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Codice Civile
Codice Penale

Domanda di pubblicazione della sentenza

Domanda di pubblicazione della sentenza, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet da lui designati.

Pubblicato il 20 September 2020 in Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di LIVORNO
Sezione Lavoro

Il Tribunale, nella persona del Giudice, dott.ssa, ha pronunciato all’esito della camera di consiglio dell’udienza odierna, alle ore 18:35, mediante lettura del dispositivo con motivazione riservata assenti i procuratori, ex art. 429 c.p.c. la seguente

SENTENZA n. 247/2020 pubblicata il 11/09/2020

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. /2015 promossa da:

XXX (C.F.), con il patrocinio dell’avv. e dell’avv. , elettivamente domiciliato in presso il difensore avv.

PARTE RICORRENTE

contro

YYY S.P.A. (C.F.), con il patrocinio dell’avv.

YYY S.A. (C.F.), con il patrocinio dell’avv.

PARTE CONVENUTA

P.Q.M.

Il Giudice di primo grado, definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria eccezione, deduzione e conclusione:

– in parziale accoglimento del ricorso dichiara tenute e pertanto condanna in solido le convenute YYY S.A. e YYY s.p.a. a corrispondere al ricorrente l’importo pari ad euro 13.450,00 previa detrazione dell’importo pari ad euro 8.311,59 corrisposta da INAIL, ed oltre interessi come specificato in parte motiva, rigettando le ulteriori domande spiegate nei confronti delle convenute;

– dichiara compensate in misura del 50% le spese di lite tra il ricorrente e le convenute; condanna in solido le convenute YYY S.A. e YYY s.p.a. a rifondere al ricorrente il 50% residuo delle spese di lite che liquida, per tale frazione, in complessivi euro 4.400,00, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, con distrazione in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari ed oltre euro 1.000,00 oltre IVA come per legge per rimborso spese CTP;

– pone definitivamente a carico solidale delle convenute le spese di CTU liquidate con separato decreto;

– fissa in giorni sessanta il termine per il deposito della sentenza.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 25.8.2015 XXX adiva il Giudice del lavoro affinché le convenute YYY s.p.a. e YYY S.A. fossero condannate in solido al risarcimento, in suo favore, “di tutti i danni, patrimoniali (per danno emergente e lucro cessante) e non patrimoniali (per minori chance di una vita più longeva e/o lesione del diritto alla vita e per lesioni biologiche, psicobiologiche e pregiudizi morali ed esistenziali), patiti e patiendi, anche per i successivi aggravamenti, nella misura che sarà accertata in corso di causa (..) al netto della rendita INAIL e quindi di tutti i danni differenziali e complementari, ulteriormente sofferti dal ricorrente, prima di tutto a titolo di responsabilità contrattuale e poi, in subordine, a titolo di responsabilità extracontrattuale (..)”; instava, altresì, perché fosse disposto, con ordinanza, il pagamento di una somma a titolo provvisorio ai sensi dell’art. 423 c.p.c., condannando le convenute al pagamento in solido. Chiedeva, infine, la condanna delle convenute, in solido, alla pubblicazione della sentenza, per esteso, ex art. 120 c.p.c. in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet, con vittoria delle spese di lite da distrarre in favore del procuratore antistatario. Allegava il ricorrente di avere iniziato a lavorare presso il sito YYY di *** già dal 1968 come dipendente di ditte esterne e di esser poi stato assunto alle dipendenze di S.A. YYY in data 1.9.1976, per passare, in data 1.5.1999, alle dipendenze di S.p.a. YYY, sino al 31.12.2009, data del suo pensionamento. Chiariva il XXX di aver svolto mansioni quale operaio e saldatore presso il reparto calderai dal 1976 al 1980, di operaio presso il reparto vigilanza/antincendio dal 1981 al 1990 e, infine, di capo squadra antincendio dal 1991 al 2009. Chiarava il XXX come, nello svolgimento delle proprie mansioni, lo stesso avesse utilizzato amianto e altri agenti patogeni e cancerogeni per il polmone, sia come materia prima, sia quale elemento presente nella struttura, nella componentistica dei macchinari, allegando altresì di aver preparato i vari segmenti, predisponendo il collegamento mediante filettatura, saldatura e rasatura, rimuovendo le vecchie guarnizioni, fabbricando ed installando le nuove e come dette guarnizioni fossero in amianto (v. pagg. 12 e 13 ricorso). Esponeva, poi, il ricorrente di aver lavorato gomito a gomito con i coibentatori di ditte esterne in occasione degli interventi più importanti, dovendo intervenire nei diversi siti ed impianti in caso di manutenzione e di aver utilizzato DPI in amianto, quali guanti e grembiuli. Chiariva, ancora, il XXX che le società convenute mai avevano informato le maestranze in relazione ai rischi conseguenti l’esposizione ad amianto, né rispetto alle cautele da adottare. Lamentava, dunque, il ricorrente l’insorgere di sintomi di difficoltà respiratoria, a fronte dei quali il medico curante prescriveva controlli e di come, nel 2007, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria *** certificava che il ricorrente era affetto da “(..) ispessimento pleurico ai campi medi ed inferiori (..)” (v. doc. 2c allegato al ricorso). Esponeva il XXX come, da quel momento, lo stesso si sottoponeva a diversi controlli sanitari. Assumeva, quindi, parte ricorrente la riferibilità causale della patologia (pleuropatia) all’esposizione continuativa ad amianto, cui XXX assumeva essere stato sottoposto nel corso del rapporto lavorativo, in ragione ed a causa, come detto, delle mansioni svolte e della nocività dell’ambiente, senza, che il datore di lavoro fornisse informazioni circa la pericolosità della sostanza, né dotasse il lavoratore di mezzi di protezione. Infine, allegava il XXX di aver inoltrato domanda amministrativa all’INAIL ottenendo riconoscimenti dall’Ente a far data dal 21.8.2008 per “minimi ispessimenti pleurici basali” (v. doc. 3° allegato al ricorso con grado invalidante pari al 2% e complessivo pari all’8%), ed in data 18.6.2014 per “estesa pleuropatia bilaterale” (v. doc. 3b allegato al ricorso in misura del 5% e grado invalidante complessivo dell’11%). Esponeva, poi il ricorrente come L’INAIL gli aveva rilasciato il certificato di esposizione ex art. 13, co. 7, L. 257/92 per i periodi dal 1976 al 1980 (v. doc. 3c allegato al ricorso).

Si costituivano le società convenute contestando integralmente la ricostruzione di cui al ricorso, nonché formulando una serie di eccezioni. Anzitutto il difetto di legittimazione passiva delle convenute rispetto ai diritti risarcitori riferiti al periodo antecedente al 1976 in forza di responsabilità contrattuale, atteso che il XXX all’epoca non era ancora dipendente di YYY S.A., né di YYY s.p.a. Instavano, poi, per l’inammissibilità delle domande di risarcimento del danno, avendo il ricorrente ottenuto un risarcimento INAIL e mancando i presupposti per la liquidazione di un danno differenziale. Le società convenute, dunque, contestavano integralmente le argomentazioni di cui al ricorso del quale, pertanto, chiedevano il rigetto.

Fallito il tentativo di conciliazione la causa era istruita per testi, interpello e CTU medico-legale ed era infine decisa, previa discussione, anche mediante deposito di note autorizzate, con sentenza con motivazione riservata.

Il ricorso deve trovare parziale accoglimento per quanto di ragione.

Deve osservarsi, in via preliminare e generale, tenuto conto della eccepita inammissibilità delle domande di risarcimento per aver il lavoratore già ricevuto un risarcimento dall’INAIL (v. pag. 5 memoria) come, secondo l’impianto originario del D.P.R. 1124/65 la costituzione della rendita INAIL presupponeva una menomazione comportante una riduzione della “attitudine al lavoro” del lavoratore, l’art. 74, D.P.R. 1124/65, disponendo, infatti, che “agli effetti del presente titolo deve ritenersi inabilità permanente assoluta la conseguenza di un infortunio o di una malattia professionale la quale tolga completamente e per tutta la vita la attitudine al lavoro”.

Tale nozione, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (assunta quale diritto vivente nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 350/1997), coincideva sostanzialmente con la “capacità lavorativa generica”, così l’INAIL indennizzando un danno di natura patrimoniale, per quanto l’indennizzo fosse dovuto a prescindere dall’accertamento di una reale perdita di guadagno dovuta all’impossibilità di svolgere attività lavorative specifiche, l’assicurazione obbligatoria INAIL non assolvendo ad una funzione propriamente risarcitoria, ma indennitaria e rispondente a principi di socializzazione dei danni derivanti da eventi lavorativi.

Al momento della emanazione del T.U. 1124/1965 vi era peraltro una sostanziale, ancorché non perfetta, sovrapposizione tra il danno indennizzato dall’INAIL ed il danno quantificabile secondo criteri civilistici, per essere anche il danno alla salute all’epoca apprezzato nella sua dimensione esclusivamente patrimoniale.

In tal modo, a fronte di un evento lesivo professionale, il lavoratore era indennizzato dall’INAIL, indipendentemente dalla responsabilità del datore di lavoro e riceveva normalmente un indennizzo non minore del risarcimento che avrebbe ottenuto ove egli avesse agito civilmente contro il datore di lavoro responsabile, per essere all’epoca anche in sede civile il danno risarcibile di natura appunto patrimoniale.

In tale contesto, dunque, ben funzionava l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile previsto dall’art. 10, D.P.R. 1124/1965.

L’articolazione del sistema, tuttavia, era destinata a mutare, come noto, con la comparsa, nella giurisprudenza ordinaria ed in quella del Giudice delle leggi, della figura del danno biologico. Invero, qualificato tale danno come lesione del bene salute in sé considerato, senza alcuna connotazione patrimoniale, di esso la Corte Costituzionale affermava l’estraneità all’area dell’indennizzo ex lege 1124/1965, così le conseguenze risarcitorie di detta lesione essendo pretendibili dal lavoratore direttamente in confronto del datore di lavoro, responsabile del fatto dannoso ex art. 2087 c.c. e 2043 c.c., ed esclusa per l’equivalente pecuniario di dette lesioni l’azione di regresso dell’INAIL.

Orbene, in punto, la Corte Costituzionale con molteplici pronunce, da un lato svincolava l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che chieda il risarcimento del danno differenziale dagli esiti del procedimento penale, e dall’altro configurava diversamente, superandoli, i limiti dell’entità del risarcimento che l’infortunato può chiedere al datore di lavoro (cfr. sentenze nn. 22/1967; 102/1981, 118/1986; 87/1991; 485/1991).

Come noto, il Legislatore, con la previsione di cui all’art. 13, D.Lgs. 38/2000, ha esteso la copertura assicurativa dell’INAIL anche all’avvenuta lesione permanente dell’integrità psicofisica del lavoratore in sé considerata, oltre che al danno patrimoniale per la perdita della capacità lavorativa generica.

Orbene, anche alla luce del fatto che l’art. 13 richiamato qualifica come “indennizzo” l’emolumento a carico di INAIL lo stesso deve ritenersi distinto dal concetto di risarcimento, essendo il primo non destinato a coprire necessariamente tutte le voci di danno scaturite dall’evento ed il secondo, invece, commisurato all’esatta misura del danno.

Sul sistema così descritto il D.Lgs. 38/2000 è intervenuto, come detto, ad estendere l’area dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile (in confronto del lavoratore), comprendendovi anche il danno biologico.

La novella non ha tuttavia toccato il disposto dell’art. 10, co. 6, D.P.R. n. 1124/65 che prevede espressamente la configurabilità di un danno differenziale nell’ipotesi in cui le prestazioni erogate dall’INAIL non coprano l’intero danno risarcibile.

Ritiene questo Giudice (conformemente a quanto già ritenuto da questo Tribunale con la sentenza n. 324/2016, est. ) che, anche in tali casi, la copertura assicurativa INAIL non precluda il diritto del danneggiato al risarcimento del danno (biologico) differenziale.

Diversi sono gli argomenti che militano a favore di questa soluzione.

In primo luogo, come accennato, la natura certamente altra, id est indennitaria, del ristoro assicurato al lavoratore dall’INAIL, come tale irriducibile alla nozione di risarcimento del danno, sia sotto il profilo della corrispondenza del ristoro all’esatta misura della lesione, sia quanto al presupposto di un accertamento di responsabilità dell’agente la condotta dannosa.

È di tutta evidenza, allora, come l’estensione della copertura INAIL abbia la finalità di rafforzare la tutela dei lavoratori assicurati, attribuendo loro un ristoro minimo certo, e ponendo a carico della assicurazione sociale, entro limiti predeterminati, il rischio anche dell’infortunio dovuto a caso fortuito o a colpa esclusiva dello stesso lavoratore.

Nello stesso senso non può trascurarsi come per postumi inferiori al 6% (e dunque non indennizzati dall’INAIL) non si dubiti della facoltà del lavoratore danneggiato di agire nei confronti del datore di lavoro per ottenere il risarcimento pieno del danno; del tutto irragionevole sarebbe dunque riconoscere la piena risarcibilità dei danni di minore entità ed invece la risarcibilità soltanto parziale (ovvero nei limiti dell’indennizzo INAIL) per i danni alla salute di maggior incidenza.

Del resto, diversamente opinando, e quindi ritenendo non avere il lavoratore danneggiato diritto ad altro risarcimento del danno alla salute che l’indennizzo INAIL, anche ove esso sia inferiore al risarcimento determinato secondo gli ordinari criteri civilistici, al lavoratore danneggiato verrebbe riconosciuto un trattamento deteriore rispetto al danneggiato non lavoratore (al quale tale limitazione non sarebbe applicabile), conseguenza questa non soltanto irragionevole ex se – e quindi contraria al canone generale di cui all’art. 3 della Carta Fondamentale – ma incompatibile anche con il principio di tutela privilegiata del lavoro, pure affermato dagli artt. 1 e 35 Cost., ed in forza del quale (come per Corte Cost. n. 87/1991) “il rischio delle menomazioni dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prodottasi nello svolgimento e a causa delle sue mansioni, deve di per se stesso godere di una garanzia differenziata e più intensa, che consenta quella effettiva, tempestiva ed automatica riparazione del danno che la disciplina comune non è in grado di apprestare”.

Né all’accertamento in concreto della responsabilità del datore di lavoro nella sede civile, ai fini del risarcimento del danno differenziale, osta la circostanza che non sia stata emessa sentenza penale irrevocabile.

Costituisce infatti jus receptum (in esito alle decisioni della Corte Costituzionale nn. 102/1981 e 118/1986) l’affermazione secondo cui l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro soggetto all’assicurazione obbligatoria, previsto dall’art. 10, D.P.R. 1124/1965, non opera quando l’infortunio sia derivato da un fatto costituente reato perseguibile d’ufficio, il preventivo accertamento giudiziale del fatto stesso non dovendo tuttavia avvenire necessariamente in sede penale, ma potendo essere effettuato anche in sede civile: in tal caso, il giudice civile essendo tenuto a compiere un’autonoma indagine sulla configurabilità del fatto-reato, in relazione alle allegazioni del lavoratore ricorrente in ordine alla violazione di norme prevenzionali (così già Cass., Sez. Lav., n. 8201/1992; nello stesso senso, a titolo esemplificativo, cfr. ex plurimis Cass., Sez. Lav., n. 11986/2010, in materia di regresso INAIL).

Tanto posto deve altresì osservarsi, avuto riguardo alla eccezione alla luce della quale il ricorrente non descrive puntualmente proprie mansioni, come detta eccezione risulti infondata. Il ricorso introduttivo del giudizio specifica, infatti, in modo chiaro l’attività lavorativa prestata dal lavoratore e il periodo lavorativo dedotto in giudizio (come già detto, operaio e saldatore presso il reparto calderai dal 1976 al 1980, operaio presso il reparto vigilanza/antincendio dal 1981 al 1990 e, infine, capo squadra antincendio dal 1991 al 2009). Del pari, dal ricorso emerge la malattia che si assume derivata dall’esposizione lavorativa ad amianto (ispessimento pleurico ai campi medi ed inferiori/pleuropatia), nonché le ragioni di diritto per le quali parte ricorrente attribuisce alle società convenute il potere di organizzazione, direzione e sorveglianza del lavoro e l’obbligo di predisporre le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori. Ancora, dal ricorso si evincono i profili di colpa addebitati alle società convenute (adozione di modalità di coibentazione e scoibentazione inidonee ad evitarne la dispersione, mancata adozione di mascherine, omessa informazione dei lavoratori in ordine alla nocività delle polveri di amianto etc..), ed infine il tipo di responsabilità azionata (in tesi contrattuale, ex art. 2087 c.c., ed in via subordinata anche ex art. 2043 e 2050 c.c.). Tanto posto, deve allora concludersi che petitum e causa petendi risultano chiaramente indicati di talché la relativa eccezione risulta infondata.

Passando al merito risulta dato acquisito al giudizio che il ricorrente lavorò alle dipendenze della convenuta nel sito YYY di *** *** ininterrottamente sia come operaio e saldatore presso il reparto calderai che come operaio presso il reparto vigilanza/antincendio, nonché come capo squadra antincendio dal 1976 al 2009 (cfr. anche memoria di costituzione p. 9, nonché documentazione proveniente dal datore, v. doc. 1b allegato al ricorso).

Inoltre, a fronte di quanto si ricava dalla documentazione in atti versata, in punto di mansioni maggiore specificazione e precisazione è emersa dalle dichiarazioni dei testi escussi che hanno potuto riferire dettagliatamente tali circostanze.

In particolare possono leggersi, in primis, le dichiarazioni rese dal teste ***, sentito dal Giudice alla udienza del 30.3.2017, il quale, dopo aver chiarito di aver lavorato con il ricorrente presso il reparto calderai dal 1977 sino agli anni ottanta, esponeva “E’ capitato che durante la lavorazione noi facevamo una tubazione e occasionalmente, dopo la scoibentazione fatta dalla ditte esterne specializzate, o i bulloni non uscivano dalla sede o il tubo dalla posizione e non si riusciva a smontare e quindi si scoibentava occasionalmente, a secondo della situazione del lavoro, sia io che il XXX, perché il saldatore veniva con noi, noi si dava una mano a lui per portare la saldatrice e lui dava una mano a noi per smontare il tubo se c’era bisogno, quasi sempre si lavorava a coppia ADR si lavorava principalmente sugli impianti, la officina serviva solo per la costruzione dei pezzi che andavamo a montare sugli impianti, si trattava per lo più di tubazioni. Ad esempio si andava sull’impianto a prendere le misure, si costruiva il pezzo in officina e poi si ritornava sull’impianto, si toglieva il tubo vecchio lesionato e si metteva il nuovo, il lavoro era forse più su impianti che in officina e questo anche per i saldatori . anche in offcina poi per il trattamento termico si usavano i teli di amianto che avevamo in dotazione e questo sia tubisti che saldatori ADR non è che la ditta esterna scoibentava tutto il tubo però poteva rimanere un pezzo o a volte è capitato di dover inserire un bocchello I dispositivi erano in amianto, si adoperavano anche noi calderai per proteggerci dal calore o smontare un pezzo . ci si proteggeva coi guanti in amianto e questo anche i saldatori ADR i vigilanti andavano anche sugli impianti ; quando c’era pericolo di incendio noi si mettevano i teli di amianto e loro controllavano che le scintille non andassero fuori per pericolo di esplosione e incendio , gli addetti alla vigilanza assistevano alle lavorazioni sino a che non erano finito e questo accadeva non in tutti gli impianti ma dove c’era pericolo di esplosione ed incendio”.

Ancora, in punto di attività svolte dal ricorrente, il teste *** chiariva “anche XXX l’ho visto in questa mansione di antincendio sugli impianti, dopo anni ottanta, gli anni precisi non ricordo , l’ho visto tante volte anche in portineria”.

Le mansioni del ricorrente ed il periodo di svolgimento delle stesse erano poi confermati anche dal teste ***, saldatore tubista in officina, che dichiarava di aver lavorato assieme al XXX attorno al 1975 presso il reparto calderai per 6-7 anni, e che, sentito alla medesima udienza del 30.3.2017, chiariva “L’amianto veniva manipolato quando si sistemavano le guarnizioni e si doveva fare la riparazione e l’aggiustamento con la mola della lastra di amianto tagliata e poi aggiustata con la mola, che spolverava. Era un’attività che veniva fatta quando ce n’era bisogno, non tutti i giorni si stava a molare la lastra. Ho visto anche il XXX svolgere questa attività, ma era attività non quotidiana ma saltuaria Il centro guarnizioni faceva guarnizioni standar. C’erano le lastre in amianto preparate dalla ditta ***, venivano prese in officina e venivano fatte lì. La *** mandava le lastre standard da 2-3- 4 mm e poi se c’era una misura particolare da fare veniva tagliata lì per lì con una mola e questo veniva fatto più che altro da i tubisti ma anche dai calderai . Noi saldatori lavorando insieme mentre si aspettava si aiutavano tubisti e calderai a fare queste guarnizioni . Anche il XXX le faceva Il pezzo doveva essere poi montato sull’impianto, ci si andava o il tubista e il saldatore o il calderaio ed il saldatore. Ci si andava in tre per montare il tetse perché c’erano anche appendici di lamiera o scatolati per cui ci voleva anche il calderaio e talvolta l’addetto alle fughe di gas, il pompiere per i pericoli di incendio. Ci si aiutava poi insieme per pulire la zona dopo la scoibentazione che credo fosse pericolosissima perché rimaneva una peluria che doveva essere eliminata per dover procedere alla saldatura. La coibentazione una volta tolta veniva lasciata lì sul posto dove si saldava , in un cassone di legno le più volte aperto. Se poi c’era rischio di esplosione la zona era poi tappezzata di teli sia in terra che intorno per proteggere dalle scintille dalle correnti d’aria la zona dove avveniva la saldatura. ADR anche il XXX quando era addetto antincendio è venuto come i suoi colleghi sugli impianti , l’ho visto” e ancora “quando intervenivano le ditte esterne per scoibentare, se si trattava di un lavoro grosso magari non c’eravamo e loro preparavano prima il posto, altrimenti se erano tubi piccoli lo facevano lì per lì alla nostra presneza e se rimaneva qualche altro pezzetto da scoibentare per allungare la tubazione allora si faceva da noi ADR questo lo facevano un po’ tutti i saldatori anche il XXX, insieme al tubista ADR so che erano tubi ricoperti in amianto solo perché ne abbiamo parlato coi dipendenti della ditta *** e *** che ci spiegava che era amianto impastato a cemento”.

Le modalità operative e le mansioni del XXX trovavano poi ulteriore conferma nelle conformi dichiarazioni rese dal teste ***, tubista che aveva lavorato in YYY assieme al ricorrente dal 1978 presso il reparto calderai, spesso anche in squadra con lo stesso (cfr. risposta a capp. 2428 ricorso) il quale chiariva “Quando si andava sugli impianti ove c’era vapore si usavano le guarnizioni di amianto tenace, c’era proprio scritto sopra che serviva per le flange, quando si doveva poi scoibentare le tubazioni c’era amiantite con cemento e questo ce lo diceva chi ci portava sugli impianti, cioè i conduttori ADR quando i lavori di scoibentazione erano grossi chiamavano la ditta. Capitava però che servisse poi ulteriore lunghezza e non si stava a richiamare la ditta ma si procedeva noi operai col martello e scalpello . il nostro lavoro consisteva nel tagliare il tubo, rimetterlo a posto e poi il saldatore lo riccolocava ADR la piccola scoibentazione lo faceva il tubista ma il saldatore stava lì e ci aiutava, eravamo dello stesso reparto, se io ad es. mettevo a posto le bombole il saldatore tagliava il tubo, ci dava una mano a scoibentare a seconda del lavoro Anche quando interveniva la ditta esterna la roba scoibentata rimaneva sul ponteggio ove si lavorava noi e si calpestava ADRcapitava anche di adattare le guarnizioni che erano da 2 a 4 pollici ad es., si prendeva il martello e scalpello e si levava un po’ di roba dalla guarnizione di amiantite, l’adattamento era fatto da noi tubisti direttamente sull’impianto all’occorrenza. A seconda del lavoro da fare il saldatore era lì presente mentre si faceva l’adattamento della guarnizioni ADR le guarnizioni si prendevano al reparto guarnizioni e c’era scritto sopra amianto tenace o amiantite ADR Si aveva il telo di amianto in dotazione per gli impianti a rischio esplosione, dovevano essere stesi sui grigliati e ciò sia per il cloro metano, il PE, l’acqua ossigenata ed il saldatore veniva sempre dietro, eravamo una squadra ADR ho lavorato col XXX in squadra una settimana capitava una volta, la settimana successiva anche cinque volte Si costruiva in officina la tubazione e poi si andava sull’impianto a sostituirla, l’impianto si fermava, poteva essere lavoro di un giorno o più , il saldatore quindi poteva stare con noi anche 5 gg ADR dopo che XXX è andato via dal reparto l’ho rivisto anche sugli impianti come addetto antincendio, perché quando sugli impianti a rischio (PE, acqua ossigenata) bisognava tutte le volte la fare prova di esplosività e gli addetti antincendio stavano lì per ttutto il lavoro a controllare che non fuoriscissero liquidi, diverse volte l’ho visto il XXX sugli impianti con la polpettina al collo, loro arrivavano sugli impianti prima di noi ADR come addetto antincendio ricordo il XXX venire sugli impianti anche quando lavorava al Pontile, anni precisi non li posso ricordare”.

In senso conforme riferiva, poi, il teste ***, sentito alla udienza dell’8.11.2017, il quale confermava “Preciso che io ero calderaio mentre il XXX era saldatore nel reparto calderai. L’amianto friabile e compatto si trovava in tutte le tubazioni che conducono liquidi in temperatura e riguardano processi chimici in temperatura. Sugli impianti si veniva chiamati o il tubista col saldatore o calderaio e saldatore, si faceva cioè la squadra , il calderaio era un po’ come il sarto cioè preparava un indumento che poi doveva essere cucito e il saldatore montava e saldava il pezzo anche sull’impianto ed anche nel reparto, certi lavori, se il pezzo era piccolo, venivano fatti in reparto ma la maggioranza fuori sugli impianti e addirittura fuori dallo stabilimento. Nel reparto officina avevamo teli in amianto per la protezione . ADR non vi erano tubazioni che passavano in officina, salvo che non foissero quelle poratte dentro per la lavorazione”, per poi chiarire “Le ricotture venivano fatte all’interno del reparto calderai , il XXX non era chiamato direttamente a fare scoibentazioni, in linea di massima interveniva a scoibentazione fatta ma se c’era da fare una piccola scoibentazione interveniva , dava due botte con la martellina, e questo faceva anche il XXX come saldatore quando doveva intervenire”.

Ancora, rilevanti appaiono le dichiarazioni rese dal teste ***, che aveva lavorato assieme al XXX dal 1978 presso il reparto calderai e, in seguito, per circa due anni quale assistente dei pompieri, il quale, sentito alla udienza dell’8.11.2017, confermava, tra l’altro, l’utilizzo da parte del ricorrente di teli e guanti in amianto (cfr. risposta al cap. 24 ricorso).

Anche il teste ***, sentito alla udienza del 28.2.2018, chiariva che la squadra antincendio, ed anche il ricorrente come caposquadra, interveniva nei vari reparti dello stabilimento “(..) con una media di 2 volte a settimana”.

Infine, il teste ***, sentito alla medesima udienza dell’8.11.2017, il quale aveva lavorato al reparto calderai con il ricorrente dal 1976 al 1980, affermava “Le guarnizioni le toglievo io e le potevo rimettere nuove. Il XXX quando veniva a lavorare con me, che ero tubista, la guranizione la mettevo io; la tubazione o era già scoibentata o la dovevo scoibentare io, ma poteva capitare che anche il XXX lo facesse se mentre saldava c’era un pezzo di coibentazione che dava fastidio , la guarnizione la mettevo io accoppiando le flange, poi il XXX la saldava questa tubazione, l’amianto era imparentato col tubo e quando si usa mola o pinza, o col cannello a taglio che usava il XXX, l’amianto diventava pulviscolo Cap. 25: quando si dovevano far riscaldamenti forti, oltre mille gradi, si usavano guanti lunghi in amianto, poi i teli di amianto quando si andava sugli impianti per evitare che le scintille facessero scattare l’incendio , il XXX magari stava su a saldare e sotto c’era il telo, a volte mi aiutava anche il XXX a stendere questo telo che era anche pesante Cap. 27, 28 : “L’amianto c’era sulle tubazioni. Era usato anche come copertura dei capannoni”. ADR: “ so che era amianto perché lo dicevano tutti e si vedeva che era una copertura ad onduline io non ho fatto l’analisi”. Anzi non si sapeva che amianto era cancerogeno altrimenti ci saremmo ribellati a fare quel lavoro lì.”.

In senso contrario alle suddette dichiarazioni non sembrano valorizzabili le deposizioni dei testi intimati dalla convenuta, per i motivi che si vanno ad esporre.

Quanto alla dichiarazione resa dal teste ***, sentito alla udienza del 30.3.2017, deve osservarsi come lo stesso rispondeva con riferimento non specifico alla posizione del XXX, e comunque affermando di non ricordare se avesse mai visto il ricorrente lavorare. Il teste ***, poi, affermava “(..) C’erano le coperte di amianto usate dai saldatori nelle officine meccaniche ed erano obbligatorie, c’erano tute e guanti di amianto per il personale antincendio, che mi ricordi erano solo per gli addetti alla mansione antincendio ma non ci giurerei”. Adr non ricordo da quando è iniziata la dimissione dei DPI in amianto” (cfr. risposta cap. 27 memoria).

In punto, poi, il teste ***, il quale dichiarava di non aver mai lavorato con il XXX, rispondendo al cap. 29 di cui alla memoria (relativo al fatto che non vi fosse compresenza dei dipendenti YYY con gli operai di ditte esterne al momento della coibentazione/scoibentazione), affermava “Normalmente sì. Era la regola poi se si faceva diversamente nessuno stava lì a controllare. La regola è che dovesse essere fatta lascoibentazione dalla ditta esterna E poi interveniva l’operaio di YYY e poi tornava l’operaio della ditta esterna. Questa era la regola e per quel che ho visto io era una regola rispettata, ma ci sta tutto”. Adr fino a che l’amianto non era considerato così dannoso può essere che qualcuno allungasse da sé la scoibentazione”.

Deve poi dirsi come il teste ***, il quale aveva dichiarato di aver lavorato con il ricorrente alla vigilanza dal 1975-76, dato che risulta smentito anche da documentazione proveniente da YYY (v. ancora doc. 1b allegato al ricorso), affermava di aver lavorato con il XXX alla vigilanza ma di non saper riferire di altre mansioni.

Il teste ***, poi, sentito alla udienza dell’8.11.2017, dichiarava “Conosco il XXX solo di vista, non vi ho mai lavorato insieme”.

Infine, del medesimo tenore le dichiarazioni del teste *** il quale, sentito alla medesima udienza dell’8.11.2017, rispondeva essenzialmente facendo riferimento al mansionario più che a un’esperienza diretta circa l’attività lavorativa concretamente svolta dal ricorrente.

In sede di interpello poi *** riferiva “tubista e calderai sostanzialmente erano fabbri di alto livello, lavoravano metalli e certamente non manipolavano cemento amianto, se poi arrivassero a preparare la filettatura non lo so . si tratta comunque di tubi che vengono accoppiati e poi c’è una flangia, vengono chiusi coi c.d. collari Quanto alla rimozione dell’isolamento e ricoibenitazione ho già risposto sopra Aggiungo comunque che XXX non era tubista ma ha svolto per 4 anni circa la mansione di saldatore Posso escludere che abbiano lavorato sui tubi di cemento amianto che non venivano proprio lavorati in azienda, ma non so idre circa l’uso di coperte in amianto” (cfr. risposta cap. 33 ricorso).

Dalla istruttoria orale sfogata è altresì emersa la presenza dei dipendenti YYY quando gli operai di ditte esterne svolgevano operazioni di coibentazione e scoibentazione.

In punto possono richiamarsi, ad esempio, le dichiarazioni rese dal teste ***, dal teste *** e dal teste *** già richiamate Supra (v. risposte capp. 24-28 teste *** e *** e risposte ai capp. 33 e 34 teste ***), nonché le risposte del teste *** intimato dalle convenute (v., in particolare, risposta al cap. 29 memoria).

Quanto alla presenza dell’amianto negli impianti pilota, nelle retine dei Bunsen e nei dispositivi di protezione individuale il teste ***, sentito alla udienza dell’8.11.2017, dichiarava “è vero, confermo. Preciso anche i guanti in amianto si usavano, così come anche il ricorrente, quando c’erano delle temperature da cui proteggersi. Le retine di bunsen e il rivestimento dei forni erano materiali con cui entrava a contatto anche il XXX, come anche io (..) I saldatori, più che noi, avevano guanti in amianto a manica intera che si allacciavano al gilet, quando c’era da fare la riscaldatura dei vassoi di rame ad altissima temperatura ci volevano protezioni da sopportare questo lavoro . Posso riferire sino al 1992 Adr la vigilanza penso non avesse questo tipo di protezione mentre i Vigili del Fuoco avevano indumenti in amianto” (cfr. risposta cap. 30 ricorso).

Del pari, il teste ***, chiariva “I dispositivi erano in amianto, si adoperavano anche noi calderai per proteggerci dal calore o smontare un pezzo . ci si proteggeva coi guanti in amianto e questo anche i saldatori ADR i vigilanti andavano anche sugli impianti ; quando c’era pericolo di incendio noi si mettevano i teli di amianto e loro controllavano che le scintille non andassero fuori per pericolo di esplosione e incendio , gli addetti alla vigilanza assistevano alle lavorazioni sino a che non erano finito e questo accadeva non in tutti gli impianti ma dove c’era pericolo di esplosione ed incendio” e ancora “l’amianto era presente o come coibento o sottoforma di guarnizioni e poi avevamo i teli di amianto, specie se si andava ad operare in zone dove vi era pericolo di incendio, erano teli in dotazione al magazzino . noi se ne prendeva l’occorrente a rotoli e noi poi si tagliava, se lo portavano i manutentori lo tagliavano loro, sennò noi. Quando si lavorava coi saldatori le mansioni erano le solite , mi spiego il saldatore usava il telo d’amianto per la saldatura , però siccome lo stabilimento è lungo 3-4 km se andavamo a lavorare presso reparto UE erano magari i manutentori a preparare i teli di amianto ADR questi teli di amianto sono stati usati almeno sino al 1992 circa mentre le guarnizioni di amianto sono state usate anche dopo, alcuni tubi anche ora sono coibentati e ciò riferisco per tutto lo stabilimento anche dopo il 2002-3, hanno avuto deroghe”.

In senso conforme, poi, riferivano i testi *** e ***.

Ancora, in relazione ai dispositivi individuali, il teste *** riferiva “l’unica maschera in dotazione era quella epr cloro e ammoniaca ADR non c’erano aspiratori tranne quello per i fumi per i saldatori” (cfr. risposta cap. 35 ricorso). Sui dispositivi individuali, poi, il teste ***, chiariva “si avevano più che altro maschera con filtro per cloro e ammoniaca , mentre per le polveri quando andavamo su impianti avevamo solo mascherina di carta . voglio aggiungere che i guanti di amianto si usavano anche quando si dovevano riscaldare le tubazioni ripiene di rena e dovevano diventare rosse e questo lavoro si faceva insieme ai saldatori” (cfr. risposta al cap. 35 ricorso).

Anche il teste ***, intimato dalle convenute, in punto, affermava “C’erano le coperte di amianto usate dai saldatori nelle officine meccaniche ed erano obbligatorie, c’erano tute e guanti di amianto per il personale antincendio, che mi ricordi erano solo per gli addetti alla mansione antincendio ma non ci giurerei” (cfr. risposta cap. 27 memoria).

In definitiva, in relazione alle risultanze che emergono dall’istruttoria orale sfogata non può mancare di osservarsi come i testi intimati dalle società convenute, in gran parte, non rispondano per conoscenza diretta dei fatti (cfr. Supra quanto richiamato in relazione alle dichiarazioni rese dai testi ***) facendo, prevalentemente, riferimento al mansionario (sebbene sia poi emerso dall’esame complessivo delle testimonianze che la distinzione tra i vari profili professionali non fosse così netta); diversamente, il teste ***, intimato dalle convenute e il quale aveva lavorato alla manutenzione, non poteva escludere la compresenza di operai YYY e di ditte esterne al momento delle operazioni di coibentazione e scoibentazione (cfr. risposta al cap. 29).

Deve altresì osservarsi, poi, come dall’esame delle testimonianze rese dai testi indotti dalle convenute, invero, risulta confermata la presenza di amianto.

Diversamente le testimonianze rese dai lavoratori intimati dal ricorrente, perlopiù colleghi dello stesso aventi dunque un’esperienza diretta in relazione ai fatti oggetto di causa appaiono concordi e dense di riferimenti particolareggiati e precisi, potendosi, dette deposizioni apprezzarsi, oltre che per puntualità e linearità, anche per la costanza di frequentazione dei reparti presso i quali ha lavorato il ricorrente.

Da queste è emersa, in maniera assolutamente concorde, la mancanza di percezione del problema che l’amianto rappresentava.

Quanto alla presenza di amianto nel sito YYY di *** ***, negli anni in cui il lavoratore ricorrente vi ha prestato la sua attività, ed alle modalità di “contatto” con l’amianto, le allegazioni contenute al riguardo in ricorso trovano pieno riscontro nella relazione della ***, inviata al CTU in data 24.11.2018 (in atti, allegata alla relazione del CTU), che da un lato dà conto della presenza di amianto nel sito YYY di *** *** come coibente, attesa la necessità di isolare e proteggere le attrezzature, dall’altro riferisce che per alcune mansioni (tra le quali i tubisti) venivano utilizzati dispositivi di protezione personale contenenti amianto quali guanti, grembiuli e ghette, oltre a teli in amianto, quali dispositivi di protezione impianti.

Peraltro, da detta informativa emerge come, i dipendenti YYY, anche dopo la fine degli anni ’60, abbiano continuato a effettuare direttamente i piccoli interventi di rimozione del coibente propedeutici alla manutenzione, provvedendo altresì al successivo ripristino, avvalendosi, per il compimento di dette operazioni, di attrezzature manuali, quali martelli, forbici e raschietti.

Ancora, dalla informativa emerge come il reparto maggiormente interessato dalle malattie correlabili all’esposizione ad amianto contratte dai lavoratori della YYY sia stato proprio il reparto “officina calderai”, presso il quale XXX, come detto, prestò la propria attività lavorativa dal 1976 al 1980, emergendo altresì un dato numerico di malattie asbesto correlate indubbiamente superiore a quello della media della popolazione generale, elemento indiziario senz’altro valutabile dal Giudice.

Peraltro, la presenza di amianto, come detto, risulta circostanza ammessa dalle stesse convenute, non solo in memoria e attraverso le testimonianze escusse, ma anche per come emerge dal fatto allegato dalle convenute che le stesse società affidassero appalti a ditte esterne per lo svolgimento di operazioni di coibentazione/scoibentazione.

Deve altresì osservarsi come le dichiarazioni rese dai testi intimati dal ricorrente trovino ulteriore riscontro anche nella relazione *** del 1996 versata in atti da parte delle convenute (doc. 45 allegato alla memoria).

Detta relazione, redatta sulla base di un sopralluogo effettuato in data 22.10.1996 presso lo stabilimento di *** YYY, in gran parte, invero, fondata su dichiarazioni unilaterali rilasciate dallo stesso datore di lavoro, rappresenta come sino a fine del 1996 risultasse nello stabilimento la presenza di amianto, utilizzato come coibente, dalla lettura della relazione emergendo come, compiuto il sopralluogo, fosse accertato che “l’amianto è ancora presente in taluni settori come coibente di condotte di fluidi caldi, caldaie protezione di strumentazioni; in maniera più evidente costituisce inoltre numerose coperture in “eternit”” (v. pag. 2 relazione ***).

Ancora, dalla relazione si evince come, nel novembre 1996, la società non possedesse una mappatura delle condotte coibentate in amianto (v., ancora, p. 2 relazione ***) e come la società avesse proceduto solo in tempi recenti a compiere verifiche a campione sulla aerodispersione di fibre di amianto ottenendo, nella maggioranza dei casi, valori inferiori a 0.1 ff/cm3, dovendosi evidenziare come la relazione dia atto di esposizione ambientale all’amianto dei lavoratori “in tutti i reparti nei quali era presente sotto forma di coibentazioni e coperture”, nonché di un’esposizione diretta per “utilizzo diretto di materiali contenenti asbesto, si è accertato che nell’officina di manutenzione meccanica e nei locali celle a diaframma del reparto elettrolisi venivano effettuate lavorazioni che prevedevano la manipolazione rispettivamente di guarnizioni e amianto in balle”.

Queste risultanze, desumibili da un documento prodotto dalle convenute e formato, come detto, in parte sulla base di quanto dichiarato dal datore di lavoro ai tecnici che hanno poi proceduto a redigere il parere, forniscono importanti riscontri alle dichiarazioni provenienti da tutti i testi di parte ricorrente, risultando, poi, concordi con il certificato INAIL di riconoscimento della pleuropatia del XXX come malattia contratta in ambito professionale.

Orbene, nel caso di specie, alla luce del quadro che complessivamente emerge dall’istruttoria orale e dalla documentazione in atti versata, ritiene il giudicante come, a fronte delle richieste di cui al ricorso – ove il ricorrente fa valere prima di tutto i profili di responsabilità contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c., e/o 2087 c.c.), e in secondo luogo i profili di responsabilità extracontrattuale (ex artt. 2043 e 2059 c.c. e/o 590 c.p. in combinato disposto con l’art. 185 c.p. 3 2043 c.c., e 2050 c.c. e 2051 c.c.)- la disposizione di riferimento sia rappresentata dall’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico, con contenuto atipico e residuale, estensibile anche a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal Legislatore, che impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità fisiopsichica dei dipendenti con l’adozione ed il mantenimento perfettamente funzionale, non solo di misure igienico sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla sua lesione nell’ambiente od in costanza di lavoro (cfr., sulla portata dell’art. 2087 c.c., Cass., Sez. Lav., n. 24742/2018; Cass., Sez. Lav., n. 13956/2012).

L’art. 2087 c.c., dunque, costituisce una disposizione con funzione dinamica, configurando una norma finalizzata a spingere il datore di lavoro ad attuare, nell’organizzazione del lavoro, un’efficace attività di prevenzione, attraverso la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata, configurando, dunque, fonte di obblighi positivi, stante la formulazione aperta della norma declinata attraverso i parametri della “particolarità del lavoro” – intesa come complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa-, della “esperienza” – intesa come conoscenza di rischi e pericoli acquisita nella specifica attività lavorativa – e della “tecnica” – intesa come progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela cui il datore di lavoro deve essere aggiornato – .

L’art. 2087 c.c. come norma di chiusura del sistema di prevenzione è dunque operante anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e diretto a sanzionare l’omessa predisposizione di tutte quelle cautele atte a preservare la salute del lavoratore, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare su fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr., in termini, ancora, Cass., Sez. Lav., n. 24742/2018).

Tuttavia, come noto, la responsabilità datoriale non è suscettibile di essere ampliata sino al punto di comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psicofisica dei dipendenti.

L’elemento costitutivo e fondante la responsabilità datoriale resta pur sempre la colpa e quindi la prevedibilità e la evitabilità, di talché non incombe sul datore di lavoro l’obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire un ambiente di lavoro a rischio zero, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di una attrezzatura non sia eliminabile e neppure l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (cfr. Cass., n. 4970/2017).

Quindi dal semplice verificarsi di un evento di danno non può desumersi l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze tecniche in relazione al lavoro svolto.

In altri termini, la violazione della disposizione, per come ricostruita, genera un inadempimento contrattuale nell’ambito del quale, come pure ritenuto dalla giurisprudenza, incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro.

In altre parole, il lavoratore per ottenere dal datore di lavoro il ristoro del danno patito deve compiutamente dimostrare: che l’ambiente di lavoro fosse nocivo, un inadempimento datoriale alla disciplina in materia di salute e sicurezza e che tale nocività sia in rapporto causale con la patologia. Orbene, nel caso di specie ritiene il giudicante come la responsabilità delle società convenute debba ricondursi all’art. 2087 c.c., detta responsabilità avendo dunque natura contrattuale.

Tale conclusione trova conferma nei più recenti approdi di dottrina e giurisprudenza, secondo cui la responsabilità deve essere qualificata come contrattuale (cioè come la responsabilità in cui incorre, ai sensi dell’art. 1218 c.c., “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta”), non soltanto quando l’obbligo di prestazione violato derivi da un contratto, nell’accezione di cui all’art. 1321 c.c., ma anche in ogni caso di inesatto adempimento di obblighi di comportamento, preesistenti alla condotta lesiva, quale che ne sia la fonte.

Dimostrata la “nocività” dell’attività lavorativa, per come emergente dall’istruttoria orale sopra ricostruita, nonché dalla documentazione in atti versata e già richiamata (Supra), ai fini dell’affermazione della responsabilità delle convenute, devono richiamarsi i principi di diritto, ormai del tutto consolidati in giurisprudenza, fondamentali in materia.

Deve anzitutto ricordarsi come “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81” (cfr. Cass., Sez. Lav., n. 18626/2013).

Orbene, al riguardo, sebbene parte convenuta risultasse onerata in tal senso la stessa non ha offerto idonea prova, essendo invece stata acquisita al giudizio prova contraria.

Le risultanze istruttorie sopra richiamate consentono di escludere la dotazione di maschere, fatte salve quelle volte a proteggere dal cloro o dall’ammoniaca, nonché di ritenere che i lavoratori non fossero edotti della pericolosità dell’amianto, né avessero ricevuto informazioni sull’adozione di norme comportamentali per ridurre il rischio di contatto con l’amianto (cfr. ancora dichiarazioni rese dai testi sopra richiamate).

D’altronde, come già rilevato, i testi intimati da parte convenuta in punto hanno riferito sulla base della documentazione aziendale ma non su fatti direttamente percepiti, ovvero sulle modalità operative delle lavorazioni avuto riguardo a specifici periodi temporali.

Ancora, deve poi ricordarsi l’insegnamento della Suprema Corte alla luce del quale “in materia di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all’amianto, l’obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all’art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall’inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l’esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell’esonero da responsabilità, l’affermazione dell’ignoranza della nocività dell’amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv, “threshold limit value”) poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l’adozione delle misure di prevenzione prescritte” (così Cass., Sez. Lav., n. 18503/2016).

In effetti, come noto, anche alla luce della difficoltà di addivenire all’apprezzamento di una media ponderata dell’esposizione, il D.Lgs. 81/2008 (come il D.Lgs. 277/1991) individua, all’art. 254, un valore soglia dell’esposizione calcolato sulle ore lavorative, al superamento del quale è legato un obbligo di informazione e protezione della salute dei lavoratori esposti pregnante.

Tuttavia, non può e non deve ritenersi morbigena la sola esposizione eccedente il valore soglia di cui all’art. 254 D.Lgs. 81/2008, considerata altresì la natura di norma di chiusura dell’art. 2087 c.c., disposizione che, come detto, integra il contratto di lavoro ed impone al datore l’adozione di tutte le misure atte a tutelare la integrità psico-fisica del dipendente.

È stato poi chiarito “all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro … era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto…. Da tali premesse… derivava l’obbligo del datore di lavoro, evidenziato dalla richiamata giurisprudenza, di adottare misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Soccorrono quindi le norme dello stesso D.P.R. n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione (così Cass., Sez. Lav., n. 6352/2015), tenendo presente che in ogni caso, vale il principio di chiusura per cui, “in tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l’esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie” (Cass., Sez. Lav., n. 10425/2014; Cass., Sez. Lav., n. 291/2017). Ciò detto, dunque, quanto alla tesi di parte convenuta per cui non potrebbe ravvisarsi colpa in capo alle convenute, poiché all’epoca presumibile della contrazione della malattia la pericolosità dell’amianto non sarebbe stata ancora nota ed inoltre sarebbe mancata una normativa specifica in materia di protezione dall’inalazione di amianto, deve rilevarsi che “già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442 che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni dettava il regolamento per l’esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, emanato con D.Lgs. 6 agosto 1916, n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13 e il R.D. 7 agosto 1936, n. 1720 che approvava le tabelle indicanti i lavori per i quali era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui era consentita l’occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all’osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, la lavorazione dell’ amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n. 530 , tra gli altri agli artt. 10, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche. D’altro canto l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi del ‘900 e fu inserita tra le malattie professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455 . In epoca più recente, oltre alla Legge Delega 12 febbraio 1955, n. 52 , che, all’art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e alle visite previste dal D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648 , si deve ricordare il regolamento 21 luglio 1960, n. 1169 ove all’art. 1 si prevede, specificamente, che la presenza dell’amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio si può infine ricordare che il premio supplementare stabilito dal T.U. n. 1124 del 1965, art. 153 per le lavorazioni di cui all’allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi. D’altro canto l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro. Da quanto esposto discende che all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa degli odierni ricorrenti [n.d.r.: 1956 – 1987] era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto, tanto che l’uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre (per fattispecie con periodi temporali di attività lavorativa analoghi …. v. Cass. n. 8204 del 2003; Cass. n. 16645 del 2003; Cass. n. 14010 del 2010; Cass. n. 2491 del 2008; Cass. n. 15156 del 2011; Cass. n. 26590 del 2014; da ultimo Cass. n. 22710 del 2015 che ha ribadito non solo l’irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si fosse svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali d’amianto, ma anche che a detta epoca non si sapesse che anche singole fibre d’amianto inalate potessero essere letali). Si imponeva dunque, anche per il periodo per cui è causa, l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. e più specificamente al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce, recependo le indicazioni prevenzionistiche già affermatesi, che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedirne o ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro, soggiungendosi che le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Devono altresì essere tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303 ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione. L’art. 2087 c.c. in generale e il D.P.R. n. 303 del 1956 in particolare imponevano quindi di adottare provvedimenti idonei ad impedire o a ridurre lo sviluppo e la dispersione delle polveri nell’ambiente di lavoro, a prescindere peraltro dall’accertamento di una specifica nocività rispetto a determinate patologie, essendo comunque accertata la nocività della polvere (di qualsiasi sostanza) per l’apparato respiratorio (cfr. Cass. n. 6352 del 2015). Gravava pertanto sulla società datrice di lavoro l’onere della prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle suddette norme…” (si veda, in termini, Cass., Sez. Lav., n. 17252/2016).

Sostengono le convenute che, qualunque cautela fosse stata adottata all’epoca dell’esposizione, l’evento si sarebbe ugualmente prodotto, non esistendo allora idonee ed adeguate misure di prevenzione atte ad impedire l’insorgenza della patologia.

Al riguardo deve rilevarsi che YYY non ha adottato neppure quelle misure minime previste all’epoca per contrastare l’inalazione di polveri di amianto e quindi non ha rispettato l’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. assumendosi i rischi di eventuali tecnopatie (v., ancora, Cass., Sez. Lav., n. 10425/2014; Cass., Sez. Lav., n. 291/2017).

Ciò posto, deve osservarsi, avuto riguardo alla eccezione di difetto di legittimazione passiva della S.A. YYY e di YYY a titolo di responsabilità extracontrattuale/contrattuale per i danni cagionati prima del 1976 per non essere ancora il XXX assunto dalle convenute, come essa risulta destituita di fondamento non trattandosi di questione di assenza di legittimazione passiva ma di esame nel merito circa la domanda spiegata dal ricorrente nei confronti delle convenute, atteso che anche dalle testimonianze è emerso che i comportamenti datoriali in violazione dell’art. 2087 c.c. che hanno dato origine alla malattia per cui è causa si siano concentrati nel periodo compreso tra il 1976 e il 1980, per poi proseguire sino al 2009, cioè quando il ricorrente era alle dipendenze delle convenute.

In punto va dunque affermata, ai sensi dell’art. 2112 c.c., la responsabilità solidale dell’acquirente di azienda in relazione a tutte le obbligazioni dell’alienante verso i lavoratori, compresa quella avente ad oggetto il risarcimento del danno non patrimoniale subito dal lavoratore che abbia contratto malattia professionale, a cagione di violazioni, poste in essere dall’alienante, degli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c. (cfr., in punto, Cass., Sez. Lav., n. 3115/1991).

Quanto poi al nesso causale tra la nocività dell’attività lavorativa e la patologia contratta dal XXX deve anzitutto osservarsi come la prova della relazione causale tra la patologia asbesto correlata e la esposizione ad amianto risulti dalla mancata adozione di tutte le misure idonee a tutelare la salute del lavoratore.

Orbene, espletata la CTU medico legale, il CTU nominato, dott. ***, ha concluso che “Il sig. XXX è affetto da ispessimento pleurico costale anteriore al LSDx; ispessimento pleurico costale anterolaterale al LSSin; irregolarità pleuriche posteriori sul medesimo lato e quelle al diaframma. Si tratta di un quadro radiologico del torace diagnosticato inizialmente con esame TC (tecnica standard e ad alta risoluzione) del giugno 2007. Gli accertamenti radiologici successivi, fino all’esame TC torace del 5.12.2014 (ultima indagine presente in atti) hanno dimostrato la tendenza degli ispessimenti pleurici ad incrementare le dimensioni, in assenza di reperti strumentali indicativi di disventilazione polmonare, almeno fino al dicembre 2014. Tale condizione patologica della pleura (PP)- in ragione della storia lavorativa del ricorrente, delle mansioni lavorative svolte caratterizzate dal rischio di esposizione a fibre di amianto, dei caratteri anatomici e radiologici delle lesioni diagnosticate – è con alta probabilità logica causalmente correlata con l’esposizione all’amianto determinata dall‟attività lavorativa svolta nel contesto produttivo della YYY di *** M.mo . Non sono emerse evidenze documentali ovvero storiche riguardanti una possibile esposizione ad amianto di natura extra-professionale e neppure l‟esposizione a fibre di fluoro-edenite e erionite18 . Non si pongono problematiche di diagnosi differenziale in ragione della tipicità dei reperti radiologici delle TC-torace in precedenza richiamate; in particolare è da escludere che gli ispessimenti pleurici osservati radiologicamente siano conseguenza delle “bronchiectasie” segnalate dalla reperto TC del 4.6.2007, con sede nel segmento apico-dorsale del lobo superiore dx, nel segmento apicale dell’inferiore di sinistra e nei segmenti basali bilateralmente” (v. relazione CTU p. 58 ).

Sulla base delle considerazioni sopra spiegate, risultano dunque condivisibili poiché rispondenti ai dati fattuali acquisiti al giudizio le conclusioni del CTU che devono, peraltro, essere inquadrate nell’ambito dei principi giuridici che regolano il nesso di causalità.

In particolare, quanto alla sussistenza del nesso causale deve tenersi presente come, per costante giurisprudenza anche di legittimità, “la prova del nesso causale consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del più probabile che non” (cfr., in termini, Cass., Sez. Lav., n. 17172/2012; Cass. n. 10741/2009; Cass. n. 16123/2010 e Cass. n. 15991/2011).

In ogni caso, come pure già evidenziato, ai sensi dell’art. 2087 c.c., “il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l’esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l’adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie” (si veda, ancora Cass., Sez. Lav., n. 10425/2014; Cass., Sez. Lav., n. 291/2017). Orbene, alla stregua di tutti i sopra specificati elementi, appare chiaro che la patologia di cui il ricorrente soffre (e quindi il danno biologico da essa derivante) si trova in rapporto eziologico diretto con l’attività di lavoro, atteso che la valutazione medico-legale espressa dal C.T.U. risulta, come detto, pienamente confermata dalle ulteriori acquisizioni istruttorie.

Quanto alla eccezione di inammissibilità delle domande di risarcimento del danno atteso il risarcimento INAIL, il difetto dei presupposti per la liquidazione del differenziale, debbono dunque richiamarsi le considerazioni spiegate (Supra) dovendo così essere inquadrato il caso di specie, nel quale il ricorrente ha domandato il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto per effetto della patologia contratta.

Orbene l’espletata CTU, a seguito di incarico conferito al Dott. ***, ha consentito di accertare, che è il ricorrente è da considerarsi affetto da patologia correlata all’attività lavorativa tenuto conto della positività del nesso causale tra patologia ed attività lavorativa, con presenza di un danno percentuale che, in base alle tabelle, è pari all’8% (v. relazione CTU pag. 58).

Pertanto, in definitiva, le analitiche osservazioni esposte dal CTU nominato nella presente causa (che questo Giudice condivide, essendo fondate su accurati esami clinici e strumentali nonché sorrette da adeguata motivazione medico-legale, del tutto immune da vizi logico-giuridici), in quanto anche suffragate alla stregua delle espletate prove e della documentazione acquisita, consentono di affermare che la patologia di cui il ricorrente attualmente soffre (e quindi il danno biologico da essa derivante) si trova in rapporto eziologico diretto con la condotta del datore di lavoro concretizzatasi nella mancata adozione di strumenti atti proteggere il lavoratore dalla esposizione ad amianto, avendo il CTU nominato preso precisa posizione sulle note critiche e comunque spettando la valutazione delle testimonianze al Giudice (Supra).

Le convenute, dunque, devono rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. degli eventi nocivi determinati dalla esposizione ad amianto.

Quanto alla natura del danno risarcibile, poi, deve apprezzarsi la nozione unitaria di danno non patrimoniale, di cui all’orientamento affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la decisione n. 26972/2008 e dovendosi richiamare, circa la natura di malattia della pleuropatia le considerazioni spese dal CTU.

Tanto detto in relazione alla responsabilità delle convenute avuto riguardo, quindi, all’entità delle conseguenze dannose del fatto è pacifico che il lavoratore, che ha ottenuto un indennizzo, conserva (alla luce di quanto detto, Supra) la legittimazione ad agire nei confronti del responsabile del danno per ottenere l’eventuale residuo risarcimento, qualora il danno sofferto sia stato coperto solo in parte dall’INAIL.

Orbene, emerge documentalmente che INAIL ha corrisposto al XXX in conseguenza del fatto in parola una rendita determinata in relazione a “estesa pleuropatia bilaterale” in ragione di un grado di menomazione complessivo del 13% (v. documentazione versata in atti in data 1.7.2020). Pertanto, in applicazione ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale delle Tabelle di Milano (alla luce di quanto affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 12408 del 2011, successivamente confermata dalla sentenza n. 14402/11, che questo Giudice ritiene pienamente di condividere) la frazione del danno non patrimoniale rappresentato dalla lesione permanente dell’integrità psicofisica medicalmente apprezzabile del XXX dovrebbe dirsi risarcibile a mezzo dell’importo di euro 13.450,00 corrispondente ad un danno dell’8% in un soggetto di anni 61 (emergendo dalla relazione peritale come dal 2014 il quadro clinico risulti stazionario).

Da tale somma deve essere detratta la quota parte dell’indennizzo complessivamente riconosciuto al XXX dall’INAIL, quantificata in euro 8.311,59 (per come si evince dalla sommatoria di quanto percepito da INAIL nel corso del tempo, cfr. docc. 3a, 3b allegati al ricorso e documentazione versata in data 1.7.2020).

La differenza deve dunque ritenersi spettante al ricorrente a titolo di danno differenziale e posta a carico delle convenute, oltre interessi e rivalutazione.

Occorre, poi, precisare che le Tabelle di Milano applicate hanno parametri che già tengono conto degli aspetti “morali” e “relazionali” propri del danno non patrimoniale.

Su tale somma spetta poi la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sul capitale dalla data del sentenza sino al saldo ai sensi dell’art. 429 c.p.c., norma applicabile anche il risarcimento del danno subito dal lavoratore per la mancata predisposizione, da parte dell’imprenditore, delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti, essendo tale danno di origine contrattuale e strettamente connesso con lo svolgimento del rapporto di lavoro (Cass., Sez. Lav., n. 5024/2002; Cass., Sez. Lav., n. 3213/2004; Cass., n. 19348/2010; Cass., Sez. Lav., n. 14507/2011).

Spettano inoltre gli interessi legali sul capitale originario (id est devalutato al momento dell’evento dannoso) rivalutato anno per anno secondo gli indici ISTAT dell’incremento dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, dall’evento dannoso alla pronuncia.

Sull’importo complessivo decorreranno gli interessi legali dalla data odierna al saldo (vedi Cass. civ., Sez. Un., n. 1712/1995).

Deve invece osservarsi, avuto riguardo alla richiesta di liquidazione, in favore del ricorrente, del danno patrimoniale come non emerga dal ricorso, ovvero dalla documentazione in atti versata, nessun parametro alla luce del quale il ricorrente abbia subito un pregiudizio patrimoniale (v. pag. 44 ricorso), di talché, in difetto di allegazione e prova in punto, la relativa domanda deve essere rigettata, costituendo principio pacifico in giurisprudenza quello alla luce del quale grava sul ricorrente l’onere di fornire la prova puntuale dell’esistenza di detta posta, pure in via presuntiva (v., in termini, Cass. n. 7570/2019). In altri e più precisi termini, stante quanto sopra appare evidente che, nel caso di specie, il ricorrente non ha adempiuto l’onere allo stesso incombente; a tale carenza di allegazione, si affianca la mancanza di istanze istruttorie idonee a contestualizzare e individuare in modo puntuale il danno patrimoniale asseritamente subito.

Infine, in relazione alla domanda di pubblicazione della sentenza si osserva che, come noto, l’art. 120 c.p.c. recita “Nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all’articolo 96, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamente indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet da lui designati. Se l’inserzione non avviene nel termine stabilito dal giudice, può procedervi la parte a favore della quale è stata disposta, con diritto a ripetere le spese dall’obbligato.”. Orbene, in punto la domanda di cui al ricorso non può trovare accoglimento atteso che non si vede come la pubblicazione richiesta possa contribuire alla riparazione del danno nel senso previsto dalla norma, in particolare avuto riguardo alla tipologia di danno per cui è causa.

Le spese di lite debbono essere compensate tra le parti nella misura del 50% attesa la parziale soccombenza reciproca; per l’ulteriore metà le spese, incluse quelle di CTU, seguono il criterio della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo (quanto al ricorrente, con distrazione in favore del procuratore, antistatario) avuto riguardo alla natura della causa, scaglione di valore e attività processuale svolta secondo il D.M. 55/2014.

LIVORNO, 11 settembre 2020

Il Giudice

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