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Codice Civile
Codice Penale

Amministratore di sostegno, autorizzazione del giudice

Amministratore di sostegno, materie per le quali rappresenta il beneficiario, non necessita dell’autorizzazione del giudice tutelare per resistere in giudizio.

Pubblicato il 20 August 2021 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI MILANO
SEZIONE LAVORO

composta da:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 654/2021 pubblicata il 09/08/2021

nella causa in grado d’appello in materia di lavoro avverso la sentenza del Tribunale di Varese n. 128/2019 promossa da XXX in qualità di amministratrice di sostegno di YYY rappresentata e difesa dall’avv.,

– APPELLANTE –

contro

ZZZ rappresentata e difesa dagli avv.ti,

– APPELLATA –

I procuratori delle parti, come sopra costituite, hanno precisato le seguenti

CONCLUSIONI

Appellante: “- in principalità dichiarare la nullità della sentenza per omessa comunicazione al PM ai sensi dell’art. 70 cpc dello stato di incapacità di parte resistente di cui il Tribunale era a conoscenza.

 – In subordine, ma sempre in principalità, dichiarare la nullità della sentenza impugnata per la mancata interruzione del processo e conseguente riassunzione ai sensi dell’art. 300 cpc. – In subordine, nel merito, ai sensi dell’art. 115 cpc, dichiarare non applicabile in caso di contumacia il principio di cui all’art 115 cpc e di conseguenza dichiarare la domanda non fondata perchè priva di supporto probatorio. – Spese e compensi per il presente grado del giudizio”.

Appellata: “voglia l’On.le Corte d’Appello adita rigettare le domande tutte formulate dall’appellante, in quanto infondate in fatto e in diritto, con conseguente conferma integrale della sentenza impugnata.

Con rivalutazione e interessi dal dovuto al saldo.

Con vittoria di spese, competenze e onorari del giudizio, distratti a favore dei procuratori antistatari ex art. 93 c.p.c.”.

MOTIVI DELLA DECISIONE
IN FATTO E IN DIRITTO

Con sentenza depositata il 26 marzo 2020, il Tribunale di Varese in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa n. 675/2018 RG promossa da ZZZ contro YYY, nella contumacia di quest’ultima ha accolto le domande della ricorrente, la quale esponeva:

– di essere stata assunta in data 9 ottobre 2017 da YYY con qualifica di collaboratrice familiare di livello C Super, corrispondente al profilo di “assistente a persona non autosufficiente non formata”, del CCNL per i lavoratori domestici, in forza di contratto di lavoro a tempo determinato avente scadenza il 6 ottobre 2018, con orario part time di 20 ore settimanali;

– che la datrice di lavoro le aveva consegnato a mani una raccomandata datata 23 marzo 2018, con cui, in particolare, le intimava il “licenziamento senza preavviso”, ancorché in mancanza di esplicitazione di qualsiasi motivo di risoluzione;

– di aver ricevuto, in data 17 aprile 2018, una comunicazione inviatale da un legale , nell’interesse della datrice di lavoro, riguardante la cessazione del rapporto e recante altresì l’invito a ritirare un assegno, di importo pari ad € 1.016,48, dovuto a titolo di spettanze retributive;

– di aver impugnato, tramite sindacato, il licenziamento, con lettera raccomandata del 26 aprile 2018;

– che era seguita ulteriore corrispondenza con il legale della datrice di lavoro;

– di vantare tuttora, nei confronti di quest’ultima, un credito pari ad € 1.016,48 netti per i titoli elencati;

– che, in relazione al recesso ante tempus della datrice di lavoro nell’ambito di contratto di lavoro a tempo determinato, spettavano altresì alla lavoratrice le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla prevista scadenza contrattuale, pari all’importo di € 4.342,58;

ciò esposto, chiedeva di accertare e dichiarare la nullità e/o l’illegittimità e/o l’inefficacia e/o l’infondatezza del licenziamento intimatole e, di conseguenza, di condannare YYY a risarcire tutti i danni patiti dalla lavoratrice, nella misura del complesso delle retribuzioni che la stessa avrebbe percepito dalla data del recesso sino alla scadenza naturale del contratto di lavoro a termine, fissata al 6 ottobre 2018, oltre alla somma netta di € 1.016,48 a titolo di retribuzione del mese di marzo 2018, ratei di tredicesima e TFR maturati sino al 24 marzo 2018.

Il giudice di prime cure ha ritenuto le domande fondate, alla luce della documentazione in atti e segnatamente del contratto di lavoro domestico a tempo determinato e della lettera di licenziamento.

Ha ritenuto il licenziamento, intimato ante tempus rispetto alla scadenza contrattuale pattuita, inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro a tempo determinato, anche in considerazione della carenza di allegazione e prova da parte datoriale, ed ha condannato la convenuta a corrispondere alla ricorrente l’importo di € 4.342,58 a titolo di risarcimento del danno, oltre alla somma netta di € 1.016,48 a titolo di spettanze retributive e di fine rapporto.

Avverso la sentenza ha proposto appello XXX, in qualità di amministratrice di sostegno di YYY, affidandosi a tre motivi.

Con il primo motivo denuncia violazione dell’art. 70 c.p.c. e nullità della dichiarazione di contumacia.

Afferma che, in presenza di una causa nella quale il Pubblico Ministero può intervenire, è previsto che il giudice avanti al quale il giudizio è proposto ordini la comunicazione degli atti al titolare di quell’ufficio (art. 71 c.p.c.), affinché, nel doveroso esercizio delle sue funzioni e ricorrendone i presupposti, il Pubblico Ministero assuma le iniziative necessarie per tutelare la posizione dell’incapace nel processo già pendente.

Si duole che il giudice di prime cure, benché informato dell’incapacità naturale di YYY, ne abbia dichiarato la contumacia. Chiede pertanto di dichiarare nullo il procedimento di primo grado per difetto di comunicazione al Pubblico Ministero.

Con il secondo motivo lamenta violazione dell’art. 300 c.p.c. e dell’art. 75 c.p.c..

Deduce che il giudice di primo grado avrebbe dovuto sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 300 c.p.c., onerando la controparte alla riassunzione del medesimo.

Con il terzo motivo critica la sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. e relativa nullità della prova formata in giudizio, in quanto l’onere della prova non sarebbe stato assolto da controparte.

Sulla base dei motivi suesposti ha chiesto l’integrale riforma della pronuncia impugnata e l’accoglimento delle conclusioni in epigrafe trascritte.

Costituendosi ritualmente in giudizio, l’appellata ZZZ ha chiesto il rigetto dell’appello avversario e la conferma della sentenza di primo grado.

Ha evidenziato come l’appellante non abbia prodotto in giudizio il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, non essendo così dato sapere quali poteri siano stati attribuiti a quest’ultimo, con evidenti ripercussioni sulla sussistenza dei poteri di rappresentanza.

Con provvedimento collegiale in data 16 marzo 2021 è stato ordinato a parte appellante il deposito del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno di YYY ed è stata altresì disposta la trattazione della causa nelle forme di cui all’art. 221, comma 4, d.l. 19 maggio 2020 n. 34, convertito in legge 17 luglio 2020 n. 77, con assegnazione alle parti di termine per il deposito di note scritte.

Esaminate le note depositate da entrambe le parti, in data 27 aprile 2021 il Collegio ha deciso la causa come da dispositivo trascritto in calce alla presente sentenza.

Preliminarmente si dà atto che, in ottemperanza all’ordinanza collegiale, parte appellante ha depositato in atti il decreto del Tribunale di Varese in data 29 agosto 2019, recante la nomina di XXX ad amministratrice di sostegno di YYY.

Detto decreto stabilisce che l’amministratore di sostegno “potrà compiere in sostituzione della beneficiaria, gli atti di straordinaria amministrazione ritenuti utili o necessari per il soggetto rappresentante incapace previa istanza e successiva autorizzazione del giudice tutelare

Autorizzando comunque fin da subito XXX, in qualità di amministratore di sostegno della beneficianda, al conferimento della procura alle liti ad un legale per la costituzione nel giudizio rg lavoro n. 675/2018”.

Deve perciò ritenersi che sussista in capo a XXX il potere di proporre il presente appello avverso la sentenza, sfavorevole a YYY, pronunciata all’esito del giudizio menzionato nel decreto di nomina, senza necessità di ulteriore autorizzazione del giudice tutelare ex art. 374 c.c., trattandosi di attività volta alla conservazione degli interessi del rappresentato (cfr. Cass. 6 marzo 2019 n. 6518, secondo cui “l’amministratore di sostegno, nell’ambito delle materie per le quali rappresenta il beneficiario, non necessita dell’autorizzazione del giudice tutelare per resistere in giudizio, tenuto conto che tale attività è sempre funzionale alla conservazione degli interessi del rappresentato, di talché la previsione di cui al combinato disposto degli artt. 374, comma 1, n. 5) c.c. e 411 c.c., deve ritenersi esclusivamente operante nelle ipotesi di promozione dei giudizi individuati dall’art. 374, c.1, n. 5 c.c.”, nonché Cass. 24 marzo 2009 n. 7068, secondo cui “il tutore dell’interdetto, essendo tenuto a proteggere gli interessi della persona tutelata, non ha bisogno dell’autorizzazione del giudice tutelare né per resistere alla lite promossa da un terzo nei confronti dell’interdetto, né per impugnare la relativa sentenza”).

Tanto premesso, l’appello proposto da XXX in qualità di amministratrice di sostegno di YYY deve essere respinto, con conferma della sentenza gravata.

In ordine al primo motivo di appello è assorbente il rilievo che, ai sensi dell’art. 71 c.p.c., debbono essere comunicati al Pubblico Ministero gli atti dei procedimenti nei quali è obbligatorio l’intervento di quest’ultimo.

Detti procedimenti, indicati all’art. 70, comma 1, c.p.c., non contemplano le controversie di lavoro, neppure quando una delle parti sia affetta da incapacità legale o naturale.

Non sussiste, pertanto, la denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 70 c.p.c..

Infondato è anche il secondo motivo di gravame, con cui si denuncia violazione degli artt. 300 c.p.c. e 75 c.p.c..

Dalla documentazione in atti emerge, infatti, quanto segue:

– nel giudizio di primo grado YYY è stata dichiarata contumace all’udienza del 12 luglio 2019;

– XXX è stata nominata amministratrice di sostegno di YYY il 29 agosto 2019 ed ha prestato giuramento l’11 dicembre 2019;

– la causa di lavoro avanti il Tribunale è stata decisa con dispositivo letto all’udienza del 29 novembre 2019;

– in corso di causa la nomina dell’amministratore di sostegno non è stata documentata, né notificata o certificata da ufficiale giudiziario;

– in particolare, nel verbale di udienza del 5 giugno 2019 si dà atto di una richiesta inoltrata il giorno precedente dall’avv. *** (intuibilmente nell’interesse di YYY, pur non risultando in atti alcun mandato) di rinvio dell’udienza a data successiva al 25 giugno 2019, “in attesa dell’eventuale nomina di amministratore di sostegno”; il giudice ha concesso il richiesto rinvio, tuttavia alla successiva udienza del 12 luglio 2019, come pure all’udienza del 29 novembre 2019, nessuno è comparso per YYY, né è stato prodotto in atti alcun decreto di nomina di amministratore di sostegno.

Alla luce della sequenza processuale richiamata deve concludersi che, contrariamente a quanto dedotto da parte appellante, non sia ravvisabile alcuna violazione dell’art. 300 c.p.c., atteso che, ai sensi di detta norma, ove la perdita della capacità di stare in giudizio riguardi la parte dichiarata contumace “il processo è interrotto dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte, o è notificato ovvero è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all’articolo 292” (cfr. art. 300, comma 4, c.p.c.).

Nel caso di specie, si ribadisce, il fatto interruttivo non è stato documentato, né notificato o certificato nel corso del giudizio di primo grado, sicché il Tribunale non doveva – né poteva – dichiarare l’interruzione del processo.

La doglianza è pertanto infondata.

Per completezza si osserva che, anche nell’ipotesi in cui il giudice di primo grado avesse erroneamente omesso di dichiarare l’interruzione del giudizio, il motivo di gravame sarebbe inammissibile per carenza di interesse, non avendo parte appellante prospettato quali lesioni siano, in concreto, derivate ai suoi diritti e alle sue facoltà processuali dalla mancata interruzione. (cfr. Cass. 9 marzo 2012 n. 3712, secondo cui “è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso per cassazione con cui si denunci genericamente la mancata interruzione del processo di primo grado in conseguenza dapprima dell’adozione e poi della revoca dell’amministrazione di sostegno in favore di una parte del giudizio, nel momento in cui tali eventi furono comunicati in udienza o notificati alle altre parti, pur a fronte dell’oggettiva estensione dei poteri rappresentativi attribuiti nel caso dal giudice tutelare all’ amministratore (e della speculare riduzione dell’autonomia di gestione del beneficiario), dovendo il ricorrente prospettare quali lesioni siano, in concreto, derivate ai suoi diritti e alle sue facoltà processuali da detta mancata interruzione. Trattandosi, infatti, di violazione non rientrante tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice, e convertendosi l’eventuale nullità della sentenza in motivi di impugnazione, l’impugnante deve, a pena d’inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall’invocato vizio processuale”).

Va respinto, infine, il terzo motivo di appello, in quanto la sentenza impugnata non contiene alcun riferimento all’art. 115 c.p.c., né il Tribunale ha valorizzato il principio di non contestazione nel percorso motivazionale a sostegno della decisione.

Non colgono pertanto nel segno gli argomenti spesi da parte appellante in punto di inapplicabilità al contumace dell’art. 115 c.p.c..

Infondata è anche la censura secondo cui le domande sarebbero state accolte in assenza di alcun supporto probatorio.

Del tutto correttamente, infatti, il giudice di prime cure ha ritenuto documentalmente provati i fatti costitutivi delle domande azionate da ZZZ, alla luce del contratto di lavoro domestico a tempo determinato stipulato dalle parti, avente scadenza il 6 ottobre 2018 (cfr. doc. 1 fascicolo appellata); della lettera di licenziamento datata 23 marzo 2018, con cui YYY ha comunicato la cessazione del rapporto a decorrere dal 24 marzo 2018, senza neppure prospettare la sussistenza di una giusta causa idonea a giustificare il recesso ante tempus (cfr. doc. 2 fascicolo appellata), nonché della lettera in data 17 aprile 2018 a firma dell’avv. ***, che “in nome e per conto della signora YYY” ha invitato ZZZ a recarsi presso il suo studio per ritirare assegno dell’importo di € 1.016,48 a titolo di spettanze retributive e di fine rapporto (cfr. doc. 3 fascicolo appellata).

Alla luce delle considerazioni esposte – dirimenti ed assorbenti di ogni altra questione – l’appello deve essere respinto, con integrale conferma della sentenza impugnata.

Il regolamento delle spese di lite del grado segue il criterio della soccombenza ed i relativi importi, considerato il valore della causa e rilevata l’assenza di attività istruttoria, vengono liquidati come da dispositivo, in applicazione del d.m. 10 marzo 2014 n. 55, come modificato dal d.m. 8 marzo 2018 n. 37, e distratti in favore dei difensori dell’appellata ex art. 93 c.p.c..

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2012 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012 n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

– rigetta l’appello avverso la sentenza n. 128/2019 del Tribunale di Varese;

– condanna parte appellante a rifondere a parte appellata le spese di lite del grado, che liquida in € 2.000,00 oltre rimborso forfettario per spese generali (15%) ed oneri accessori di legge e distrae in favore dei difensori ex art. 93 c.p.c.;

– ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2012 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. Milano, 27 aprile 2021

Il Consigliere estensore

Il Presidente

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