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Codice Penale

Mandato irrevocabile all’incasso

Mandato irrevocabile all’incasso, funzione di garanzia, conseguenza della disponibilità del credito verso il terzo.

Pubblicato il 20 May 2019 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di L’Aquila, composta dai Magistrati
pronunciato e pubblicato la seguente

SENTENZA n. 854/2019 pubblicata il 15/05/2019

Nella causa civile in grado d’appello n. /2014 R.G. promossa da

XXX,

Rappresentato e difesa dall’avv.;

Appellante

Nei confronti di

BANCA YYY s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

Rappresentato e difeso dell’Avv.;

Appellata

CURATELA DEL FALLIMENTO ZZZ, in persona del curatore pro tempore,

Rappresentata e difesa dall’avv.;

Avente ad oggetto: Opposizione a decreto ingiuntivo – Contratti Bancari.

Conclusioni delle parti: come da verbale dell’udienza dell’11/12/2018.

FATTO E DIRITTO

1. Con sentenza n. /2012 il Tribunale di Vasto aveva parzialmente accolto l’opposizione proposta da XXX al decreto ingiuntivo n. /2007 e, revocato il decreto stesso, aveva condannato il XXX alla corresponsione in favore della Banca YYY s.p.a., della minor somma di € 32.218,74 oltre interessi legali dalla data del 18.4.2002 al saldo; aveva dichiarato improponibile la domanda proposta dall’attore nei confronti della Curatela del Fallimento della società ZZZ ed aveva condannato il XXX alla rifusione dei 2/3 delle spese di lite in favore dell’opposto e secondo la stessa proporzione regolava le spese di CTU.

2. Il Tribunale, per quanto qui ancora di interesse, osservava che A) l’opponente non aveva contestato l’esistenza del credito, ma aveva sostenuto che la garanzia fideiussoria fosse inefficace per avere la Banca violato gli obblighi di correttezza e di buona fede nella fase esecutiva del contratto, avendo domandato il pagamento di una somma superiore a quella maturata alla data del 4/4/2002 in cui lo stesso XXX aveva comunicato il recesso; pertanto, l’opponente avrebbe dovuto rispondere del debito cristallizzato alla data del 18/4/2002 (decorsi 15 giorni lavorativi della data di comunicazione del recesso); B) l’opponente aveva lamentato l’indebita ed illegittima protrazione del contratto di apertura di credito nonostante il recesso del fideiussore, individuando anche in ciò una violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, ma – al riguardo – da un lato la violazione avrebbe dovuto essere valutata come tale nel solo momento in cui dalla prosecuzione del rapporto fosse derivato un aumento del rischio per il fideiussore, tale da pregiudicare in concreto l’esperibilità dell’azione di regresso; d’altro canto, anche a voler ipotizzare sussistente la dedotta violazione dei detti principi, comunque la conseguenza non avrebbe mai potuto essere ravvisata nella inefficacia della garanzia fideiussoria, bensì esclusivamente nel risarcimento del danno. Posto che la domanda – come proposta – era dunque certamente infondata, del tutto irrilevante si palesava l’istruttoria richiesta; C) in ordine alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, il contratto, successivo alla delibera CICR del 9/2/2000, era alla stessa conforme, con conseguente infondatezza della doglianza; D) in ordine alla c.m.s. la sua pattuizione era da considerarsi legittima in funzione dell’affidamento accordato e pertanto avrebbe dovuto essere riconosciuta e computata; E) sulla scorta della c.t.u. il credito richiesto dalla banca doveva essere riconosciuto con richiamo alla ricostruzione contabile indicata con la sigla C1, anche se il credito avrebbe dovuto essere riconosciuto, per le ragioni indicate sub B) fino al 18/4/2002, data di efficacia del recesso del fideiussore; F) il credito era quindi quantificabile nella minor somma di complessivi € 32.218,74, con gli interessi al tasso legale dalla data del 18/4/2002 al saldo; G) quanto alla domanda proposta dall’opponente nei confronti della curatela (parte ingiunta ma che non aveva proposto opposizione, e tuttavia chiamata in causa dall’opponente mediante notifica dell’atto di citazione in opposizione), diretta all’accertamento del regresso, essa ai sensi dell’art. 52 della l. fall. Era da qualificarsi come improponibile, dovendo ogni credito verso il fallito essere accertato secondo le norme speciali della procedura fallimentare nel rispetto del concorso di tutti i creditori; H) in ordine alle spese di lite, in virtù dei principi di soccombenza e di causalità, erano compensate nella misura di 1/3 e poste per la restante parte a carico dell’attore opponente, che era invece condannato a rifondere le spese di costituzione e difesa alla curatela. Secondo gli stessi parametri erano liquidate le spese di c.t.u..

3. Con l’interposto appello, il XXX censurava la prima sentenza e ne chiedeva la riforma.

4. Si costituivano, resistendo all’appello e chiedendone il rigetto, sia la Banca YYY che la Curatela del Fallimento, la quale peraltro riproponeva anche l’eccezione di inammissibilità della chiamata in causa diretta, svolta in primo grado dal XXX, oltre alle altre difese di merito.

5. L’interposto appello era basato sui seguenti motivi.

5.1.Con un primo motivo, il XXX lamentava che il primo giudice avesse equivocato sul tenore della domanda diretta ad ottenere la pronuncia di inefficacia della fideiussione per violazione dei principi di correttezza e buona fede, sottolineando che la stessa avrebbe dovuto essere inquadrata come diretta ad accertare l’abuso del diritto in capo alla banca, posto che questa, violando i detti principi, non aveva verificato la solvibilità del debitore facendosi scudo del fideiussore. Nella specie avrebbe dovuto essere analizzata la fattispecie sotto questo aspetto, dovendosi la scorrettezza identificarsi, testualmente, nel “…non aver effettuato i doverosi controlli e/o non aver preteso l’adempimento della procura irrevocabile all’incasso…” con ciò danneggiando il garante.

5.2.Con un secondo motivo, censurava la sentenza per non aver considerato i profili di corresponsabilità per mancata cooperazione del creditore alla luce del combinato disposto dagli artt. 1375 c.c. e 1227 c.c., ravvisata nel non aver attivato il mandato irrevocabile all’incasso delle somme dovute dalla “Società *** S.p.A.” alla ZZZ in esecuzione degli impegni assunti all’atto della concessione del fido, che infatti, come dimostrato dalla documentazione, erano state accreditate presso altro istituto bancario. Lamentava che al riguardo fossero state disattese le istanze istruttorie, che venivano quindi reiterate perché rilevanti ai fini della decisione.

5.3.1. I primi due motivi, stante la loro evidente connessione, devono essere congiuntamente esaminati. Essi sono infondati. Il primo motivo, anzi, a ben vedere è sostanzialmente inammissibile per difetto di specificità, laddove l’appellante ha lamentato solo in via astratta il mancato inquadramento della fattispecie quale abuso del diritto, senza enunciare in fatto ed in concreto da quali specifiche evidenze avrebbe dovuto trarsi un positivo convincimento al riguardo. L’appellante ha svolto cioè una serie di considerazioni astratte ed assertive, non idonee di per sé a concretare un’adeguata motivazione dell’appello (art. 342 c.p.c.). Nell’ambito dello stesso motivo è peraltro contenuto un richiamo, sviluppato poi con riferimento al secondo motivo, alla circostanza che la banca avrebbe colpevolmente omesso di esercitare quel mandato irrevocabile all’incasso che era stato rilasciato in suo favore, così contribuendo in maniera determinante alla mancata acquisizione di somme rilevanti che avrebbero consentito un pieno recupero della situazione debitoria. Per questa parte l’appello è infondato. Infatti, “… nel mandato all’incasso viene conferita al mandatario solo la legittimazione alla riscossione del credito, del quale resta titolare il mandante. … nel mandato irrevocabile all’incasso la funzione di garanzia si realizza in forma meramente empirica e di fatto, come conseguenza della disponibilità del credito verso il terzo e della prevista possibilità che, al momento dell’incasso, il mandatario trattenga le somme riscosse, soddisfacendo cosi il suo credito…” (arg. da Cass. 9387/2011, Cass. Sez. VI Civ., 6 settembre 2018, ordinanza n. 21694). Nella specie, la possibilità per il mandatario (cioè la Banca) di esercitare il mandato irrevocabile all’incasso non poteva che presupporre che le somme venissero accreditate presso la banca stessa; al contrario, lo stesso appellante (vds. pag. 16 dell’appello) ha dedotto che la Società *** provvedeva a liquidare i due SAL accreditandoli su due diversi conti correnti accesi presso l’*** di ***. Non si vede, pertanto, che modo la Banca di Credito Cooperativo potesse esercitare, in questa situazione, il mandato irrevocabile all’incasso delle somme stesse.

5.4.Con un terzo motivo, l’appellante lamentava che il primo giudice avesse omesso ogni motivazione sulla natura usuraria degli interessi applicati dalla banca, lamentando che il primo giudice – da un lato – avesse omesso di conferire al ctu un quesito in merito e – dall’altro – che il tasso usuraio avrebbe dovuto verificarsi tenendo conto di tutta la durata del rapporto e delle continue fluttuazioni del tasso soglia medio tempore intervenute.

5.5.Il motivo è infondato. Posto che il tasso soglia al momento della pattuizione (dicembre 2000) per la categoria di operazione (apertura di credito in conto corrente superiore a 10.milioni di lire) era fissato al 10,19 % dal decreto del Ministero del Bilancio e Programmazione Economica e che lo stesso decreto prevedeva che “a decorrere dal 1° ottobre 2000 (data di entrata in vigore del citato decreto ministeriale) e fino al 31 dicembre 2000, ai fini della determinazione degli interessi usurari ai sensi dell’art. 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, i tassi indicati nella tabella che segue devono essere aumentati della metà” e dunque il tasso soglia applicabile al momento della pattuizione era pari al 15,28%. Il CTU nominato da questa Corte, partendo da questa premessa che è del tutto corretta, ha provveduto ad effettuare una verifica completa ed accurata tenendo conto dei noti principi espressi dalla suprema corte (Sez. U -, Sentenza n. 16303 del 20/06/2018) e quindi tenendo conto, perché legittimamente prevista e regolata in contratto, anche della commissione massimo scoperto. Si tratta infatti di un rapporto contrattuale che, come nel caso analizzato dalla suprema corte, si è svolto nel periodo anteriore all’entrata in vigore (il 1 gennaio 2010) delle disposizioni di cui all’art. 2 bis del d.l. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione n. 2 del 2009. I conteggi espletati hanno consentito di verificare che al momento della pattuizione, epoca in cui va verificata la eventuale sussistenza dell’usura (cfr. cass. S.U. n. 24675/2017) (ma, a ben vedere, anche nel corso del rapporto) il tasso per la tipologia di operazione non ha mai superato il cd. Tasso soglia.

5.6.Con un quarto motivo, l’appellante ha lamentato – in termini peraltro dubitativi e perplessi una serie di errori da parte del tribunale, in ordine A) alla decorrenza della valuta dal saldo disponibile, poiché sarebbe stato avallato un criterio di comodo utilizzato dal c.t.u. diverso da quello esposto in quesito; B) alla legittimità dell’interesse convenzionale, pur in mancanza di accertamento in ordine all’usura, che avrebbe consentito di accertare come dovuto alcun interesse; C) alla commissione massimo scoperto, poiché in concreto sarebbe stata applicata anche sulle somme via via utilizzate come “sarà accertato in corso di causa”. Anche questo motivo è infondato. In ordine al punto C) – commissione massimo scoperto – una volta acclarato che la pattuizione è legittima, la verifica contabile effettuata in questo grado ha altresì chiarito che, per le modalità in cui il rapporto si è esplicato, la commissione massimo scoperto, calcolata unitamente all’interesse convenzionale, non ha mai superato il tasso soglia. In concreto, poi, la ctu espletata in primo grado non ha evidenziato anomalie nella concreta applicazione della commissione (come è d’altra parte implicito nella stessa motivazione fornita dall’appellante, il quale ha al riguardo dedotto al riguardo “come si evince dalla CTP e sarà accertato in corso di causa”); viceversa, restava aperto il profilo relativo alla eventuale natura usuraria della voce di credito, profilo che, tuttavia, come precisato nel precedente punto della motivazione, è risultato infondato, poiché anche la c.m.s. non ha mai superato il tasso soglia come previsto dalla recente giurisprudenza (Sez. U -, Sentenza n. 16303 del 20/06/2018 cit.). In ordine al punto A) il motivo è infondato. Il consulente nominato in primo grado (in questo grado la ctu è stata infatti rinnovata solo in relazione alla verifica dell’usura anche con riferimento ai criteri fatti propri dalla cassazione in riferimento alla c.m.s.) ha esposto che, nell’impossibilità di individuare con certezza il giorno dell’operazione per tutte le operazioni, avrebbe adottato un criterio che, contabilmente, veniva ritenuto attendibile – e che, all’evidenza, ha ritenuto tale anche il tribunale adottandolo a sua volta e ponendolo a base della decisione – motivando la scelta in relazione alle tipologie di operazioni (divise in tre gruppi, a pagg. 8 e 9 della CTU di primo grado). Tale criterio, per quanto si evince dalla relazioni peritale, è stato condiviso con entrambi i CT di parte (cfr. 9). D’altro canto, l’appellante non ha indicato nell’atto d’appello in quale diverso modo sarebbe possibile procedere ad individuare l’esatta data di ogni singola operazione, limitandosi a rappresentare l’erroneità del criterio adottato; in parte qua il motivo, certamente infondato per quanto esposto, presenta anche profili di inammissibilità. In ordine al punto B), esso è certamente superato dall’accertamento svolto in concreto, che ha consentito di accertare come l’interesse complessivamente calcolato, comprensivo della c.m.s., sia da considerare legittimamente pattuito e come dunque la scelta di mantenere il tasso convenzionalmente pattuito sia corretta.

5.7.Con un quinto motivo, l’appellante lamentava l’erroneità della declaratoria di improcedibilità “della domanda di regresso o surroga proposta dall’opponente contro la curatela” fallimentare, adottata dal primo giudice in applicazione del disposto di cui all’art. 52 della l.f. in ragione del quale ogni credito nei confronti del fallito deve essere accertato secondo le regole poste dalla legge speciale a tutela della par condicio creditorum. Al riguardo, in primo grado, l’opponente aveva convenuto nel giudizio di opposizione sia l’opposto che l’altro ingiunto, vale a dire il debitore principale, società ZZZ chiedendo che “nella denegata ipotesi in cui il giudice adito riconosca l’esistenza del credito vantato dalla banca … si chiede fin d’ora l’estensione dell’efficacia del provvedimento e la conseguente condanna al pagamento del credito unicamente alla curatela del fallimento ZZZ” e “in via ulteriormente subordinata, nella denegata ipotesi che il giudice affermi l’esistenza di una responsabilità solidale, deve riconoscersi comunque il diritto di regresso e di surroga nei confronti del debitore principale”. L’appellante lamentava l’ingiustizia del capo della sentenza perché non aveva tenuto conto 1) dell’autorizzazione implicita data dal primo giudice all’estensione della domanda al fallimento; 2) della sopravvenienza del fallimento rispetto alla data della citazione nel giudizio di opposizione; 3) dell’obbligatorietà del litisconsorzio trattandosi di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

5.8.Il motivo è infondato. Seguendo la stessa impostazione dell’appellante, è necessario valutare la legittimità (rivendicata dall’appellante, ma tuttora contestata dall’opposta) della citazione in giudizio del terzo chiamato, società ZZZ (essendo a tal fine indifferente la mera coincidenza del chiamato con l’altro coobbligato in solido, ingiunto ma non opponente), medio tempore fallita e ciò sotto il seguente profilo, se, cioè, dopo il fallimento del chiamato la domanda fosse o meno divenuta improcedibile, come dichiarato dal Tribunale. Al riguardo, l’appellante adduce a sostegno della sua tesi il fatto che la domanda fosse all’origine procedibile, perché il fallimento era sopravvenuto in corso di causa e che la chiamata fosse stata autorizzata, sia pure per implicito dal giudice, in un contesto nel quale, essendo il chiamato l’altro debitore ingiunto, comunque sussisteva litisconsorzio necessario. Il motivo, come si diceva, è infondato. Infatti, va premesso che non sussisteva – all’origine – alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario che rendesse obbligatoria la chiamata in causa del condebitore solidale ed ingiunto, poiché è principio pacifico in giurisprudenza che il decreto ingiuntivo, richiesto ed ottenuto nei confronti di condebitori solidali acquista autorità di giudicato sostanziale nei confronti di quello dei condebitori in solido che non proponga tempestiva opposizione e la relativa efficacia resta insensibile all’eventuale accoglimento dell’opposizione avanzata da taluno di essi (cfr. cass. Sez. 3, Sentenza n. 15376 del 26/07/2016, tra le tante in termini). Ciò posto, non vi è dubbio che la chiamata in causa, avvenuta per citazione diretta a comparire da parte dell’opponente senza alcuna richiesta di autorizzazione al giudice istruttore, fosse inammissibile, posto che, per costante giurisprudenza, l’opponente a decreto ingiuntivo che intenda chiamare in causa un terzo non può direttamente citarlo per la prima udienza ma deve chiedere al giudice, nell’atto di opposizione, di essere a ciò autorizzato, determinandosi, in mancanza, una decadenza rilevabile d’ufficio ed insuscettibile di sanatoria per effetto della costituzione del terzo chiamato, ancorché questi non abbia, sul punto, sollevato eccezioni, in quanto il principio della non rilevabilità di ufficio della nullità di un atto per raggiungimento dello scopo si riferisce esclusivamente all’inosservanza di forme in senso stretto, e non di termini perentori, per i quali vigono apposite e distinte norme (cfr, tra le tante, cass. Sez. 1, Sentenza n. 22113 del 29/10/2015). Pertanto, poiché ancora in questa sede è in discussione la legittimità della chiamata in causa del debitore principale (medio tempore fallito), eccezione che è stata espressamente riproposta ex art. 346 c.p.c. dalla difesa della Curatela Fallimentare, questa Corte deve prendere atto e dichiarare l’inammissibilità della stessa, con conseguente venir meno, ab origine, delle domande avanzate dall’opponente contro il chiamato ed assorbimento della ulteriore problematica relativa alla improcedibilità delle domande stesse ai sensi dell’art. 43 l.fall. (declaratoria che, peraltro, in sé e per sé considerata, ove cioè non fosse stata superata da quella, alla stessa preliminare, della inammissibilità della chiamata in causa, dovrebbe comunque valutarsi come correttamente sancita dal tribunale, con conferma anche in questo caso).

5.9.L’appello va quindi integralmente respinto, mentre, in accoglimento dell’eccezione riproposta ex art. 346 c.p.c., va dichiarata l’inammissibilità originaria della chiamata in causa della Curatela Fallimentare della società ZZZ.

5.10. Le spese del grado seguono la soccombenza e vanno poste a carico dell’appellante XXX; sono liquidate come da dispositivo ai sensi del d.m. 55/2014, con riferimento ai valori medi. Le spese di c.t.u. come separatamente liquidate sono a carico dell’appellante.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando, così provvede:

1) Respinge l’appello proposto da XXX;

2) Dichiara l’inammissibilità della chiamata in causa della Curatela Fallimentare della Società ZZZ;

3) Condanna XXX al rimborso in favore di ciascuna delle controparti delle spese del grado, che liquida in complessivi € 9.515,00 oltre IVA, CPA nella misura di legge e rimborso forfettario delle spese generali come da tariffa forense;

4) Condanna XXX al pagamento degli onorari del CTU, liquidati come da separato decreto.

L’Aquila, 23 aprile 2019.

Il Presidente rel. est.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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