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Codice Civile
Codice Penale

Proprietario del fondo dominante, inspectio e prospectio

Proprietario del fondo dominante, innalzamenti del livello del proprio immobile, realizzazione sul muro di divisione di più finestre

Pubblicato il 20 June 2022 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D’APPELLO DI NAPOLI
SESTA SEZIONE CIVILE

La Corte d’Appello di Napoli, sezione sesta civile, nelle persone dei seguenti magistrati:

la seguente

SENTENZA n. 2680/2022 pubblicata il 13/06/2022

nella causa civile di II Grado iscritta al n. r.g. 430/2017, vertente tra

XXX (CF)

appellante/appellato incidentale

e

YYY (CF)

appellato/appellante incidentale

CONCLUSIONI

Per l’appellante: come da note di trattazione scritta; Per l’appellato: come da note di trattazione scritta.

RAGIONI DI FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Premessa sistematica
L’attrice, con l’atto di citazione, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli l’Ing. YYY, esponendo di essere proprietaria di un appartamento sito in Napoli, e di aver venduto all’Ing. YYY una porzione del predetto appartamento, con atto per notar del 23 settembre 1992.

All’art. 1, ultima parte, del contratto, è previsto l’obbligo dell’acquirente di trasformare, a sua cura e spese, in luce ingrediente, l’apertura indicata nella planimetria allegata.

Parte convenuta tardava ad eseguire l’obbligo contrattualmente assunto.

Successivamente all’acquisto della porzione di immobile, YYY, tra il 1993 ed il 1994, nell’esecuzione dei relativi lavori di ristrutturazione, ha allargato significativamente la superficie del balcone verso il mare – che è ubicato in posizione sopraelevata e lateralmente prospiciente l’ampia terrazza di pertinenza dell’immobile di proprietà della sig.ra XXX – trasformandolo in vero e proprio terrazzino a livello a pianta quadrata/trapezoidale mediante spostamento in avanti della ringhiera ed occupazione di porzione di immobile mai prima di allora oggetto di calpestio. Esperiti tentativi per risolvere bonariamente la lite, parte attrice agiva in giudizio chiedendo:

1) accertare e dichiarare l’inadempimento dell’ing. YYY all’obbligazione di cui all’art. 1, ult. parte, del contratto di compravendita per notar del 23 settembre 1992; per l’effetto, condannarlo a trasformare, a sua cura e spese, in luce ingrediente l’apertura indicata nella planimetria allegata sotto la lettera A (doc.2), dotandola delle caratteristiche di cui all’art. 901 c.c.;

2) accertare e dichiarare che l’aumento della superficie del balcone verso il mare dell’appartamento di proprietà dell’ing. YYY, realizzata mediante spostamento in avanti della ringhiera ed occupazione di porzione di immobile mai prima di allora oggetto di calpestio, costituisce un’innovazione vietata dall’art. 1067, comma 1, c.c., rendendo più gravosa la conduzione del sottostante fondo servente di proprietà della sig.ra XXX, per le ragioni meglio argomentate nel corpo del presente atto; per l’effetto, condannare l’ing. YYY al ripristino dell’estensione che il predetto balcone aveva al momento dell’acquisto e sino alla successiva denunciata e vietata innovazione, come risultante dai rilievi fotografici prodotti…”.

Si costituiva in giudizio l’Ing. YYY, contestando l’avverso dedotto ed eccependo la prescrizione dell’azione sub 1) delle conclusioni della citazione e, comunque, la sua infondatezza, affermando di aver ottemperato a quanto richiesto.

Parte convenuta deduceva altresì che le opere di ampliamento del terrazzo non avevano comportato alcun aggravio della servitù di veduta.

Gualtiero YYY proponeva domanda riconvenzionale, deducendo la violazione dell’art. 833 c.c., per effetto dell’installazione di reticolato e di piante atte ad impedire/limitare la veduta panoramica esistente.

Il Sig. YYY, quindi, oltre al rigetto delle domande attrici, chiedeva: “accogliere la domanda riconvenzionale spiegata dalla parte convenuta e per l’effetto condannare l’attrice al risarcimento dei danni, da quantificarsi in corso del giudizio, in favore dell’ing. YYY nonché condannarla alla eliminazione delle situazioni che arrecano nocumento/molestia ex art. 833 c.c.; 4) in subordine, laddove il Giudice ritenesse configurabile una violazione dell’art. 1067 c.c. disporre gli accorgimenti necessari a limitare la prospectio e l’inspectio…”.

Nel corso del giudizio veniva svolto approfondimento istruttorio, anche tecnico, ed il Tribunale, con la sentenza impugnata, ha così disposto:

“1) condanna il convenuto ad eseguire le opere necessarie al fine di adeguare l’apertura identificata con la lettera A nella planimetria allegata all’atto di compravendita alle prescrizioni di cui all’art. 901 c.c., come meglio descritto in parte motiva;

2) condanna l’attrice a posizionare le cinque piante presenti sul terrazzo di sua proprietà ad una distanza di tre metri dalla parete della proprietà del convenuto con la contestuale riduzione della loro altezza a due metri, come meglio descritto nella parte motiva…”.

Il Tribunale ha anche disposto la compensazione delle spese.

XXX ha proposto appello, deducendo:

1) la non correttezza del rigetto della domanda di accertamento della violazione dell’art. 1067 cc e l’erroneità delle conclusioni a cui è giunto il CTU nominato in primo grado (primi due motivi);

2) la non correttezza della decisione di accogliere, seppure in parte, la domanda riconvenzionale, ex art. 833 cc, nella parte in cui, appunto, il Tribunale ha condannato parte attrice a posizionare le cinque piante presenti sul terrazzo di sua proprietà a distanza di tre metri dalla parete della proprietà del convenuto con la contestuale riduzione della loro altezza a due metri (terzo motivo).

Si è costituito YYY, chiedendo il rigetto dell’appello principale e proponendo appello incidentale nella parte in cui il Tribunale:

1) aveva rigettato la domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ritenendola inammissibile, in quanto tardiva;

2) non aveva condannato l’attrice anche alla rimozione del reticolato apposto alla ringhiera del terrazzino di sua proprietà, pur avendo ritenuto, tale attività, rientrante nel novero degli atti emulativi; non aveva condannato l’attrice al risarcimento dei danni.

2. L’appello principale
2.1 La prospettata violazione dell’art. 1067 c.c.

Il primo comma dell’art. 1067 c.c. stabilisce che “il proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente”.

Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, in tema di servitù prediali, costituiscono innovazioni vietate ai sensi dell’art. 1067 c.c. quelle che rendono più gravosa la condizione del fondo servente (cfr. Cass. civ. Sez. II Sent., 20/04/2018, n. 9877). Si è ancora ad esempio sostenuto che la copertura della terrazza da cui si esercita la servitù di veduta non costituisce aggravamento della servitù medesima ai sensi dell’art. 1067 c.c., giacché la copertura, pur potendo consentire un uso più intenso ed assiduo del diritto, non ne amplia il contenuto essenziale, lasciando inalterati i limiti della “inspectio” e della “prospectio” sul fondo vicino (Cass. civ. Sez. II Sent., 30/06/2016, n. 13444).

Ebbene, nella specie, il CTU nominato nel corso del giudizio di primo grado, pur dando atto dello spostamento in avanti della ringhiera, ha scritto: “tenuto conto che l’altezza della ringhiera è regolamentare e pari a 1.00 m, certamente lo spostamento di essa in avanti, vista la particolare conformazione del terrazzo che ci occupa (munito di cordolo perimetrale largo 0.45 m che mantiene distante dalla ringhiera il busto di un generico osservatore di una distanza maggiore dei citati 0.45 m per tenere conto anche della lunghezza di un piede medio), non rappresenta un aggravio della servitù di veduta nei confronti dell’immobile di proprietà XXX atteso che la inspectio e la prospectio è pressoché la stessa” (cfr. pagine 8 e 9 della prima relazione di CTU).

Con relazione integrativa ha scritto: “l’avanzamento della ringhiera YYY verso il mare provoca non sul terrazzo, ma verso la parete dell’appartamento XXX un lieve incremento del cono di veduta…”, aggiungendo che “il terrazzo YYY è dotato di una ringhiera di altezza pari a 1 m e da un cordolo perimetrale di larghezza pari a 0.45 m ed altezza di 0.40 m. Tenuto conto che la lunghezza di un piede medio è di circa 25-30 cm… il generico osservatore a busto verticale dista dalla ringhiera circa 65-70 cm. Ciò comporta dover inclinare il busto rispetto alla verticale per appoggiarsi alla ringhiera che rende l’affaccio non agevole, non comodo.

L’unica possibilità per renderlo tale è di salire sul cordolo. Pertanto si conferma quanto già evidenziato nel primo elaborato peritale”.

In quest’ultimo caso, però, l’osservatore si posizionerebbe in una posizione non consona e comunque non sicura.

Ebbene, in tema di servitù, l’aggravamento dell’esercizio, in dipendenza della trasformazione operata sul fondo dominante, va verificato accertando se l’innovazione abbia alterato l’originario rapporto con il fondo servente e se il sacrificio imposto sia maggiore rispetto a quello originariamente previsto, dovendosi valutare l’opera non in sé stessa, ma anche con riferimento alle implicazioni che ne derivino a carico del fondo servente, assumendo rilevanza non soltanto i pregiudizi attuali, ma anche quelli potenziali, connessi e prevedibili, in considerazione dell’intensificazione dell’onere gravante sul fondo anzidetto. Ne consegue che incorre nel divieto di cui all’art. 1067 cod. civ. il proprietario del fondo dominante che effettui innalzamenti del livello del proprio immobile e determini – mediante realizzazione sul muro di divisione di più finestre poste su differenti livelli – una più facile, intensa e continua “inspectio” e “prospectio” sul fondo servente, tale da modificare lo stato dei luoghi, facendone assumere una diversa configurazione e funzione (Cass. civ. Sez. II Sent., 08/07/2014, n. 15538).

E va altresì aggiunto, anche a volere immaginare la possibilità di salire sul cordolo, che l’inadeguatezza della ringhiera a consentire un comodo esercizio di veduta appare dalla relativa altezza di appena 100 cm (cfr. pag. 7 della relazione di CTU) per cui, tenendo conto dell’altezza e della corporatura media di un uomo, risulta quanto meno incomodo l’atto, non solo di salire sul cordolo ma anche dell’inspicere e del prospicere.

Deve, invero, ritenersi considerazione acquisita che la non comodità deriva non soltanto dalla necessità di avvalersi di supporti strumentali, al fine di consentire l’affaccio e la possibilità di guardare liberamente in avanti, in alto, in basso e lateralmente, ma anche dalla difficoltà intrinseca di far luogo a tale attività, senza assumere posture innaturali, difficoltose o, addirittura, rischiose (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18910 del 05/11/2012 che ha confermato la sentenza di merito, che aveva respinto la richiesta di arretramento del parapetto di un terrazzo risultato essere alto soltanto novanta centimetri, altezza corrispondente a quella non del “petto” ma del “basso ventre” di una persona di ordinaria statura e, quindi, insufficiente per garantire un affaccio sicuro; si veda anche Cass. 9994/2017 con la quale, ad esempio, si è sostenuto che ai fini della non configurabilità della veduta esperienza comune che un uomo, anche di bassa statura, per affacciarsi da una apertura posta a 110 cm dal suolo deve prendere una posizione platealmente e scomodamente curva, che se può consentirgli una qualche visione diretta, tuttavia, rende la rotazione del capo e l’affaccio palesemente inusuali e scomodi).

Già tali considerazioni si reputano dirimenti, stante quanto scritto dal Tecnico in ordine, al più, ad un lieve incremento del cono di veduta… verso la parete dell’appartamento XXX, veduta, peraltro, in sostanza, già esistente (uscendo nel terrazzo e guardando verso sinistra), per come desumibile dal confronto tra le foto prodotte da parte attrice.

Non occorre pertanto affrontare la questione della correttezza o meno della valutazione del Giudice di prime cure, in ordine alle previsioni contenute nel contratto di compravendita del 23/09/1992 ed alla planimetria allegata con la lettera “A”.

Va altresì chiarito che è la stessa parte attrice ad avere configurato l’esistenza di servitù, prospettandone l’aggravamento, ed appare condivisibile il richiamo all’istituto previsto dall’art. 1062 cc.

La norma dispone infatti che “la destinazione del padre di famiglia ha luogo quando consta, mediante qualunque genere di prova, che due fondi, attualmente divisi, sono stati posseduti dallo stesso proprietario, e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù.

Se i due fondi cessarono di appartenere allo stesso proprietario, senza alcuna disposizione relativa alla servitù, questa si intende stabilita attivamente e passivamente a favore e sopra ciascuno dei fondi separati”.

Dunque, affinché possa configurarsi un acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia è necessaria la contemporanea sussistenza dei seguenti requisiti: a) l’esistenza di due fondi attualmente divisi ed un tempo posseduti dallo stesso proprietario; b) la presenza di cose poste o lasciate dal proprietario in uno stato dal quale risulta la servitù; c) la separazione tra i due fondi; d) l’assenza di una disposizione (contraria) relativa alla servitù.

E’ in primo luogo necessario che esistano due fondi attualmente divisi.

Il requisito nella specie sussiste ed è incontestata l’appartenenza dei due immobili a distinti proprietari.

Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia ha luogo anche se la relazione di asservimento esista tra due porzioni dello stesso immobile – non soltanto tra due fondi – allorché queste cessino di appartenere allo stesso proprietario, sempre che venga accertata la sussistenza di elementi che denotino l’esistenza, al momento della separazione delle porzioni del fondo, di uno stato di fatto – posto in essere dall’unico proprietario – di asservimento dell’una rispetto all’altra, e cioè l’esistenza di opere visibili e permanenti, destinate all’esercizio della servitù su una porzione del fondo ed a vantaggio dell’altra successivamente separata dalla prima (Cass. civ., Sez. II, 27/12/1988, n. 7068).

E’ inoltre necessario che i fondi siano appartenuti in precedenza al medesimo proprietario (tanto si desume dal citato atto di compravendita).

La locuzione “e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù”, rende avvertiti come la norma richieda la presenza di opere visibili e permanenti.

Il requisito dell’apparenza della servitù, necessario ai fini del relativo acquisto per usucapione o per destinazione del padre di famiglia (art. 1061 cod. civ.), si configura come presenza di segni visibili di opere permanenti obiettivamente destinate al suo esercizio e rivelanti in modo non equivoco l’esistenza del peso gravante sul fondo servente, in modo da rendere manifesto che non si tratta di attività compiuta in via precaria, bensì di preciso onere a carattere stabile (cfr. Cass. civ., Sez. II, 31/05/2010, n. 13238; Cass. civ., Sez. II, 11/07/2011, n. 15201).

Ancora: “Il requisito dell’apparenza, senza del quale, ai sensi dell’art. 1061 c.c. la servitù non può essere usucapita né acquistata per destinazione del padre di famiglia, deve essere legato ad una situazione oggettiva di fatto di per sé rivelatrice dell’assoggettamento di un fondo ad un altro per la presenza di opere inequivocamente destinate all’esercizio della servitù e deve conseguentemente dipendere dalle oggettive caratteristiche dell’opera e non dal modo in cui questa è stata utilizzata. (Cass. civ. Sez. II, 17/02/2004, n. 2994).

Nondimeno, non occorre che la situazione oggettiva di subordinazione o di servizio tra i due fondi derivi da opere complete e munite di tutti gli attributi ad esse inerenti, essendo, invece, sufficiente che esistano segni visibili, precisi ed inconfondibili, che valgano a rilevare, obiettivamente ed in modo non equivoco, la destinazione dell’opera all’esercizio della servitù (cfr. Cass. civ. Sez. VI – 2, 10/04/2020, n. 7783).

Nella specie, l’esistenza di terrazzo e di ringhiera, rende manifesta sia la visibilità, sia la permanenza della servitù, che l’assoggettamento dell’immobile di parte attrice in primo grado a quello di parte convenuta.

Affinché la servitù possa essere acquistata per destinazione del padre di famiglia occorre che i fondi cessino di appartenere al medesimo proprietario (o medesimi proprietari).

Anche tale requisito si reputa documentato attraverso la produzione dell’atto di trasferimento del 23.9.1992.

Secondo i Giudici di legittimità, la “disposizione relativa alla servitù” la quale, ai sensi dell’art. 1062, secondo comma, cod. civ. impedisce lo stabilirsi della servitù nonostante lo stato di fatto preesistente, non è desumibile da “facta concludentia“, ma deve rinvenirsi o in una clausola in cui si conviene espressamente di volere escludere il sorgere della servitù corrispondente alla situazione di fatto esistente tra i due fondi e determinata dal comportamento del comune proprietario, o in una qualsiasi clausola il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra e immutata la situazione di fatto che, in forza della legge, determinerebbe il sorgere della corrispondente servitù, convertendosi in una situazione di diritto o in una regolamentazione negoziale da cui si desume che le parti abbiano voluto costituire la servitù (che in tal modo nasce in base a titolo e non per destinazione del padre di famiglia) (Cass. civ., Sez. II, 20/06/2011, n. 13534).

Nella specie, nell’atto di trasferimento non si rinvengono specifiche ed univoche disposizioni in tal senso.

Va infine chiarito che, ferma la stessa prospettazione di parte attrice dell’esistenza di una servitù di veduta, nonché, comunque, la natura etero-determinata del diritto in questione, la deduzione di parte convenuta contenuta nella memoria ex art. 183 c.p.c. (il diritto di servitù di veduta dell’Ing. YYY attiene all’intera area del terrazzo e non solo ad una parte di esso”) richiamata nell’appello, si reputa pienamente ammissibile, trattandosi, peraltro, di mera difesa.

Il primo motivo di appello va quindi rigettato.

Non occorre esaminare alcuna altra questione prospettata e/o prospettabile, stante il principio della ragione più liquida (cfr. Cassazione civile sez. VI, 28/05/2014, n. 12002; Cass. civ. Sez. Unite, 08-05-2014, n. 9936).

2.2 L’accoglimento parziale della domanda riconvenzionale in tema di atti emulativi.

La risoluzione del presente motivo condiziona inevitabilmente anche la definizione dell’appello incidentale.

E’ noto che per aversi atto emulativo, vietato ai sensi dell’art. 833 c.c., è necessario che l’atto di esercizio del diritto sia privo di utilità per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri (cfr. Cass. civ. Sez. II, 03/04/1999, n. 3275).

Ciò posto, va chiarito che parte appellante incidentale, nel proporre domanda riconvenzionale con la comparsa di risposta nel giudizio di primo grado, si reputa abbia fondato la propria pretesa sulla violazione dell’art. 833 c.c., per cui a tale norma la Corte farà riferimento.

Tanto si desume dalla valutazione complessiva ed organica delle pagine 4 e 5 della comparsa di risposta (ad esempio, a pag. 4 della comparsa di risposta si legge: “occorre precisare che l’ing. YYY ha subito un danno dagli atti emulativi posti in essere dalla signora XXX al terrazzo di sua proprietà. L’attrice, infatti, non solo ha fatto apporre un reticolato in aderenza alla ringhiera del terrazzo di proprietà del convenuto, facendovi crescere una rigogliosa e fitta vegetazione rampicante ma ha, inoltre, collocato una serie di piante con fusto alto e foglia larga (tipo ficus maxrophilla) proprio davanti al predetto terrazzo allo scopo esclusivo di impedirne/limitarne la veduta panoramica. Tali comportamenti sono chiara manifestazione dell’animus nocendi che caratterizza gli atti emulativi vietati dall’art. 833 cc … …appare opportuno sottolineare che la Suprema Corte ha ritento configurabile il carattere emulativo di una piantagione che, seppure eseguita nel rispetto delle distanze legali, non avesse alcuna apprezzabile utilitas concreta per il proprietario, ma fosse stata posta in essere con l’unico scopo di togliere la veduta panoramica alla proprietà confinante. Alla luce di quanto esposto l’Ing. YYY ha diritto sia al risarcimento dei danni, da determinarsi nel corso del giudizio, patiti in conseguenza dell’illiceità degli atti posti in essere della signora XXX in dispregio della normativa contenuta nell’articolo 833 c.c., sia l’eliminazione di tutte le situazioni che arrecano nocumento/molestia all’Ing. YYY”.

Nella specie, in primo luogo, si reputa condivisibile la deduzione dell’appellante in ordine all’accertamento ultra-petita, contenuto nella sentenza, tenuto conto di quanto riportato nella comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale, quantomeno con riguardo alle luci [cfr. pag. 10 della sentenza: dalla relazione di consulenza d’ufficio è risultato come le cinque piante poste sul terrazzo XXX rappresentino una forte limitazione per la luminosità e l’aerazione della proprietà YYY, non solo per l’eccessiva altezza delle stesse, addirittura mt. 3,50, ma anche per la dimensione dei vasi di resina (0.70×0.70×0.60mt), posti ad una distanza di circa 0.80 mt dalla proprietà YYY, che occludono quasi completamente le aperture lucifere del YYY, riducendo aria e luce al piano terra dell’unità immobiliare (foto numero dieci e dodici allegate alla relazione)].

Ma in ogni caso, e contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice di prime cure, si opina che l’istante in riconvenzionale, nel giudizio di primo grado, non abbia fornito, certa e tranquillizzante, la sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla norma.

Ed infatti, perché si abbia un atto emulativo sono richiesti tre elementi: a) il primo – di carattere oggettivo – costituito dall’effettivo danno o molestia (o pericolo) per il vicino:

b) il secondo – sempre di carattere oggettivo – rappresentato dall’assenza di utilità per il proprietario; c) il terzo – soggettivo – ravvisabile nell’animus aemulandi o nocendi, inteso come intenzione esclusivamente rivolta a nuocere al vicino.

Ebbene, non può davvero ritenersi provata la mancanza di utilitas derivante dalla installazione di piante all’interno di un terrazzo, stante la funzione ornamentale che le stesse, inevitabilmente, assumono, oltre a garantire, peraltro, adeguata riservatezza, seppure limitatamente alla posizione del solo YYY (atteso che il CTU, nella relazione di chiarimenti, ha evidenziato l’esistenza di altri immobili posti ai piani superiori). Si è ad esempio affermato che non costituisce atto emulativo, vietato ai sensi dell’art. 833 cod. civ., la sostituzione di una siepe con un muro in cemento, volto a precludere ai vicini l'”inspectio” nel proprio fondo, in quanto, rimanendo la funzione del manufatto identica a quella della siepe, tale sostituzione non può dirsi manifestamente priva di utilità. Invero, ponendosi il carattere emulativo come limite esterno al diritto di proprietà esercitabile dal confinante, lo stesso deve essere valutato in termini restrittivi, con la conseguenza che, se pure la nuova opera possa non rispondere completamente a quei requisiti funzionali che ne avevano giustificato la creazione, tuttavia l’obiettiva idoneità a soddisfarli in gran parte consente di escludere la ravvisabilità dell’atto emulativo (Cass. civ. Sez. II Sent., 07/03/2012, n. 3598).

Inoltre, spettava a parte attrice, in applicazione del principio che si esprime nel noto brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit consacrato nell’art. 2697 c.c., fornire prova univoca del contrario e dunque del secondo presupposto (mancanza di utilità). Anche il terzo presupposto, di conseguenza, si reputa sia rimasto sfornito di sufficiente riscontro probatorio.

L’atto emulativo vietato ex art. 833 c.c. presuppone lo scopo esclusivo di nuocere o di recare pregiudizio ad altri, in assenza di una qualsiasi utilità per il proprietario, sicché non è riconducibile a tale categoria un atto comunque rispondente ad un interesse del proprietario, né potendo il giudice compiere una valutazione comparativa discrezionale fra gli interessi in gioco o formulare un giudizio di meritevolezza e prevalenza fra gli stessi (Cass. civ., II, 22.01.2016, n. 1209).

Alla luce di quanto fin qui detto, il secondo motivo di appello principale va accolto e va pertanto rigettata la domanda avanzata in primo grado da YYY, fondata sulla violazione dell’art. 833 c.c..

Anche in questo caso va richiamato il principio della ragione più liquida (cfr. Cassazione civile sez. VI, 28/05/2014, n. 12002; Cass. civ. Sez. Unite, 08-05-2014, n. 9936, cit.; non occorre ad esempio, esaminare le dichiarazioni testimoniali sullo specifico punto, od ancora l’eccezione riproposta inerente a pregresso giudizio; cfr. anche subito infra).

3. L’appello incidentale

Vale qui richiamare integralmente quanto scritto al punto 2) della presente pronuncia, in ordine al rigetto della domanda di YYY ex art. 833 c.c.

Dunque l’accoglimento dell’appello principale con il quale è stata ritenuta non sufficiente la prova della ricorrenza degli atti emulativi, con conseguente esclusione della loro natura così come prospettata da parte appellante incidentale, comporta, quale logica conseguenza, il rigetto dell’appello incidentale inerente alla mancata condanna alla rimozione del reticolato, nonché al mancato riconoscimento del risarcimento del danno.

Sempre in base al più volte citato principio della ragione più liquida, non occorre valutare se la richiesta risarcitoria fosse o meno tardiva, anche se, per doverosa completezza, un richiamo (seppure timido) a richieste risarcitorie, è contenuto a pag. 5 della comparsa di risposta con domanda riconvenzionale.

Analoghe considerazioni vanno fatte riguardo all’affermazione contenuta a pag. 33 della comparsa conclusionale di parte appellante principale in ordine a pregresso giudizio (la sig.ra XXX, ribadito quanto dedotto in sede di I udienza del 29.5.2007 circa l’inammissibilità della domanda in parte qua, “formando essa oggetto di altro giudizio civile pendente dinanzi alla II sez. civ. di codesto tribunale G.U. Sica” (v. doc. 10 fascicolo di parte attrice), rappresenta che il predetto reticolato con piante rampicanti, che garantiva una migliore estetica della terrazza XXX, la privacy del terrazzino YYY e che, per il suo posizionamento alle gambe di un osservatore, non ne poteva lederne l’asserita panoramicità e, dunque, correttamente non considerato atto emulativo dal tribunale, è stato peraltro rimosso, in esecuzione delle risultanze del citato giudizio in fase di appello).

4. Le spese

Il giudice di appello, allorché riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio ad una nuova regolamentazione delle intere spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, poiché l’onere delle stesse deve essere attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della controversia (Cass. civ., Sez. III, 04/06/2007, n. 12963).

Le spese seguono dunque la soccombenza del doppio grado di giudizio; nondimeno l’accoglimento solo parziale e dunque la parziale soccombenza reciproca, inducono la Corte a dichiararle compensate per la metà; la restante metà si liquida in dispositivo. Trova applicazione il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247.

Le spese di CTU vanno poste a carico delle parti, in ragione dell’accertamento in essa contenuto per ciò che concerne il terrazzo.

Ai sensi di quanto previsto dall’art. 1-quater dell’art. 13 del DPR 30.5.2002, n. 115, così come inserito dall’ art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228 ed applicabile, ai sensi del successivo art. 18, dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge, “quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

Per l’appellante incidentale, dunque, sussistono i presupposti di applicazione della norma.

P.Q.M.

La Corte d’appello di Napoli, definitivamente decidendo, sull’appello proposto avverso la sentenza impugnata n. 649/2016, emessa in data 19.1.2016 dal Tribunale di Napoli, nel procedimento n. 430/2007, ogni contraria istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

• accoglie per quanto di ragione e nei limiti indicati parte motiva l’appello principale e – per l’effetto – rigetta la domanda riconvenzionale ex art. 833 cc avanzata da YYY;

• rigetta, per il resto, l’appello principale;

• rigetta l’appello incidentale;

• dichiara compensate per metà le spese del giudizio e, per l’effetto condanna YYY al pagamento della metà di quelle sostenute da XXX; metà che liquida: a) per il primo grado, in euro 348,00 per spese ed euro 3.357,5 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario nella misura del 15 % sui compensi, IVA e cpa come per legge; b) per il secondo grado, in euro 804,00 per spese ed euro 3.408,75 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario nella misura del 15 % sui compensi, IVA e cpa come per legge;

• pone a carico delle parti le spese occorse per la stesura della relazione di Consulenza tecnica d’ufficio;

• dà atto della sussistenza dei presupposti per ritenere YYY tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

Così deciso, in Napoli, in data 10.6.2022. Il Consigliere estensore dott.

Il Presidente

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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