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Licenziamento per ritorsione, ingiusta e arbitraria reazione

Licenziamento per ritorsione, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata.

Pubblicato il 21 August 2018 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI SULMONA

In funzione del Giudice del Lavoro, in persona della dott.ssa, all’udienza del 16 aprile 2018 nella causa di lavoro in primo grado iscritta al n. R.G.A.C.L., vertente

TRA

XXX, elettivamente domiciliata in Pescara presso lo studio degli avv., giusta procura in calce al ricorso

RICORRENTE

E

YYY, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Castel di Sangro presso lo studio dell’avv. che la rappresenta e difende in forza di procura in calce alla memoria difensiva

RESISTENTE

Definitivamente pronunciando, ogni ulteriore istanza, domanda ed eccezione disattesa o assorbita, ha emesso, mediante lettura, la seguente

SENTENZA n. 42/2018 pubblicata il 20/08/2018

  • Dichiara illegittimo il licenziamento intimato a XXX in data 15.10.2015 e condanna YYY, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, a riassumere la ricorrente entro tre giorni dalla notifica del dispositivo della presente sentenza o, in alternativa, a corrispondere in suo favore, a titolo di risarcimento del danno, un’indennità in misura pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), oltre interessi legali sino al saldo;
  • Condanna YYY, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, a rinfondere, in favore della ricorrente delle spese di giudizio, liquidate in euro 2.000 per competenze professionali, oltre alle spese generali al 15%, CPA ed IVA come per legge. – Rigetta ogni diversa domanda; – Motivi in 60 gg.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 19 aprile 2016, la ricorrente la sig.ra XXX, dopo aver premesso che: – ha lavorato alle dipendenze della YYY, con qualifica di educatrice, livello D2 CCNL YYY presso il Centro **** di Castel di Sangro, dapprima, dal 2009 sino al 2013, in virtù di una successione di contratti a tempo determinato, di poi, in forza di accordo raggiunto tra le parti in sede giudiziale, è stata assunta, con decorrenza dal 8.09.2014, con contratto a tempo indeterminato part-time a 20 ore settimanali per quattro giorni a settimana sino al 6.07.2015 e poi per cinque giorni a settimana; – fin dalla prima riunione del Consiglio Direttivo tenutasi successivamente alla sua assunzione a tempo indeterminato, l’ente associativo, nelle persone della Presidente e della Vice Presidente, ha assunto un contegno poco collaborativo con la medesima sia dal punto di vista professionale, vedendosi sistematicamente rigettate proposte ed iniziative dalla medesima promosse, sia sotto il profilo dei rapporti interpersonali attraverso la perpetrazione di un atteggiamento ostile nei suoi ; – nel corso del 2014 è stata destinataria di quattro contestazioni disciplinari per ritenute assenze dal servizio e per mancanze rispetto ai compiti alla stessa affidati i cui relativi procedimenti sono statti archiviati a seguito dello svolgimento delle proprie difese; con comunicazione, notificatale il 16.10.2015, l’Associazione le notificava richiesta di chiarimenti “…per aver convocato, incontrato e parlato direttamente con il papà di ***, persona con disabilità che si trovava al momento temporaneamente nel Centro diurno … senza esplicita delega ma addirittura all’insaputa del Consiglio Direttivo; – con nota del 21.10.2015, la ricorrente per il tramite del proprio legame, ha contestato gli addebiti alla stessa mossi “in maniera esaustiva ed argomentata”; – con raccomandata del 13.11.2015 l’YYY le ha intimato il licenziamento per giusta causa “… non ritenendo che siano emerse ragioni capaci di far diminuire la gravità dell’addebito, avendo anzi dimostrato ancora una volta come sia impossibile, nonostante i nostri vari tentativi, (vedasi proprio le note citate dal suo legale), ripristinare l’ormai del tutto inesistente rapporto di fiducia che deve necessariamente intercorrere tra datore di lavoro e dipendente. …”; – con lettera del 17.11.20015 ha impugnato, in via stragiudiziale, il licenziamento e con ricorso ex art. 700 c.p.c. adiva l’intestato Tribunale chiedendo la reintegra nel posto di lavoro; domanda che veniva rigettata per difetto del periculum in mora; ciò posto, ha convenuto in giudizio dinanzi all’intestato Tribunale, la YYY, per ivi sentir: – accertato e dichiarato il licenziamento intimato “discriminatorio, ritorsivo, nullo inefficace ed illegittimo”, ordinare la reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro, con risarcimento nella misura pari delle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro dalla data del licenziamento all’effettivo ripristino del rapporto di lavoro, nonché un risarcimento del danno morale e alla reputazione pari ad €.20.000,00; – in via subordinata, accertata la mancanza di giusta causa di licenziamento e, quindi, la sua illegittimità ed inefficacia, ordinare la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, con risarcimento nella misura pari alle retribuzioni percepite in costanza di rapporto di lavoro dalla data del licenziamento all’effettivo ripristino del rapporto di lavoro nonché con un risarcimento del danno morale e alla reputazione pari ad €.20.000,00; – in ulteriore subordine, dichiarata l’illegittimità del licenziamento, condannare l’YYY al pagamento di una indennità tra un minimo di 2,5 a un massimo di sei mensilità, nonché con un risarcimento del danno morale ed alla reputazione professionale pari ad €.20.000,00.

A sostegno delle proprie pretese, la ricorrente ha dedotto: – la nullità del licenziamento per violazione della procedura prevista a garanzia delle sanzioni disciplinari sotto il profilo della genericità e della lacunosità della comunicazione datoriale, in particolare, in ordine alla precipua motivazione integrante la giusta causa; – la nullità del licenziamento perché avente carattere discriminatorio o ritorsivo, essendo stato intimato come reazione di rappresaglia rispetto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato all’esito dell’iniziativa giudiziaria promossa dalla ricorrente, come risulta dal verbale di assemblea del 9.10.2014; – illegittimità del licenziamento per insussistenza della giusta causa stante la sproporzionalità tra l’addebito contestato e ed il recesso datoriale, sotto il profilo della gravità posti a fondamento dello stesso.

Con memoria difensiva del 18.07.2016, si è costituita in giudizio la YYY contestando ogni avversa pretesa, ribadendo la correttezza della condotta datoriale e chiedendo quindi il rigetto del ricorso.

Acquisita la documentazione versata in atti, espletata la prova per testi, all’odierna udienza la causa è stata discussa e decisa mediante lettura del dispositivo.

Lamenta in primo luogo la ricorrente la nullità del licenziamento intimatole per violazione della procedura prevista a garanzia delle sanzioni disciplinari sotto il profilo della genericità e della lacunosità della comunicazione datoriale, in particolare, in ordine alla precipua motivazione integrante la giusta causa.

Detta doglianza è infondata.

Costituisce principio pacifico che in tema di lavoro subordinato e licenziamento, quando lo stesso sia stato irrogato espressamente per giusta causa e per fatti considerati quali gravi inadempienze, il licenziamento ha una valenza chiaramente disciplinare e, come tale, deve essere adottato nel rispetto della disciplina procedurale di cui all’art. 7 l. n. 300/70.

Va in proposito rammentato che, a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, la previa contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore la sua immediata difesa. La contestazione disciplinare deve delineare l’addebito così come individuato dal datore di lavoro e tracciare i contorni della condotta ritenuta disciplinarmente rilevante, in modo tale da perimetrare anche l’ambito dell’attività difensiva del lavoratore, salva la successiva verifica da parte del giudice dell’idoneità della condotta contestata a costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di recesso. Devono dunque essere fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella loro materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque violazioni dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.

La contestazione inviata al lavoratore, pur senza essere analitica, deve contenere l’esposizione dei dati e degli aspetti essenziali del fatto materiale posto a base del licenziamento, restando la verifica della sussistenza del requisito anzidetto rimessa al giudice del merito, il cui apprezzamento, se congruamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 20/03/2018, n. 6889)

Orbene, nella fattispecie in esame la contestazione dell’addebito, espressamente richiamata nella lettera di licenziamento, presenta il necessario carattere della specificità, lasciando ben intendere quale sarebbe stata la concreta condotta tenuta dal ricorrente.

In particolare, l’addebito indicato nella missiva di contestazione del 15.10.2015 è il seguente: “In data 16.09.2015 lei ha convocato, incontrato e parlato direttamente con il papà di ***, persona con disabilità che si trovava al momento temporaneamente nel Centro diurno … senza esplicita delega ma addirittura all’insaputa del Consiglio Direttivo. Ciò è avvenuto non solo senza esplicita delega ma addirittura all’insaputa del Consiglio Direttivo …”

Nel caso in esame, pertanto, sia il dato cronologico relativo al verificarsi dei fatti appare esplicitato in modo preciso sia la condotta contestata, che risulta sufficientemente precisata; infatti, la stessa può compiutamente evincersi, nella sua concretezza, dalla locuzione relativa alla mancata Ne consegue che è stata data possibilità alla ricorrente, sulla base del contenuto della lettera pervenutale in data 16.10.2015, di comprendere la condotta contestata e di difendersi compiutamente; circostanza che del resto è avvenuta, come si evince dalle puntali deduzioni difensive fatte pervenire per iscritto all’associazione, tramite il proprio legale, in data 21.10.2015, osservati i termini a difesa stabiliti dall’art.35 co. 2 lett. a) e b) del CCNL di riferimento.

Venendo ora alla disamina della domanda azionata dalla ricorrente in ordine dedotta natura direttamente ritorsiva del licenziamento, occorre premettere in via generale che:

  • il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e, pertanto, accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni ( Lav. n. 17087 del 08/08/2011);
  • In tema di licenziamento disciplinare ove il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale intento abbia avuto un’efficacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altre inadempienze” (sic Cass. Lav. 9 marzo 2011 n. 555; cfr. anche Lav. 14 luglio 2005 n. 14816; cfr. anche Cass. Lav. 5 agosto 2010 n. 18283, 18 marzo 2011 n° 6282, 8 agosto 2011 n° 17087, 27 febbraio 2015 n. 3986 e 3 dicembre 2015 n. 24648).

Nel caso di licenziamento per ritorsione (o rappresaglia), così come dedotto nel caso di specie, è necessario che il lavoratore fornisca idonea prova della sussistenza di un motivo illecito determinante, anche nell’ipotesi in cui risulti la palese illegittimità del recesso datoriale, al fine di verificare la sussistenza di una ingiusta e arbitraria reazione datoriale ad un comportamento legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, tale cioè che il recesso sia stato motivato esclusivamente dalla determinazione ritorsiva.

Ciò premesso, in via preliminare appare opportuno procedere all’interpretazione delle norme della contrattazione collettiva applicabile al caso di specie, ove si consideri che il fatto contestato riguarda la mancata osservanza del divieto

Il problema sotteso alla questione posta in giudizio non è quindi di mero fatto, ma è questione interpretativa delle norme contrattuali.

All’uopo, va osservato che l’art. 34 del CCNL di riferimento, nel prevedere che “sono altresì considerati, nel rispetto negli artt. 2104 e 2105 c.c., obblighi della lavoratrice e del lavoratore – la particolare diligenza richiesta dalla specificità delle mansioni assegnate, dalla natura della prestazione e dalla particolare tipologia dell’utenza e della Struttura Associativa …” stabilisce al comma 5 che “E’ vietato ai dipendenti ritornare nei locali di lavoro ed intrattenersi oltre l’orario di lavoro prescritto, introdurre estranei, salvo che per ragioni autorizzate dall’Amministrazione”.

Orbene, nella fattispecie in esame, l’istruttoria ha confermato che in data 16.09.2015 la ricorrente si è intrattenuta all’interno dei locali del centro ad interloquire con il padre di una delle giovani ragazze che da poco tempo aveva iniziato a frequentare il centro, in attesa che intervenisse la valutazione gestionale ed organizzativa circa l’inserimento definitivo da parte del Consiglio Direttivo.

Risulta inoltre acclarato che, a seguito dell’assunzione a tempo indeterminato, la ricorrente sia stata destinataria di diversi richiami per aver introdotto personale non autorizzato all’interno della struttura ma che nessuno di detti richiami sia sfociato nell’irrogazione di una sanzione disciplinare, avendo l’Associazione, di volta in volta, accolto le deduzioni difensive spiegate dalla ricorrente.

Sicché nel presente giudizio deve rilevarsi come non risultino configurabili, allo stato, elementi univoci per asseverare la sussistenza di un motivo ritorsivo correlato con diretto nesso eziologico al licenziamento, nel senso di ritenere che l’assunzione a tempo indeterminato della ricorrente a partire dal 2014 abbia di fatto avuto un’efficacia determinativa ed esclusiva della determinazione espulsiva.

Va, inoltre, osservato che la prova, sotto il profilo materiale, della sussistenza della condotta posta alla base delle ragioni del licenziamento appare idonea ad escludere che il recesso datoriale sia qualificabile in termini di pretestuosità, non essendo emersa la prova che l’intento di rappresaglia abbia avuto nella formazione della volontà espulsiva un ruolo determinativo ed esclusivo, anche rispetto ad altri fatti rilevanti nella configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. 5555/2011, 6282/2011, 18283/2010, 14816/2005 ed altre).

Dal compendio probatorio in atti è affiorato un contesto lavorativo nell’ambito del quale le vicende che hanno interessato singolarmente la Presidente e la Vice presidente dell’YYY, da un lato, e la ricorrente, dall’altro, si risolvono piuttosto in specifiche contingenze traenti origine da una conflittualità insorta tra le parti in relazione alle modalità di organizzazione e di programmazione delle attività educative all’interno della struttura, trattandosi peraltro di dinamiche lavorative che, in precedenza, avevano caratterizzato negli stessi termini anche i rapporti con altri operatori dell’Associazione. (cfr. testimonianza di ***)

In via generale, è apparso emergere un ambiente di lavoro caratterizzato da una rigida strutturazione gerarchica dei rapporti di dipendenza complessivamente connotati da uno scarso grado di collaborazione verticale nell’organizzazione e nella programmazione delle attività cui l’Associazione è globalmente deputata; circostanza che, in ogni caso, non rileva ai fini della valutazione di legittimità del licenziamento impugnato.

Deve, quindi, essere respinta la domanda fondata sulla natura ritorsiva del licenziamento.

Punto controverso nel presente giudizio resta quindi l’accertamento nel merito della legittimità sostanziale del recesso datoriale, sub specie proporzionalità dell’atto di recesso datoriale rispetto ai fatti posti alla base dello stesso.

La domanda azionata dalla ricorrente sotto il profilo dell’accertamento della illegittimità del licenziamento per insussistenza della giusta causa è fondata, e dunque, deve essere accolta per le seguenti ragioni.

In via generale, si osserva che in riferimento alla giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha chiarito che “la valutazione della giusta causa del licenziamento impone una valutazione parametrata a clausole generali di contenuto elastico ed indeterminato che richiedono, nel momento dell’applicazione giudiziale, di essere integrate e colmate grazie all’intervento dell’interprete mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale, dal costume, dall’ordinamento giuridico o, ancora, dalle regole di specifici ambiti sociali o professionali” (Cassazione civile sez. lav. 10 marzo 2017 n. 6297) e che “la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, tra cui, e in particolare, l’elemento della fiducia. Il giudice deve valutare sia la gravità dei fatti addebitati al lavoratore (dal punto di vista oggettivo e soggettivo), sia la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare” (Cass. civ. sez. lav. 21 febbraio 2017 n. 4453).

Sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto” (v. Cass. n. 444 del 2003, Cass. n. 3994 del 2005, Cass. n. 11430 del 2006, Cass. n. 16864 del 2006, Cass. n. 25743 del 2007, Cass. n. 6848 del 2010, Cass. n. 13574 del 2011).

Rientra pertanto nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa anche con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del C.C.N.L. le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo.

La valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto deve, dunque, essere condotta alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità rispetto ad un utile prosecuzione del rapporto di lavoro.

Orbene, vale anzitutto considerare nella specie, che, sul piano oggettivo, l’introduzione del padre della giovane utente all’interno della struttura non appare suscettibile di aver messo in pericolo la sicurezza degli altri utenti, essendosi il genitore intrattenuto alla diretta presenza dell’educatrice che gli chiedeva chiarimenti in ordine all’umore della figlia.

Di conseguenza, sotto il profilo soggettivo, va rilevato che l’elemento della colpa viene in rilievo nella forma più attenuata della colpa lieve, ove si consideri che, pur configurandosi quale persona estranea, in quanto soggetto diverso da un operatore, si trattava nella specie del padre di una delle giovani potenziali utenti dell’YYY, il quale, peraltro, neppure si trovava per la prima volta presso il Centro, essendo egli quindi già noto agli operatori per avere accompagnato la figlia anche in altre occasioni.

Va aggiunto, inoltre, che le ragioni per le quali la ricorrente ha chiesto chiarimenti al padre della ragazza erano strettamente attinenti alle proprie funzioni di educatrice, avendo la stessa notato che la giovane mostrava un tono dell’umore basso, dato che l’inserimento definitivo della giovane risultava ancora sotto la valutazione da parte del consiglio direttivo.

Né, infine, appare utile, ai fini della valutazione di gravità della condotta addebitata, il riferimento ai richiami di carattere disciplinare rivolti in passato alla ricorrente, trattandosi di circostanze già sottoposte al vaglio disciplinare della Associazione e che quest’ultima, a seguito di istruttoria procedimentale, aveva ritenuto dover archiviare e che, quindi, di conseguenza, non potevano essere fatte oggetto di nuova valutazione in sede disciplinare.

Per detti motivi, l’atto di recesso datoriale risulta illegittimo in quanto sproporzionato rispetto al fatto addebitato, atteso che la condotta posta in essere dalla ricorrente, alla luce delle concrete modalità, oggettive e soggettive, di realizzazione della stessa, non appare di gravità tale da determinare un’irrimediabile lesione del vincolo fiduciario e, quindi, idoneo a giustificare una risoluzione immediata del rapporto.

Sotto il profilo della individuazione del regime di tutela applicabile, risulta per tabulas che alla data del licenziamento (23.11.2015) l’Associazione aveva alle proprie dipendenze meno di quindici dipendenti, di talchè, stante l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente per insussistenza della giusta causa, la YYY, va condannata, ai sensi dell’art. 8 L. 604/1966, a riassumere la sig.ra XXX entro il termine di tre giorni o, in alternativa, a risarcire il danno.

Circa la quantificazione di tale danno, – considerate le dimensioni dell’associazione nonché l’anzianità di servizio della ricorrente -, si ritiene equo riconoscere, in favore della ricorrente, un risarcimento commisurato in misura pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre agli interessi legali sulla somma via via rivalutata dal dì del dovuto sino al soddisfo.

Va invece rigettata, in quanto destituita di fondamento, la domanda di risarcimento del danno azionata dalla ricorrente in conseguenza del carattere ingiurioso del licenziamento in quanto ritenuto lesivo della reputazione professionale e della dignità della lavoratrice.

Occorre premettere che, secondo l’insegnamento condiviso e consolidato della giurisprudenza la liquidazione forfettaria ex lege prevista, copre tutti i danni collegati all’illegittimità del licenziamento ex se, anche sotto il profilo del danno biologico. Solo in caso di licenziamento ingiurioso, o persecutorio, o vessatorio, detto danno è autonomamente risarcibile (Cass. n. 63 del 2015, n. 5730 del 2014, n. 6845 del 2010; n. 5927 del 2008). Oggetto dell’accertamento dell’ingiuriosità o vessatorietà del recesso non è quindi l’illegittimità del licenziamento, ma le sue modalità, con la conseguenza che l’eventuale danno (lesione dell’integrità psico- fisica) diventa conseguenza (non della perdita del posto di lavoro e della retribuzione, bensì) dello stesso comportamento (ingiurioso, persecutorio, vessatorio) con cui è stato attuato.

In particolare, il licenziamento ingiurioso o vessatorio, lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, che dà luogo al risarcimento del danno ulteriore rispetto alla liquidazione forfetaria ex lege, ricorre soltanto in presenza di particolari forme o modalità offensive o di eventuali forme ingiustificate e lesive di pubblicità date al provvedimento, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio.

Orbene, in applicazione dei richiamati principi, si ritiene che le circostanze rappresentate dalla ricorrente in concomitanza dell’atto di recesso datoriale del 23.11.2015 siano inidonee a rilevare il carattere ingiurioso del licenziamento in quanto attinenti alla valorizzazione dei profili riguardanti la mancanza di giustificatezza dello stesso, non contenendo alcuno specifico riferimento alle modalità offensive relative all’intimazione del licenziamento. Invero, la ricorrente neppure ha dedotto che il datore di lavoro ha realizzato forme di pubblicità offensive e lesive né appaiono individuabili nella comunicazione di addebito e/o nella lettera di licenziamento espressioni offensive e non funzionali. Infine, neppure è stato dimostrato quale sia stato il concreto pregiudizio subito dalla ricorrente per effetto del procedimento disciplinare e del successivo licenziamento, essendosi limitata ad invocare l’esistenza di un danno alla reputazione professionale o morale.

Alla luce di quanto sopra, la suddetta domanda risarcitoria va quindi respinta.

Le spese del giudizio seguono la prevalente soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

Sulmona, 16 aprile 2018

Il Giudice

Licenziamento collettivo per riduzione di personale

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