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Adozione di modelli di compliance aziendale

La responsabilità dell’ente deriva dalla valutazione sulla bontà del modello organizzativo (compliance) di prevenzione degli illeciti di cui si è dotato: l’ente che si dota di modelli organizzativi idonei e tendenzialmente efficaci potrebbe, pertanto, andare esente da responsabilità ex D. Lgs. n. 231 del 2001, pur se un reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, con prevedibile effetto virtuoso anche rispetto all’incentivazione dell’adozione di modelli di compliance aziendale.

Pubblicato il 27 May 2023 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

La Corte d’Appello di Genova, in riforma della sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Massa il 14.6.2019, ha condannato XXX alla pena di anni uno di reclusione e 7.000 Euro di multa in relazione ai reati di contraffazione di alcuni rotoli di nastri da bomboniere e da confezione, tra quelli contestati e sequestrati, riproducenti marchi figurativi dei brand di lusso (attraverso la ditta individuale tessile di cui era titolare), e di commercializzazione sistematica di tali prodotti contraffatti attraverso la ” YYY s.r.l.”, di cui era amministratore unico; sono state riconosciute, nei confronti dell’imputato, le circostanze attenuanti generiche equivalenti rispetto all’aggravante di cui all’articolo 474-ter c.p.; la sentenza d’appello ha anche dichiarato, ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, la responsabilità amministrativa della società ” YYY s.r.l.”, applicando all’ente la sanzione amministrativa pecuniaria pari a 200 quote del valore di Euro 300 ciascuna, nonché la sanzione interdittiva prevista dagli articoli 5, 25-bis e 9, comma 1, n. 2, dello stesso decreto legislativo per la durata di mesi sei, ordinando la pubblicazione della sentenza per estratto, ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 18.

L’assoluzione era stata fondata dal giudice di primo grado su alcuni argomenti principali:

a) i disegni impressi sui nastri sequestrati erano diversi rispetto a quelli oggetto di registrazione da parte delle due case di moda e non era rinvenibile nemmeno la presenza di segni distintivi delle predette griffe che permettessero di confondere i rispettivi prodotti con ciò escludendosi la contraffazione laddove i marchi venissero considerati di tipo “debole”;

b) qualora i marchi fossero ritenuti di tipo “forte” non ricorrevano comunque quei requisiti enunciati dalla giurisprudenza di legittimità per determinare la tutela penale ed identificabili nel riferimento al nucleo ideologico caratterizzante il messaggio proveniente dal marchio; nell’affinità tra prodotti e nel “rischio di associazione” ai prodotti originali, che determinerebbero un vulnus al segno oggetto di tutela, tenuto conto della destinazione merceologica dei prodotti della ditta individuale esclusivamente al settore delle bomboniere, assai diverso da quello oggetto interesse delle case di moda coinvolte;

c) il marchio *** non sarebbe oggetto di tutela in qualsivoglia colore declinato, ma solo per quella combinazione di colori oggetto di registrazione nella domanda specificamente depositata (ovvero marrone chiaro, beige, rosso, bianco e nero);

d) quanto al nastro ricondotto a ***, l’aspetto del nastro sarebbe talmente comune da non potersi collegare univocamente alla nota griffe ***, stante anche l’assenza di elementi ulteriori che vanno a comporre il marchio nell’insieme, quali, ad esempio, il monogramma o la staffa. E questo dato è confortato dalla documentazione prodotta dalla difesa dell’imputato all’udienza del 14 giugno 2019 volta ad evidenziare come l’impiego dei colori del nastro, tra loro accostati nella medesima sequenza “verde-rosso-verde”, sia proprio, ad esempio, di altra identità, quale l’ordine cavalleresco al merito del lavoro ovvero sia addirittura presente in opere d’arte figurativa del XV secolo, che riproducono personaggi abbigliati con tessuti a strisce “verde-rosso-verde”.

La sentenza d’appello ha ribaltato, sostanzialmente, le affermazioni della pronuncia assolutoria, complessivamente ritenendo provato il reato sulla base principalmente dei seguenti argomenti:

a) il marchio *** sarebbe registrato anche come marchio “figurativo” in bianco e nero, con copertura della tutela per tutte le declinazioni di colori;

b) sono stati sequestrati alla ditta anche nastri pedissequamente riproduttivi del disegno grafico e della colorazione *** di *** o estremamente somigliante;

c) la tutela penale investe il marchio e non il prodotto, sicché non ha rilievo il settore merceologico delle bomboniere cui si dedicava l’attività d’impresa dell’imputato, tanto più che i nastri potevano avere anche altre destinazioni;

d) il diritto di preuso riconosciuto in qualche modo all’imputato dal primo giudice si riferisce, al più, solo alle colorazioni del check diverse da quella classica, poiché quest’ultima avrebbe avuto già una sua notorietà al momento dell’utilizzo da parte della ***;

e) non sarebbe credibile la tesi difensiva secondo cui il nastro contraffatto riproduttivo del marchio *** con colorazione verde-rosso-verde era solo un prodotto semilavorato e da completare con caratteri che ne avrebbero impedito l’assimilazione al marchio figurativo piu’ famoso oggetto di tutela.

Avverso la citata sentenza ricorrevano in Cassazione sia l’imputato che l’ente.

La Suprema Corte ha rilevato l’intervenuta prescrizione del reato, fissata al 19.10.2021 ai sensi degli articoli 157 e 161 c.p., tenuto conto della data dei fatti (contestati al 1.2.2013) e pur computati i periodi di sospensione rilevabili dagli atti.

In assenza di elementi che rendevano evidenti i presupposti per un proscioglimento nel merito ai sensi dell’articolo 129 c.p.p., doveva accedersi ad una pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato era estinto per prescrizione.

La declaratoria di prescrizione non esimeva il Collegio dall’esaminare il ricorso agli effetti civili, ai sensi dell’articolo 578 c.p.p., quanto alle sue ulteriori ragioni, essendo stato l’imputato condannato anche alle statuizioni civili in favore delle società “*** ltd” e “*** s.p.a.” (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009).

Ed infatti, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale nei gradi di merito è intervenuta condanna, ai sensi dell’articolo 578 c.p.p., il giudice d’appello e la Corte di cassazione sono tenuti a decidere sull’impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili e, a tal fine, i motivi di ricorso proposti dall’imputato dovevano essere esaminati compiutamente, non potendosi trovare conferma della condanna, anche solo generica, al risarcimento del danno dalla mancanza di prova dell’innocenza dell’imputato secondo quanto previsto dall’articolo 129 c.p.p. .

Secondo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale (cfr. la sentenza n. 182 del 2021 Corte Cost.), il giudice penale, chiamato a verificare la sussistenza dell’illecito civile ai sensi dell’articolo 578, comma 1, c.p.p., dovrà basarsi sulla regola di giudizio civilistica per la valutazione della responsabilità, vale a dire il canone valutativo del “più probabile che non”, piuttosto che sul criterio penalistico dell’alto grado di probabilità logica (ovvero dell-oltre ogni ragionevole dubbio“), sia pur riconoscendo la non piena sovrapponibilità della fisionomia del giudizio relativo ai soli interessi civili svolto in sede penale rispetto a quello che si tiene dinanzi al giudice civile (cfr. Sez. 5, n. 4902 del 16/1/2023).

La tutela penale accordata alla protezione marchi, riconosciuta nell’ambito di fattispecie di reati cd. “di pericolo”, discende dalla necessità di offrire adeguata garanzia al bene giuridico della fede pubblica, direttamente coinvolto, pur implicando, al fondo, evidenti ragioni di garanzia degli interessi economici sottesi.

Le figure tipiche dei delitti previsti dagli articoli 473 e 474 c.p., pertanto, sono costruite secondo lo schema normativo dei reati di pericolo, sicché ciò che rileva è la mera attività di contraffazione o alterazione dell’altrui marchio in quanto foriera dell’immissione sul mercato di beni suscettibili di ledere la fede pubblica e ingenerare confusione, nuocendo all’affidamento dei consumatori (Sez. 3, n. 14812 del 30/11/2016, dep. 2017; Sez. 5, n. 27743 del 30/4/2019; Sez. 5, n. 28956 del 8/5/2012).

Tanto ciò è vero che, secondo la giurisprudenza assolutamente pacifica della Suprema Corte regolatrice, integra il delitto di cui all’articolo 474 c.p. la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto, senza che abbia rilievo neppure la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che l’articolo 474 c.p. tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno ed i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno, non ricorrendo, quindi, l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (cfr., per tutte, la piu’ recente sentenza massimata sul punto: Sez. 2, n. 16807 del 11/1/2019).

Quanto alla configurabilità oggettiva del reato, ai fini dell’integrazione dei reati di cui agli articoli 473 e 474 c.p., un marchio si intende contraffatto quando la confusione con un segno distintivo similare emerga non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, con riguardo cioe’ all’insieme degli elementi salienti, grafici, fonetici o visivi, tenendo, altresì, presente che, ove si tratti di un marchio “forte”, sono illegittime anche le variazioni, sia pure rilevanti ed originali, che lasciano sussistere l’identità sostanziale del nucleo ideologico in cui si riassume l’attitudine individuante (Sez. 2, n. 40324 del 7/6/2019).

Inoltre, l’oggettiva e inequivocabile possibilità di confusione delle immagini, tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore forma oggetto di un giudizio di fatto demandato al giudice di merito e insindacabile se rispondente ai criteri della completezza e logicità (Sez. 5, n. 25147 del 31/1/2005).

La giurisprudenza della Cassazione civile – necessario specchio ermeneutico di quella penale in materia di tutela dei marchi – anche recentemente ha ricordato come la qualificazione del segno distintivo quale marchio “debole” non incide sull’attitudine dello stesso alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, nel senso che, a differenza del marchio “forte”, in relazione al quale vanno considerate illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo costituente l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante, per il marchio debole sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte (Sez. 1, n. 8942 del 14/5/2020).

E sull’amplissima tutela che la giurisprudenza accorda ai marchi cd. “forti”, basti rammentare il costante orientamento che evidenzia la punibilità di riproduzioni di personaggi di fantasia a marchio registrato, ancorché non fedeli, ma espressive di una forte somiglianza, che renda possibile la confusione delle immagini tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 9362 del 13/2/2015; Sez. 2, n. 20040 del 20/4/2011; Sez. 5, n. 25147 del 31/1/2005).

Si rammenta, altresì, nella medesima ottica, la punibilità della contraffazione dei cd. modelli ornamentali, indicativi della provenienza del prodotto dall’impresa che l’ha brevettato; in tal caso la contraffazione consiste nel dare al prodotto quella forma e quei colori particolari che possono indurre il pubblico ad identificarlo come proveniente da una certa impresa, anche contro le eventuali indicazioni dei marchi con i quali venga contrassegnato (Sez. 5, n. 8758 del 22/6/1999, che ha segnalato, come, quando il modello contraffatto sia legittimamente contrassegnato anche da un marchio di provenienza, per la consumazione del reato è necessario che sia integralmente riprodotta per imitazione una forte capacità identificativa del modello, pur riconoscendosi autonoma rilevanza penale alla contraffazione del modello a norma dell’articolo 473, comma 2, c.p.).

La natura di marchio “forte” si accompagna quasi sempre alla “notorietà” del marchio, che, in quanto tale, può prescindere anche dalla necessità della registrazione a fini di tutela.

E difatti, ai fini della configurabilità del reato di commercio di prodotti con segni falsi, è sufficiente e necessaria l’idoneità della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell’acquisto, bensì alla loro successiva utilizzazione, a nulla rilevando che il marchio, se notorio, risulti, o non, registrato, data l’illiceità dell’uso senza giusto motivo di un marchio identico o simile ad altro “notorio anteriore” utilizzato per prodotti o servizi sia omogenei o identici, sia diversi, allorché al primo derivi un indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del secondo (Sez. 5, n. 40170 del 1/7/2009).

Naturalmente, allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione, pur non essendo richiesta la prova della registrazione, è comunque indispensabile la previa acquisizione di elementi attestanti la rinomanza del marchio e la notoria sua riferibilità alla casa produttrice ed alla tipologia di prodotti che contraddistingue, tale da giustificarne la tutela, con conseguente onere, per l’incolpato, di fornire la prova contraria (Sez. 2, n. 46882 del 3/12/2021).

Infine, aspetto di fondamentale rilievo interpretativo nell’analisi della fattispecie sottoposta al Collegio, la notorietà del marchio, la sua fama risalente ed estesa determinano la dimensione del campo applicativo dei delitti previsti dagli articoli 473 e 474 c.p..

Integra il delitto di cui all’articolo 473 c.p., ovvero quello di cui all’articolo 474 c.p., la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilità, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand’anche utilizzato in ambiti non tradizionali per effetto di attività di “merchandising”, non costituendo tale circostanza, di per sé sola, motivo di sospetto (Sez. 5, n. 35235 del 18/5/2022, nella specie, si trattava di marchi di case automobilistiche apposti su capi di vestiario e “gadget”).

La sentenza impugnata ha enucleato vari indicatori della contraffazione punibile, tra questi: la quantità di prodotto, confezionato già in bobine di grandi dimensioni; l’assenza di campionario o documentazione che prevedesse segni di personalizzazione del nastro, con apposizione di altre figure; la riproduzione così pedissequa del marchio/disegno, da non aver rilievo la tesi difensiva del diverso settore merceologico di utilizzo, essendo compromessa comunque l’identificabilità del prodotto.

Eguale sorte di manifesta infondatezza toccava ai motivi di ricorso dedicati a contestare la responsabilità del ricorrente per il reato di contraffazione ex articolo 474 c.p. in relazione ai nastri abbinati alla contraffazione del marchio ***.

Come si è già evidenziato, infatti, integra il delitto di cui all’articolo 474 c.p. la contraffazione di marchi celebri pur se apposti su prodotti appartenenti a un settore merceologico diverso da quello tradizionale posto che il bene della fede pubblica è leso dalla confondibilità, secondo il giudizio del consumatore medio, del marchio originale con quello contraffatto, quand’anche utilizzato in ambiti non tradizionali e non ricompresi nella produzione di quest’ultimo, come nel caso di specie, in cui il marchio “forte” costituito dal disegno *** è stato pedissequamente riprodotto in nastri di tessuto, destinati al settore delle bomboniere da cerimonia.

La tutela penale di marchi celebri, quindi, deve essere estesa anche a settori merceologici completamente estranei all’interesse del brand oggetto della riproduzione pedissequa, allorché si rischi, secondo il giudizio del consumatore medio, la confondibilità dell’attribuzione del prodotto riproduttivo del marchio, del disegno o del modello ornamentale originali e “forti” perché “ampiamente notori”.

In altre parole, ciò che conta è la capacità del disegno, della forma o del modello ornamentale di rappresentare un “segno distintivo”, la cui contraffazione pone in pericolo il bene della fede pubblica.

Significative, al riguardo, sono le affermazioni della giurisprudenza civile di legittimità, che ha recentemente evidenziato come possa essere registrato e tutelato come marchio di forma quel prodotto la cui pubblicizzazione e commercializzazione ne abbiano favorito la diffusione tra il pubblico al punto da comportare la generalizzata riconducibilità di quella determinata forma dell’oggetto ad una specifica impresa (Sez. 1 civile, ord. n. 30455 del 17/10/2022).

La stessa giurisprudenza Europea ha osservato che “non si può.. escludere che l’aspetto estetico di un marchio (…) che assume (una determinata) forma (…) possa essere tenuto in considerazione, tra gli altri elementi, per accertare uno scostamento dalla norma e dagli usi del settore, purché tale aspetto estetico sia inteso come richiamante l’effetto visivo oggettivo e inusuale del design specifico del marchio suddetto (sentenza del 12 dicembre 2019, Euipo/Wajos, C-783/18, p. 32; Tribunale UE, 14 luglio 2021, T488/20, p. 43 e 44); di conseguenza, “la presa in considerazione dell’aspetto estetico del marchio (…) mira a verificare (…) se tale aspetto è idoneo a suscitare un effetto visivo oggettivo e inusuale presso il pubblico di riferimento” (i richiami alla giurisprudenza Europea ed una più ampia analisi del tema sono contenuti nella citata ordinanza Sez. 1 civ., n. 30455 del 2022).

In relazione alla posizione del ricorrente, quindi, la sentenza doveva essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione; il ricorso, invece, doveva essere rigettato agli effetti civili, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili, da liquidarsi in complessivi Euro 4.900,00, oltre accessori di legge.

Sono, invece, risultate fondate le ragioni di ricorso proposte dall’ente, la società ” YYY s.r.l.”, coinvolta nel processo sulla base della prospettazione di un vantaggio derivato all’ente dalla commissione del reato.

Anzitutto, in tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 8, comma 1, lettera b), deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (Sez. 6, n. 21192 del 25/1/2013; Sez. 4, n. 22468 del 18/4/2018; vedi anche Sez. 4, n. 38363 del 23/5/2018).

La responsabilità dell’ente sussiste, infatti, anche quando il reato “presupposto” si estingue per una causa diversa dall’amnistia (così, espressamente, il Decreto Legislativo n. 8 giugno 2001, n. 231, articolo 8, comma 1, lettera b)).

Si tratta di una delle ipotesi, espressamente contemplate dalla legge, in cui l’inscindibilità tra le vicende processuali delle persone fisiche e quelle dell’ente può venire meno, con la conseguenza che l’accertamento della responsabilità amministrativa della società nel cui interesse o per il cui vantaggio il reato è stato commesso può e deve proseguire attraverso un percorso processuale autonomo, nella sede propria del processo penale voluta dal legislatore della “L. 231”, pur non potendosi prescindere da una verifica quanto meno incidentale circa la sussistenza del fatto di reato.

In situazioni del genere, dunque, il potere cognitivo del giudice penale resta immutato, dovendo egli comunque procedere all’accertamento della sussistenza del reato cd. presupposto.

In altre parole, per il principio di autonomia della responsabilità dell’ente (articolo 8 cit.), la prescrizione del reato presupposto nei confronti della persona fisica autrice, anche se dichiarata nello stesso processo in cui è imputato l’ente, non fa venir meno la sussistenza della sua eventuale responsabilità (ed è irrilevante che vi sia stata anche una pronuncia ex articolo 578 c.p.p. nei confronti della persona fisica. Il differente regime di prescrizione previsto normativamente per l’ente-imputato è stato ritenuto compatibile con i principi costituzionali da Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015).

Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia non risultavano, tuttavia, adeguatamente illustrati, se non con una formula del tutto generica, inidonea a dar conto delle ragioni giustificative dell’esito decisorio, i criteri oggettivi attraverso cui la Corte di merito era pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente.

Al riguardo, la Corte d’Appello si era limitata a riportare, del tutto tautologicamente, l’interesse dell’ente alla posizione apicale di XXX, quale legale rappresentante sia della ditta produttrice dei prodotti con marchio contraffatto – la ditta individuale *** di XXX – sia dell’ente stesso – la ” YYY s.r.l.” – che commercializzava i prodotti contraffatti: da questa identità personale e dall’oggetto delle attività di impresa si è desunto del tutto apoditticamente il vantaggio dell’ente, in ragione del quale si attiva la responsabilità ex L. n. 231 del 2001.

Non erano stati presi in considerazione elementi concreti, indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’illecito in capo all’ente.

La motivazione della sentenza impugnata era del tutto inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità ai sensi della L. n. 231 del 2001.

Come ha di recente chiarito la Sesta Sezione Penale, nella sentenza Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, dep. 2022, l’addebito di responsabilità all’ente non si fonda su un’estensione, piu’ o meno automatica, della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione di un reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo.

L’illecito dell’ente, infatti, pur se inscindibilmente connesso alla realizzazione di un reato da parte di un autore individuale nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia di configurazione giuridica, poiché fondato su presupposti di tipicità normativa differenti, basati su un deficit organizzativo “colpevole” che ha reso possibile la realizzazione di tale reato.

Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello di organizzazione e gestione adottato, il giudice è chiamato ad adottare il criterio epistemico-valutativo della cd. “prognosi postuma”, proprio della imputazione della responsabilità per colpa: deve cioè idealmente collocarsi nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se il “comportamento alternativo lecito”, ossia l’osservanza del modello organizzativo virtuoso, per come esso è stato attuato in concreto, avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di verificazione di illeciti della stessa specie di quello verificatosi, non richiedendosi una valutazione della “compliance” alle regole cautelari di tipo globale.

Il Collegio ha inteso ribadire tale principio di diritto anche nel caso in esame e nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, già descritta poco sopra.

Infatti, sia nell’ipotesi valutata dalla sentenza della Sesta Sezione Penale richiamata, che in quella che occupa lo spazio decisorio del Collegio nel presente processo, il giudice di merito, oltre a non aver individuato gli specifici profili di colpa di organizzazione, non ha, ovviamente, neppure accertato se tale elemento – vale a dire la “colpa in organizzazione” – abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto.

In altre parole, si è inteso aderire a quella che, in dottrina, è stata individuata come una nuova frontiera ermeneutica in relazione all’illecito degli enti, e cioè la tesi che ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo, forse per la prima volta chiaramente espressa dalla decisione citata n. 23401 del 2022.

In tale prospettiva interpretativa, l’accertamento della responsabilità dell’ente deve passare attraverso la verifica della sussistenza di specifici nessi, di ordine naturalistico e normativo, che intercorrono tra la carenza organizzativa e il fatto-reato, sicché il reato presupposto deve essere messo in collegamento con la carenza di auto-organizzazione preventiva, che costituisce la vera e propria condotta stigmatizzabile dell’ente.

Ed è evidente, quindi, che il giudice di merito dovrà dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, di aver valutato il suo deficit di auto-organizzazione, vale a dire la carenza di quel complesso delle regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, che trovano la loro sede naturale nei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo”, delineati, su un piano generale di contenuti, dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 6 e 7.

La dottrina ha favorevolmente accolto questa nuova e piu’ consapevole prospettiva di accertamento, che, invero, era già presente, in nuce, nella sentenza Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014 (per quanto sviluppata su di un illecito presupposto di tipo colposo), sottolineando come non sia consentito al giudice di merito neppure un vaglio sull’adeguatezza del modello condotto solo “in generale”, ma sia necessaria una verifica in concreto; né è possibile giungere a sanzionare l’ente in ragione di una “cultura d’impresa deviante”, ovvero mediante un criterio sillogistico semplificatorio secondo cui la commissione del reato equivale a dimostrare l’inidoneità dell’assetto organizzativo.

Invece, il giudice di merito, deve verificare se il reato della persona fisica sia la concretizzazione del rischio che la regola cautelare organizzativa violata mirava ad evitare o, quantomeno, tendeva a rendere minimo; ovvero deve accertare che, se il modello “idoneo” fosse stato rispettato, l’evento non si sarebbe verificato. Seguendo tale linea interpretativa, ispirata alla valorizzazione dei principi costituzionali riferiti alla materia penale nel sistema della “231”, la responsabilità dell’ente deriva dalla valutazione sulla bontà del modello organizzativo di prevenzione degli illeciti di cui si è dotato: l’ente che si dota di modelli organizzativi idonei e tendenzialmente efficaci potrebbe, pertanto, andare esente da responsabilità ex D.Lgs. n. 231 del 2001, pur se un reato presupposto sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, con prevedibile effetto virtuoso anche rispetto all’incentivazione dell’adozione di modelli di compliance aziendale. Ovviamente, l’ente che non si sia dotato affatto di siffatti modelli organizzativi risponderà verosimilmente del reato presupposto commesso dal suo rappresentante, se compiuto a suo vantaggio o nel suo interesse.

Nel caso di specie, si rendeva necessario colmare la carenza motivazionale relativa sia alla verifica della sussistenza di un modello di compliance ed alla sua adeguatezza ed idoneità a prevenire il reato presupposto, sia alla sussistenza del vantaggio o interesse dell’ente, solo acriticamente evocato dalla sentenza impugnata, nonostante, come ha sottolineato la società ricorrente, questi vadano accertati in concreto.

Il Collegio ha rammentato, peraltro, come i due criteri di imputazione oggettiva dettati dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 5 siano alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile “ex ante“, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile “ex post“, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.

Nessuna distinzione al riguardo si legge in sentenza: la motivazione del provvedimento impugnato si è limitata ad abbinare l’interesse della società all’interesse proprio della persona fisica, legale rappresentante di entrambe le aziende legate alla produzione e commercializzazione dei prodotti contraffatti, senza prendere neppure in esame il fatturato complessivo dell’ente rispetto agli introiti derivanti dalla commercializzazione dei prodotti in sequestro, che, pur se non configurabile come parametro decisivo ai fini di ritenere o meno sussistente la responsabilità ex L. 231, può comunque costituire uno degli indicatori valutabili al riguardo (in questo, anche, colgono nel segno le sollecitazioni difensive).

La sentenza impugnata, pertanto, veniva annullata nei confronti dell’ente.

Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza n. 21640 del 19 maggio 2023

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