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Segnalazione alla Centrale Rischi

Danno all’immagine ed alla reputazione per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi costituisce pur sempre danno conseguenza.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA

composta dai Signori magistrati:

riunita in Camera di Consiglio ha emesso la seguente

SENTENZA n. 661/2020 pubblicata il 06/05/2020

nella causa civile in grado d’appello iscritta al n. /2015 R.G., posta in deliberazione all’udienza collegiale dell’25.06.2019 e vertente

TRA DITTA XXX S.R.L.

in persona del l.r., nonché YYY in proprio, rappresentati e difesi dall’Avv., elettivamente domiciliati presso lo studio del medesimo in, giusta procura in calce all’atto di

citazione in appello; APPELLANTE

E

BANCA ZZZ S.P.A.

appartenente al Gruppo Bancario, in persona dell’Avv. giusta procura conferita con atto par notar il 25.05.2015 rep. N. racc. n., elettivamente domiciliata in presso lo studio dell’, rappresentata e difesa dall’Avv. come da procura estesa in calce alla comparsa di costituzione e

risposta in appello; APPELLATA

CONCLUSIONI DELLE PARTI

come da verbale di udienza dell’25.06.2019.

OGGETTO: appello in materia bancaria proposto avverso la sentenza del Tribunale di Teramo n. /2014 del 28.10.2014, pubblicata il 29.10.2014.

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato il 20.01.2006, la XXX s.r.l. conveniva in giudizio la Banca Popolare ZZZ deducendo di avere intrattenuto con la stessa un rapporto bancario consistente in un’apertura di credito con affidamento, regolato sul c/c n., acceso a settembre 2000 e collegato ad altri rapporti bancari in essere presso lo stesso istituto contraddistinti con i nn. *** e ***.

Sosteneva che, a seguito della cessione alla Banca a luglio 2002 (cessione regolarmente accettata) di un credito derivante da un contratto di appalto stipulato con la *** s.r.l., la Banca aveva concesso alla società una linea di credito su anticipazione fatture della *** s.r.l. pari ad € 155.000,00, nonché una linea di credito transitorio pari ad € 300.000,00.

Deduceva ancora l’attrice che la Banca, a far data dal 2003, aveva effettuato, senza autorizzazione, storni e compensazioni di somme dai sopra citati conti correnti a favore di altre società, mettendo la XXX s.r.l. in grave difficoltà economica e finanziaria. Deduceva altresì che la Banca a gennaio 2006 aveva deliberato di revocare, con effetto immediato senza concedere alcun termine, le aperture di credito, e di recedere dai rispettivi contratti di conto corrente, invitando la società attrice al pagamento del dovuto pari ad € 434.309,32. La revoca (da ritenersi illegittima poiché il conto corrente era collegato alla cessione del credito che garantiva anche le linee di credito transitorio in essere, e poiché a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte esisteva una garanzia fideiussoria costituita dalla polizza assicurativa n. *** stipulata dall’amministratore della società, il quale aveva altresì consegnato alla banca alcuni assegni per l’importo di € 150.000,00 a garanzia ed eventuale copertura di somme scoperte), nonchè il recesso, avevano determinato conseguenze negative per l’attrice, ingenerando una grave difficoltà economica e finanziaria. La XXX s.r.l. chiedeva pertanto: a) di accertare la nullità delle clausole relative alla determinazione degli interessi ultralegali e degli interessi anatocistici applicati ai rapporti di conto corrente; b) di dichiarare l’illegittimità della prassi adottata dalla banca in tema di valute e di C.M.S.; c) di accertare l’entità degli interessi percepiti dalla banca in conformità a quanto disposto dalla L. 108/96; d) di condannare la Banca alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate e/o riscosse; e) di condannare la Banca al risarcimento dei danni per avere accettato la cessione di un credito senza le dovute cautele ed accertamenti, nonché per avere effettuato operazioni a favore di terzi ed avere restituito agli stessi somme e/o titoli senza autorizzazione.

Si costituiva la Banca Popolare ZZZ s.p.a. contestando le avverse deduzioni ed invocando il rigetto della domanda.

In pendenza del giudizio, la Banca Popolare ZZZ s.p.a. chiedeva ed otteneva, a settembre 2006, dal Tribunale di Teramo, un decreto ingiuntivo di pagamento per l’importo di € 318.627,46 nei confronti della ditta XXX s.r.l., in qualità di debitore principale. L’ingiunzione era rivolta anche nei confronti di YYY, in qualità di fideiussore, per la minor somma fino al limite dell’impegno solidale assunto.

Avverso il predetto decreto la XXX s.r.l. ed YYY proponevano formale opposizione.

I due giudizi venivano riuniti.

All’esito dell’istruttoria espletata (con l’interrogatorio formale di YYY, l’escussione dei testi e con la redazione di una CTU contabile, poi rinnovata) il giudice del Tribunale di Teramo, con la sentenza n. /2014, in parziale accoglimento dell’opposizione svolta da XXX s.r.l. ed YYY, revocava il decreto ingiuntivo n. /2006 e condannava in solido XXX s.r.l. ed YYY, quest’ultimo nel limite di € 77.468,53, al pagamento in favore di Banca Popolare ZZZ s.p.a. della somma di € 103.233,49, oltre interessi come da domanda dalla scadenza al saldo; rigettava tutte le altre domande avanzate dagli opponenti nella causa n. /2006 e quelle proposte dalla parte attrice nella causa /2006; compensava interamente tra le parti le spese di lite, ponendo altresì a carico di tutte le parti del giudizio, in solido, le spese di CTU.

Nella sentenza il Giudice – dopo avere preliminarmente circoscritto il thema decidendum alla verifica della legittimità del recesso effettuato dalla Banca; all’accertamento della nullità delle clausole contrattuali relative al tasso di interesse ultralegale, alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, alla commissione di massimo scoperto ed alla prassi utilizzata per la determinazione della valuta; ed infine all’esame delle domande risarcitorie proposte da parte attrice – rilevava nello specifico:

1. il recesso effettuato dalla Banca era legittimo (la Banca aveva infatti correttamente esercitato ex art. 1845 c.c. il diritto di recesso (espressamente disciplinato dalle parti nel contratto) mediante comunicazione spedita in data 12.01.2006 alla società XXX s.r.l. ed al fideiussore nei termini previsti nel contratto. L’esistenza di una esposizione debitoria superiore all’affidato sui conti correnti intestati alla società attrice, era emersa pacifica in istruttoria. Nessuna violazione dunque da parte della banca della buona fede contrattuale;

2. l’applicazione degli interessi ultralegali, della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, della commissione di massimo scoperto da parte della Banca era illegittima fino al 2005 (in assenza di prova della pattuizione inter partes); a far data dal 2005, anno in cui i conti correnti oggetto di causa erano stati oggetto di apposita rinegoziazione tra le parti, la Banca aveva invece correttamente applicato i tassi di cui sopra perché pattuiti dalle parti; quanto alla data di valuta, in mancanza di apposita convenzione scritta, questa doveva essere quella di effettivo compimento delle singole operazioni fino all’anno 2005, a far data dal quale andava applicata la data valuta convenzionalmente stabilita dalle parti. A tali conclusioni era pervenuto anche il CTU durante il ricalcolo dei saldi dei conti correnti di cui è causa, e non vi era motivo di discostarsi da conteggi esaustivi e privi di vizi logici dal medesimo effettuati, conteggi che conducevano ad un credito vantato dalla Banca pari ad € 103.233,49, cui dovevano poi aggiungersi gli interessi al tasso convenzionale (come richiesti) dalla scadenza al saldo. (Sulla base dei conteggi forniti dal CTU, il Tribunale aveva determinato in € 233.491,45 complessivi il credito della Banca, ma aveva poi detratto da tale importo la somma di € 130.257,96 proveniente da un pegno di titoli (utilizzata in data 09.08.2006 per ridurre l’esposizione debitoria) ed aveva cristallizzato in € 103.233,49 il debito residuo effettivo del correntista).

3. le domande risarcitorie proposte da parte attrice andavano rigettate perché del tutto sfornite di prova del danno subito.

Nel proporre appello la XXX s.r.l. ed YYY censuravano la decisione del Giudice del Tribunale di Teramo per i motivi di seguito così riassunti:

I. CONTEGGIO ERRATO E/O INCOMPLETO ESEGUITO DAL MAGISTRATO.

I.I. Il Giudice di primo grado – nel conteggio del dare ed avere tra la parte attrice e la parte convenuta – non avrebbe preso in considerazione, né conteggiato in detrazione dall’importo asseritamente dovuto alla banca, la somma portata dalla polizza n. *** stipulata con l’Assicurazione *** di € 77.468,53 (diventati poi € 90.000,00) dal YYY e depositata dallo stesso a garanzia dell’esatto adempimento del conto corrente; polizza incassata dalla Banca ma per l’appunto non portata in detrazione dalla stessa banca né dal Magistrato.

I.2. Inoltre il Giudice non avrebbe conteggiato il credito *** con conseguente perdita, sia, del contratto con la *** s.r.l., che della somma per i lavori già eseguiti descritti nella fattura n.9 del 16.10.2002 dell’importo di € 204.000,00 e di quelli da eseguire, per mancata azione di recupero.

I.3. Il Giudice di primo grado, ancora, avrebbe dovuto tenere conto della perdita della somma di € 150.000,00 portati da assegni postdatati con cadenza a 30 e 60 giorni a copertura parziale della fattura n.9 della *** s.r.l. consegnati dal YYY alla

Banca, ma assegni riconsegnati dal funzionario dell’Istituto senza comunicazione agli appellanti e senza alcuna autorizzazione.

II. MANCATO RISARCIMENTO DEL DANNO.

Il Giudice di primo grado, a dire degli appellanti, nel valutare il danno di cui gli stessi avevano invocato il risarcimento, non aveva tenuto conto della condotta della banca, che aveva proceduto: a) ad una richiesta di rientro immediata; b) ad una richiesta di decreto ingiuntivo nonostante la pendenza di un giudizio; c) ad un pignoramento presso terzi in corso di causa; d) ad una comunicazione al CRIF per stato di insolvenza; e) alla richiesta di somme che poi erano risultate non dovute (ciò comportando un danno ingente alla XXX s.r.l.); f) ad uno storno di somme (riconsegna di assegni invece di incassarli approfittando che il YYY si trovava all’estero e non aveva la possibilità di rientro). Gli appellanti chiedevano pertanto in appello che venissero accertate e dichiarate non dovute le somme di € 77.468,53 (poi diventati € 90.000,00) (pari alla fideiussione stipulata dal YYY con la polizza ass.va *** ed incamerata dalla Banca), di € 204.000,00 (inerente la fattura n.9 del 16.10.2002 emessa alla *** s.r.l. a copertura di lavori eseguiti, e ceduta alla Banca ma dalla medesima non riscossa) o, in sua vece, di € 150.000,00 inerenti gli assegni consegnati alla Banca a copertura dell’importo predetto e dalla banca non negoziati. Chiedevano quindi che venisse riconteggiato il dare-avere tra le parti e venisse accertato il credito degli appellanti, con condanna della banca alla assegnazione di quanto dovuto ed al risarcimento dei danni subiti, da liquidare quantomeno nei termini della somma illegittimamente richiesta con il decreto ingiuntivo, o in via equitativa.

Si costituiva la Banca ZZZ s.p.a. eccependo preliminarmente

l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art 342 c.p.c.; nel merito, contestava, quanto al primo motivo di appello, la rielaborazione dei conteggi effettuata dagli appellanti (rispetto alle risultanze della CTU ed alla decisione del tribunale) senza argomentare minimamente sul punto e, comunque, senza spiegare il motivo per cui alcune poste risultate a credito della banca si sarebbero dovute viceversa detrarre; quanto al secondo motivo di appello, la banca evidenziava come nessuna prova fosse stata fornita dagli appellanti in merito ad una condotta della banca contraria alla buona fede contrattuale, e come la revoca degli affidamenti e la conseguente segnalazione alla Centrale Rischi, nonché il recesso dai rispettivi contratti di conto corrente stipulati con la società attrice, fosse stata legittimamente disposta, con la concessione di un termine (dunque non, con effetto immediato) ed a seguito del mancato rispetto degli accordi raggiunti con la Direzione generale della Banca.

Preliminarmente la Corte è chiamata a pronunciarsi in merito all’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata da parte appellata ex art. 342 c.p.c.. Trattasi di eccezione infondata poichè dalla lettura dell’atto non emerge una mancata esposizione degli elementi di fatto o una genericità delle censure, rilevandosi viceversa una sufficiente indicazione delle parti appellate e delle modifiche richieste secondo quanto statuito dalla riforma del 2012 (si richiama sul punto Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16/11/2017, n. 27199 secondo cui l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza però che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado).

Nel merito l’appello è infondato e non meritevole di accoglimento.

La Corte, nel circoscrivere la pronuncia ai due soli motivi di appello formulati dalla ditta XXX s.r.l. e da YYY, in assenza di appello incidentale da parte della Banca, rileva quanto segue.

Sul primo motivo di appello. La censura degli appellanti in merito alla mancata decurtazione di somme dall’importo a debito del correntista è infondata.

La censura appare assolutamente generica, non accompagnata da elementi che avrebbero dovuto indurre, prima il tribunale, ora la Corte, a disattendere i risultati di una consulenza tecnica (comunque già rivisitata dal Giudice attraverso la decurtazione di un importo proveniente dal pegno di titoli) viceversa puntuale e priva di vizi logici. A ciò si aggiunga che le ragioni di credito opposte in compensazione dagli appellanti sono risultate sfornite di prova, se non manifestamente infondate.

Quanto agli € 77.468,53 (poi € 90.000,00) di cui alla polizza assicurativa ***, non vi è prova che quest’ultima sia stata effettivamente incamerata dalla Banca; quanto alla fattura di € 204.000,00 di cui alla fattura n.9/2002, è dato pacifico tra le parti che essa sia rimasta insoluta; quanto agli assegni consegnati dal YYY alla Banca a copertura dell’importo di cui sopra e poi riconsegnati dall’Istituto di credito agli emittenti, la Corte rileva che questi non potevano evidentemente determinare un assottigliamento del debito (come se il titolo di credito fosse stato estinto), non essendo comunque stati riscossi (circostanza altrettanto pacifica). Le statuizioni del giudice sul punto vanno pertanto confermate.

Sul secondo motivo di appello. Il Giudice di primo grado avrebbe dovuto, a dire di parte appellante, stigmatizzare la condotta della banca non improntata a correttezza e buona fede, e condannare la medesima al risarcimento dei danni subiti.

La censura non coglie nel segno.

Gli appellanti hanno sostenuto l’illegittimità della revoca delle aperture di credito a tempo indeterminato e del recesso dai contratti di conto corrente, in quanto avvenute con effetto immediato e senza la concessione di un termine. In realtà la Banca ha dimostrato di avere inviato, in data 12.01.2006, una lettera alla correntista (si veda doc.10 di cui al fascicolo del giudizio di opposizione a d.i. (R.G. 2892/06), poi riunito al R.G. 206/06) con la quale assegnava alla medesima il termine di 7 giorni, decorrenti dal ricevimento della stessa, per procedere al pagamento del dovuto. L’esercizio della facoltà di recesso, dunque – espressamente disciplinato contrattualmente dalle parti, sia nei contratti originari che in quelli rinegoziati nel 2005 – è avvenuto da parte della banca legittimamente, con la concessione alla controparte di un termine congruo per l’adempimento, ed è apparso comunque sorretto da una motivazione, che – alla luce dell’istruttoria espletata – non è apparsa né, imprevista, né, arbitraria. Le prove testimoniali, infatti, hanno chiaramente evidenziato l’esposizione debitoria che si stava accumulando all’epoca in capo alla società appellante, un esposizione superiore all’affidato sui conti intestati alla società attrice (teste *** “YYY in più occasioni venne in filiale per concordare le modalità con le quali ripianare il debito concernente l’utilizzazione di affidamenti relativi a più rapporti di conto corrente che regolavano operazioni di anticipazioni su fatture..” ed ancora “alcune fatture non venivano pagate con bonifico bancario come stabilito e neanche con altri mezzi di pagamento”; teste ***, direttore di filiale all’epoca dei fatti:

“sussistevano affidamenti di € 200.000,00 costantemente superati e c/c anticipi su fatture completamente utilizzato per una fattura anticipata di un cliente di S. Maria Capua Vetere (Coop. ***) per un importo di circa € 130.000,00/140.000,00 scaduta da oltre un anno”). Le testimonianze citate hanno chiaramente evidenziato dunque come le cause della revoca e del recesso, con la conseguente segnalazione della società alla Centrale Rischi, fossero pienamente in linea con lo stato di sofferenza riscontrato in capo alla correntista (ed ai concedenti le garanzie a copertura degli scoperti). Lo stesso YYY nel corso dell’interrogatorio formale ha dichiarato di alcune telefonate provenienti dalla Banca con invito da parte della stessa a sistemare le eccedenze delle linee di credito. Ma soprattutto ha riferito che “nel corso degli incontri avuti con il responsabile della *** per definire il rientro dell’esposizione, gli stessi dirigenti mi facevano presente che a causa del mancato rinnovo delle garanzie, non essendo le stesse più valide, avrebbero proceduto alla revoca di tutte le linee di credito” (si veda udienza 25.09.2008).

Appare evidente dunque che la segnalazione della società appellante alla Centrale Rischi non può essere ritenuta né, illegittima, né, ingiustificata, stante la evidente sintomatologia del dissesto in cui la XXX si trovava, ed il venir meno quindi di quel “merito creditizio” in forza del quale la Banca aveva concesso il credito. Sul punto si richiamano i contenuti di una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 31921/2019) dalla quale è scaturito il seguente principio di diritto:

“Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di segnalazione alla Centrale Rischi di un credito in sofferenza, la nozione di insolvenza non si identifica con quella propria fallimentare, ma si concretizza in una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come deficitaria, ovvero come di grave difficoltà economica, senza, quindi, alcun riferimento al concetto di incapienza o irrecuperabilità e senza che assuma rilievo la manifestazione di volontà di non adempiere, che sia giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del credito. (Sez. 3, n. 26361 del 16/12/2014); la segnalazione di una posizione “in sofferenza” presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia, secondo le istruzioni del predetto istituto e le direttive del CICR, richiede una valutazione, da parte dell’intermediario, riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente, e non può quindi scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (Sez. 1, n. 15609 del 09/07/2014).

D’altro canto sono emersi dall’istruttoria sia, la segnalazione da parte della Banca alla correntista, ed al fideiussore, delle conseguenze che la situazione di sofferenza patrimoniale della società, unita allo scadere delle garanzie prestate, avrebbe determinato in capo ai medesimi, sia, il tentativo della banca di intervenire comunque in favore della correntista con una soluzione transattiva offrendo a quest’ultima, che si impegnava in tal senso, quale termine ultimo di pagamento, il 31.12.2005 (seppure poi, alla scadenza concordata, la XXX non abbia effettuato alcun pagamento rendendo evidente la propria scarsa solvibilità).

A ciò si aggiunga che il presunto danno allegato da parte appellante come derivante alla medesima dalla predetta segnalazione alla Centrale Rischi, non è stato provato in giudizio. Né, parimenti, è stato provato il lamentato danno non patrimoniale in termini di lesione all’onore ed all’immagine (non potendo ritenersi dirimenti i generici richiami ad ansia, stress, mortificazioni psichiche, ridotta serenità del nucleo familiare). Sul punto si richiama il principio espresso dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 20885/2019 secondo cui il danno all’immagine ed alla reputazione per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi costituisce pur sempre “danno conseguenza”, alla luce della più ampia ricostruzione operata dalle fondamentali pronunce delle Sezioni Unite dell’11/11/2008 n.26972-26975, e pertanto non può ritenersi sussistente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento.

Quanto ai danni lamentati, in termini di frode processuale, per la richiesta di decreto ingiuntivo nonostante la pendenza di un giudizio, e per un pignoramento presso terzi azionato in corso di causa con riguardo a somme non dovute, la Corte rileva l’infondatezza della pretesa, stante la accertata – ribadita in questa sede – legittima richiesta di somme da parte della Banca, seppure riconosciuta poi come fondata nel corso del giudizio ordinario per un importo ridotto.

Inammissibile appare alla Corte la richiesta di risarcimento danni per non aver potuto disporre la ditta XXX, per quanto sopra detto, di maggiori risorse finanziarie da profondere nell’esercizio dell’attività imprenditoriale. I danni che la XXX s.r.l. lamentava in primo grado si riferivano ad operazioni effettuate in favore di terzi, nonchè alla restituzione di somme e/o titoli a terzi senza alcuna autorizzazione da parte della banca. Tali operazioni non avevano consentito alla società correntista – a dire della medesima – di disporre di maggiori risorse finanziarie da profondere nell’esercizio della propria attività imprenditoriale. Con l’atto di appello, invece, parte appellante richiama i danni, di cui chiede il risarcimento, subiti per essersi vista ridurre la disponibilità di risorse finanziarie a causa dell’intervenuta, illegittima, procedura esecutiva per somme non dovute. La predetta domanda nuova (peraltro nenche accompagnata dalla prova del danno-conseguenza asseritamente subito) deve ritenersi pertanto, prima che infondata, inammissibile ex art. 345 c.p.c..

Le spese relative al presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, tenuto conto dell’assenza dell’attività istruttoria.

Ai sensi dell’art. 1 comma 17 della l. 228/2012, che ha modificato l’art. 13 del d.p.r n. 115/2002 con l‘inserimento del comma 1 quater (in base al quale, se l’impugnazione principale o incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma del comma 1 bis) è altresì dovuto da parte appellante il versamento di tale ulteriore somma.

P.Q.M.

la Corte, definitivamente pronunciando:

1) rigetta l’appello;

2) condanna la XXX s.r.l. in persona del l.r. YYY, nonché

YYY in proprio, a pagare alla Banca ZZZ s.p.a. in persona dell’Avv., le spese relative al secondo grado di giudizio che si liquidano in € 9.515,00, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA;

3) dichiara che l’appellante è tenuto al versamento di un ulteriore importo pari a quello già dovuto a titolo di contributo unificato.

Così deciso in L’Aquila, 25.02.2020

Il Cons.Est. Il Presidente

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