo di – € 756.606,00, in peggioramento rispetto all’anno precedente (doc. 4E fasc. att.).

La condotta posta in essere dal liquidatore, quindi, che ha provveduto a restituite finanziamenti infruttiferi a sé stesso, essendo lui diventato socio unico il 28.01.2015, è in piena mala fede, non potendo non essere consapevole della situazione di difficoltà economico-finanziaria in cui versava la società in liquidazione, avendo lui stesso redatto il suddetto bilancio”.

Il T.I. ha aggiunto:

“Del pari foriera di pregiudizio per la società è la condotta di mala gestio derivante dal prelievo ingiustificato di contante per complessivi € 10.000,00 (doc. 10 fasc. att.).

Sul punto, il convenuto ha eccepito che tali somme afferiscono alle spese correnti sostenute per l’attività di liquidazione senza, tuttavia, produrre alcuna documentazione a supporto di tale ricostruzione:

è preciso obbligo del liquidatore, infatti, conservare tutti i documenti giustificativi delle spese sostenute in fase liquidatoria, onde il generico riferimento ai costi necessari per la liquidazione è del tutto insufficiente a giustificare le fuoriuscite di cassa.

Né a tale scopo sono funzionali le quattro buste paga in atti (doc.ti 18-21 fasc. conv.) giacché il loro pagamento non può essere certo avvenuto mediante il prelievo di soldi in contanti dalla cassa della società”.

Rileva la Corte che anche se il credito vantato dal è legittimamente sussistente, in quanto oggetto di delibera assembleare che ha riconosciuto, in suo favore, quale Liquidatore il compenso per lo svolgimento dell’incarico, il prelievo della complessiva somma di € 10.000,00, il 31.12.2016, deve ritenersi lesivo del principio della par condicio creditorum, quale pagamento preferenziale.

Inoltre, il nel 2017, ha proceduto al rimborso dei finanziamenti dal medesimo effettuati quale socio unico della , in violazione dell’art. 2467 c.c. e, quindi, della regola della postergazione, in considerazione della situazione di dissesto in cui all’epoca versava la società.

Quest’ultima, infatti, pur essendo stata dichiarata fallita con sentenza del 19.02.2019, aveva visto tutti gli esercizi di bilancio dal 2012 al 2018 chiudersi con una perdita ed il patrimonio netto risultare abbondantemente negativo sin al 2014.

Prima di erogare il compenso in proprio favore di rimborsare sé stesso quale socio unico della avrebbe quindi dovuto soddisfare se del caso le pretese degli altri creditori nel rispetto della par condicio creditorum.

La sentenza appellata va, dunque, sul punto confermata.

III.

La terza censura alla sentenza impugnata è infondata.

Col terzo motivo di gravame il muove alla sentenza di prime cure un rilievo critico in merito al pagamento, ritenuto preferenziale, avvenuto in data 18.01.2017 in favore della RAGIONE_SOCIALE, per € 40.000,00.

A sostegno del motivo l’RAGIONE_SOCIALE produce in questa sede, una e-mail inviatagli in data 05.01.2017 dal sig. amministratore della COGNOME.

eccepisce la tardività della produzione e sostiene la correttezza della pronuncia di prime cure per avere il restituito, in data 18.01.2017 e dunque, in piena fase di liquidazione (iniziata il 19.03.2014), alla predetta società creditrice chirografaria, l’importo di € 40.000,00, così violando il principio della par condicio creditorum che avrebbe dovuto essere necessariamente rispettato in sede di liquidazione.

Si legge nella sentenza di prime cure:

“Quanto al pagamento di € 40.000,00 ad ***, il convenuto ha sostenuto che trova il suo titolo nell’accordo tra le due società sottoscritto il 30/10/2016, in base al quale quest’ultima ha versato ad tale somma con assegno bancario ma poi, non essendosi avverate le condizioni inserite nella dichiarazione di intenti entro la data stabilita (31.12.2016), è maturato l’obbligo per la fallita di restituire la somma incassata a titolo di garanzia”.

Rileva la Corte che la produzione della citata e-mail è inammissibile ex art. 345 c.p.c., trattandosi di documento che avrebbe potuto essere prodotto già nel primo grado del giudizio.

Ad ogni buon conto detto documento sarebbe irrilevante ai fini dell’esclusione della colpa in capo all’APPELLANTE, avendo questi restituito in fase di liquidazione, il predetto importo di € 40.000,00 ad un creditore chirografario, in violazione della par condicio creditorum.

SULL’APPELLO INCIDENTALE Con l’unico motivo di appello incidentale, la lamenta il grave errore in cui sarebbe incorso il T.I. per avere omesso di condannare il quale Liquidatore della in bonis, al risarcimento dei danni per atti di mala gestio per non aver conseguito dagli acquirenti, sig.ri l’intero importo di € 700.000,00 a titolo di pagamento del prezzo di vendita delle partecipazioni in RAGIONE_SOCIALE, ovvero per avere limitato la condanna a pagare solo la differenza (€ 250.000,00) fra il valore di mercato che avevano le quote di RAGIONE_SOCIALE al momento della cessione (€ 950.000,00), quale risultante dalla perizia del dott. ed il prezzo pattuito (€ 700.000,00). L’APPELLANTE INCIDENTALE critica sentenza nella seguente parte motivazionale:

“Pertanto, in ordine alla quantificazione del danno, si deve rilevare come questo coincida con la differenza tra il valore effettivo della partecipazione, così come stimato in corso di causa e che avrebbe dovuto essere effettivamente richiesto come controvalore dell’operazione di cessione (€ 950.000,00) e il prezzo invece effettivamente pattuito (€ 700.000,00), per un importo pari quindi ad € 250.000,00.

Invero, la corresponsione di € 700.000,00 trova titolo non nella condotta di mala gestio del liquidatore, bensì nell’omesso adempimento al pagamento del prezzo di cessione da parte degli acquirenti credito peraltro recuperabile da parte della curatela che, infatti, si è tempestivamente attivata azionando, ex art. 702 bis cpc, un procedimento volto al riconoscimento del credito alla conseguente condanna all’adempimento dell’obbligazione…condanna a pagare in favore del la somma di € 290.000,00 a titolo di risarcimento, oltre interessi e rivalutazione, come in parte motiva”. In particolare, il sostiene che il abbia proceduto senza l’impiego della dovuta diligenza a:

a) vendere ai sig.ri il 100% delle quote di RAGIONE_SOCIALE (con ciò disattendendo la delibera assembleare che aveva autorizzato – con l’avallo del Collegio dei Sindaci revisori – la vendita solo del 50%);

b) cedere le predette quote al prezzo di € 700.000,00 (con ciò disattendendo la delibera assembleare che aveva autorizzato – con l’avallo del Collegio dei Sindaci revisori – la vendita al valore nominale, ovvero al valore del patrimonio netto, pari a € 966.470,00);

c) determinare, in tal modo, una minusvalenza di € 659.417,00 (= € 1.359.417,00 – € 700.000,00);

d) comportare la perdita integrale del capitale sociale e determinando, conseguentemente, il passaggio del patrimonio netto da + € 74.879,00 (al 01.04.14) a – € 584.538,00 (= 74.879,00 – 659.417,00) nella consapevolezza che il patrimonio sociale non sarebbe stato più sufficiente ad onorare i restanti debiti della società (e ciò a tutto vantaggio della società RAGIONE_SOCIALE);

e) dichiarare, pur senza conseguire alcun pagamento, in atto pubblico di aver già ricevuto il prezzo di vendita (ben € 700.000,00) rilasciando ampia e liberatoria quietanza a saldo.

Il motivo è infondato.

In primo luogo, il Collegio ritiene che le pacifiche circostanze di fatto allegate dalla siano foriere di colpa in capo al che si è discostato dalla delibera dell’assemblea dei soci della del 6.12.2013 di autorizzazione alla cessione delle quote de quibus, per quanto qui di interesse, del seguente tenore:

Occorre, quindi, interpretare tale deliberato al fine di accertare se l’assemblea della si fosse riferita al valore nominale delle partecipazioni oppure al valore determinato in base al rapporto con l’ammontare (appunto nominale) del capitale sociale o del patrimonio sociale.

Viene messa in discussione dal FALLIMENTO la congruità del corrispettivo di € 700.000,00, in quanto non parametrato dal LIQUIDATORE al valore della totalità delle quote della RAGIONE_SOCIALE, quale valore nominale previsto nella delibera autorizzativa della cessione.

Nell’atto introduttivo del giudizio di prime cure, la non aveva prospettato la mancata cessione delle quote de quibus al valore di mercato, ma la loro mancata cessione al loro valore nominale, quale iscritto nel bilancio 2013 della e pari ad € 1.359.417,00, deducendo che la medesima cessione delle quote al valore di € 700.000,00 avesse, in tal senso, generato una minusvalenza di € 659.417,00 (= 1.359.417,00 – 700.000,00), comportando la perdita integrale del capitale sociale determinando, conseguentemente, il passaggio del patrimonio netto da € 74.879 (al 01.04.2014) a – € 584.538,00 (= 74.879,00 – 659.417,00) al 29.05.2014. Tale prospettazione costituisce anche oggetto della doglianza in esame ed impone quindi di verificare, da un lato, se il T.I. abbia errato nello stimare la partecipazione de qua e nel condannare il al pagamento della differenza rispetto al prezzo pattuito e dall’altro se sia corretta la stima fatta dalla , la quale, come detto, aveva fatto riferimento al bilancio al 31.12.2013 della , nel quale, come si evince dal seguente stralcio della relazione integrativa al predetto bilancio, il valore della partecipazione di in *** era effettivamente così appostato: Inoltre, a detta del , essendo state le quote cedute al minor valore di € 700.000,00 ne sarebbe derivata una minusvalenza di € 659.417,00.

Assodato, come già evidenziato, che il contenuto della sentenza n. 801/2024 resa da questa Corte in altro procedimento, laddove ha ritenuto che il prezzo di cessione delle quote della nella RAGIONE_SOCIALE, pari ad € 700.000,00 fosse incontestato e quindi pacifico tra le parti, anche perché risultante dal contratto, non risulta vincolante nel presente giudizio di responsabilità, si rileva che il ha parametrato il valore delle quote della nella RAGIONE_SOCIALE al valore nominale del capitale sociale, stimandole in misura pari ad € 115.000,00 (57.500,00 x 2) e determinando il corrispettivo dovuto da ciascuno dei due acquirenti, in ragione di € 350.000,00, per un prezzo totale di € 700.000,00. Si legge infatti, nel contratto di cessione di quote per cui è lite quanto segue:

Anche se il capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE (costituita nel 1995 ma iscritta nel R.I. il 19.12.2013) a seguito della cessione come da visura CCIAA di seguito riportata per estratto, sarebbe risultato così determinato:

il valore delle quote cedute avrebbe dovuto essere parametrato al valore contabile rettificato delle medesime, posto che nella citata delibera l’assemblea della aveva inteso autorizzare la cessione al valore nominale della partecipazione di tale società nella ***.

dunque avrebbe dovuto tener conto, quindi, della situazione patrimoniale rettificata di quest’ultima, ove si consideri, altresì che il valore delle quote, come appostato nel bilancio della al 31.12.2013, non sarebbe stato comunque applicabile, atteso che, come risulta dalla espletata CTU, non aveva svalutato nel bilancio chiuso al 31/12/2013 la partecipazione in ***, ritenendo quindi i valori contabili ancora validi a rappresentare la partecipazione”, nonostante nel bilancio chiuso al 31/12/2012 approvato con verbale del 30/05/2013, fosse emersa una perdita di € 5.391,00 e un patrimonio netto contabile di € 761.410,00. Suffraga il presente convincimento anche il fatto che il prezzo della intera partecipazione oggetto del contratto di cessione non fosse stato determinato neppure dai contraenti, in misura corrispondente al capitale sociale di *** pari ad € 115.000,00 (bensì ad € 700.000,00).

Pertanto, reputa il Collegio che avendo l’assemblea dei soci della deliberato che la cessione de qua sarebbe dovuta avvenire “al prezzo pari al valore nominale”, risalendo il contratto di cessione di quote in argomento, al 29.05.2014, si sarebbe dovuto far riferimento non già al bilancio al 31.12.2013 della (interamente partecipata dal , bensì al valore delle quote de quibus, quale emergente dalla situazione patrimoniale contabile rettificata di ***, posto che non è imputata all’APPELLANTE l’avvenuta deliberazione, nella indicata qualità di socio unico della , del prezzo di cessione al valore nominale. Occorre, dunque, accertare quale fosse al momento della cessione il valore nominale della intera partecipazione ceduta.

Nel giudizio di prime cure era stata disposta ed espletata una CTU per la “ stima del valore della partecipazione ad RAGIONE_SOCIALE al momento della cessione delle quote ai terzi con richiesta al CTU di quantificare “l’eventuale scostamento del prezzo di vendita dal valore di mercato, nonché per l’accertamento ed il riepilogo dei danni subiti dalla 2003, secondo la prospettazione delle parti”.

Ebbene, ritenuto di non poter fare riferimento al valore di mercato della partecipazione de qua, essendo stata la cessione autorizzata al valore nominale della stessa, evidenzia il Collegio che lo stato patrimoniale del bilancio 2013 di *** – seppure non disponibile alla data della cessione della partecipazione de qua, posto che tale bilancio era stato approvato solo nel giugno 2014 – evidenziava un patrimonio netto di € 966.470,00.

La situazione patrimoniale di *** alla data della cessione (29.05.2014) come riportata dal CTU era, invece, la seguente:

Tuttavia, l’Ausiliario – avendo riscontrato poste non veritiere – ha rettificato la suddetta situazione patrimoniale di *** alla data della cessione di quote, come segue:

Tale situazione patrimoniale rettificata, a giudizio del CTU e del T.I. che l’ha recepita, ha consentito di pervenire alla miglior stima del valore della partecipazione, in misura pari ad € 947.598,00, arrotondata a complessivi € 950.00,00.

Del resto, tale valore risulta coerente anche col patrimonio netto di RAGIONE_SOCIALE espresso nel bilancio al 31.12.2013 in misura pari ad € 966.470,00.

Il CTU ha, quindi, concluso affermando che il danno diretto subìto da sia di complessivi € 250.000,00, mentre quello patito dai creditori privilegiati sia pari ad € 700.000,00, per il mancato incasso del corrispettivo pattuito (compensato con un debito chirografario in dispregio della graduazione legittima dei crediti).

Il T.I. ha riconosciuto al , per la causale in argomento, solo la somma di € 250.000,00, posto che “la corresponsione di € 700.000,00 trova titolo non nella condotta di mala gestio del liquidatore, bensì nell’omesso adempimento al pagamento del prezzo di cessione da parte degli acquirenti credito peraltro recuperabile da parte della curatela che, infatti, si è tempestivamente attivata azionando, ex art. 702 bis c.p.c., un procedimento volto al riconoscimento del credito ed alla conseguente condanna all’adempimento dell’obbligazione”. Concorda il Collegio con tale statuizione, ma non con la motivazione adottata a supporto di essa, posto che la aveva allegato quale condotta di mala gestio del quella della compensazione del prezzo di € 700.000,00 col maggior credito dei cessionari delle quote.

Tuttavia, stante la mancata prova della impossibilità di recupero della predetta somma di € 700.000,00 seppure illegittimamente compensata, il danno corrispondente non può ritenersi provato.

L’appello incidentale è dunque, infondato e va respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata, con la sopra estesa diversa motivazione.

SULLE SPESE PROCESSUALI A fronte della reciproca soccombenza, reputa il Collegio di poter compensare integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Va dato atto della sussistenza in capo all’appellante principale ed a quello incidentale dei presupposti di cui all’art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002.

La Corte di Appello di Firenze, definitivamente pronunciando, sull’appello proposto nei confronti della avverso la sentenza n. 1072/2024 emessa dal Tribunale delle Imprese di Firenze e pubblicata il 30/03/2024, confermando integralmente tale pronuncia, così provvede:

1. RESPINGE l’appello principale;

2. RESPINGE l’appello incidentale;

3. DICHIARA le spese del presente grado del giudizio interamente compensate tra le parti;

4. DA’ atto della sussistenza in capo all’appellante principale ed a quello incidentale dei presupposti di cui all’art. 13 co.

1 quater D.P.R. 115/2002.

Firenze, camera di consiglio del 22.04.2025 Il Presidente relatore ed estensore dott. NOME COGNOME Nota

La divulgazione del presente provvedimento, al di fuori dell’ambito strettamente processuale, è condizionata all’eliminazione di tutti i dati sensibili in esso contenuti ai sensi della normativa sulla privacy ex D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196 e successive modificazioni e integrazioni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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