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Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore

XXX aveva lavorato alle dipendenze di YYY srl con mansioni di collaudatore di prodotti in ceramica fino a quando era stato licenziato per “sopraggiunta inidoneità alla mansione”. ed “il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede”: Esse “agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva” (successive conf. :

Pubblicato il 17 December 2023 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

XXX aveva lavorato alle dipendenze di YYY srl con mansioni di collaudatore di prodotti in ceramica fino a quando era stato licenziato per “sopraggiunta inidoneità alla mansione”.

Il Tribunale di Viterbo, all’esito della fase c.d. sommaria, annullava il licenziamento e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro, con le ulteriori conseguenze di legge, sostenendo:

a) che il datore di lavoro avrebbe dovuto dapprima proporre ricorso al superiore organo amministrativo avverso il giudizio del medico competente, non potendo direttamente licenziare il dipendente;

b) che la ridotta capacità lavorativa derivante dalle prescrizioni dettate dal medico competente non poteva determinare il licenziamento, atteso l’obbligo datoriale di dare attuazione alle predette prescrizioni anche a discapito della sua convenienza economica.

L’opposizione della società veniva rigettata con sentenza motivata in modo conforme all’ordinanza.

La Corte d’Appello rigettava il reclamo proposto dalla società.

La Corte territoriale affermava:

a) è esatto il rilievo secondo cui il datore di lavoro, a fronte delle determinazioni del medico competente, ha facoltà e non obbligo di proporre ricorso all’organo di vigilanza previsto dalla legge;

b) nel caso in esame la società non contesta dal punto di vista medico legale la valutazione espressa dal medico competente e quindi non aveva interesse a proporre ricorso amministrativo;

c) la società ritiene legittimo il licenziamento in presenza di una mutata condizione fisica del lavoratore che ne limita la prestazione lavorativa, rispetto alla quale sarebbe venuto meno l’interesse datoriale all’adempimento parziale;

d) la materia della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore deve essere trattata in base alla più recente normativa nazionale e comunitaria, tesa a tutelare il dipendente che si trovi in condizione di “handicap” nella nozione comunitaria del termine, desumibile dalla direttiva n. 78/2000/CE del 27/11/2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione, sussistendo sia il presupposto oggettivo dell’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, sia il fattore soggettivo dell’handicap;

e) per la tutela del lavoratore che viene a trovarsi in una situazione di duratura menomazione che non lo ponga in situazione di uguaglianza con gli altri lavoratori, l’articolo 5 della citata direttiva prevede “soluzioni ragionevoli”, con l’unica eccezione del caso in cui tali soluzioni “richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato”;

f) il legislatore nazionale ha dato attuazione alla predetta direttiva con il Decreto Legge n. 76 del 2013, conv. in L. n. 99 del 2013, inserendo nel Decreto Legislativo n. 216 del 2003, articolo 3, il comma 3 bis, secondo cui “i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convezione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 38, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”;

g) alla stregua della normativa comunitaria e nazionale, vige un tendenziale principio di divieto di licenziamento del lavoratore divenuto disabile, dovendo il datore di lavoro cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli idonei a consentire di svolgere il lavoro;

h) in questo senso si è pronunziata la Corte di Cassazione (Cass. n. 6798/2018; Cass. n. 27502/2019);

i) di tali accorgimenti ragionevoli (ossia tecnicamente possibili e non eccessivamente costosi) è onerato il datore di lavoro, che deve sopportare i relativi costi economici e farsi carico delle necessarie modifiche in senso tecnico-logistico;

j) nel caso di specie le misure che la società è tenuta ad adottare, secondo le prescrizioni degli organi pubblici competenti, per consentire al XXX di continuare a svolgere le mansioni di collaudatore di piatti doccia sono oggettivamente “accomodamenti ragionevoli”, poiché non comportano modifiche dei luoghi produttivi, né mutamenti organizzativi, né costi aggiuntivi, dovendo la società unicamente consentire al XXX di effettuare pause – rispetto a quelle ordinarie – di ulteriori 15 minuti dopo ogni due ore continuative di lavoro e l’adozione di mascherina respiratoria per le operazioni che comportino maggiore dispersione di polveri;

k) non costituisce un giustificato motivo oggettivo la ragione meramente economica della ridotta produttività del XXX (che secondo la società potrebbe produrre solo 40 pezzi al giorno anzi che 70 come i suoi colleghi di lavoro), ciò sia in quanto la normativa sopra vista prevede che il costo economico della conservazione del rapporto di lavoro resti a carico dell’imprenditore, sia in quanto la ridotta capacità produttiva rispetto a quella degli altri lavoratori impiegati in mansioni identiche verrebbe altrimenti a rappresentare una discriminazione vietata.

Avverso tale sentenza YYY srl ha proposto ricorso per cassazione.

La Corte territoriale è pervenuta a qualificare il licenziamento effettivamente come discriminatorio per ragioni di handicap.

Ciò nonostante, quest’ultima non ha accordato al XXX la tipica tutela avverso un licenziamento discriminatorio (e quindi nullo), ossia la reintegrazione c.d. piena, per la semplice quanto dirimente ragione che la tutela da lui invocata era la reintegrazione c.d. attenuata.

Ed infatti i giudici del reclamo si sono limitati a rigettare il gravame e quindi a confermare la sentenza di primo grado, che a sua volta aveva confermato l’ordinanza (conclusiva della fase c.d. sommaria) con cui era stata accordata la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, articolo 18, commi 7 e 4, per il licenziamento annullabile (reintegrazione nel posto di lavoro e indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità).

Nel caso in esame, quand’anche la conservazione del rapporto di lavoro del XXX comporti costi aggiuntivi in considerazione della sua ridotta produttività (dovuta a ragioni di salute), nondimeno questo non sarebbe di per sé sufficiente ad escludere l’esistenza di “accomodamenti ragionevoli” (che in astratto possono consistere anche nell’adibizione del lavoratore a diverse mansioni, pure inferiori), i quali vengono meno solo laddove comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro (Cass. n. 6497/2021).

L’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE in materia conferma che il datore di lavoro è obbligato, salvo che i provvedimenti appropriati richiedano “un onere finanziario sproporzionato”, specificando poi che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.

L’art. 21 chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni“.

Detto limite economico è stato già sottolineato dalla Suprema Corte (Cass. n. 27243/2018 cit.), richiamando Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessivi”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epoca sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cost. n. 356 del 1993).

Al limite espresso della “sproporzione” del costo si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.

Limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che, se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.

Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti.

Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c.” (cfr, Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’articolo 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008).

In particolare, le Sezioni unite civili (sent. n. 4570 del 1996) hanno già da tempo evidenziato che “la verifica di ragionevolezza… è stata sempre imposta dalla giurisprudenza della Suprema Corte in tutti i casi in cui si debba stabilire una comparazione dei diritti e delle aspettative in materia di lavoro (concorsi, promozioni, licenziamenti collettivi ecc.)” ed “il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede”: Esse “agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva” (successive conf.: Cass. n. 8296 del 2001; Cass., n. 7752 del 2003; Cass. n. 11429 del 2006; Cass. n. 14322 del 2016).

Stante la natura indeterminata della clausola di “ragionevolezza” non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l’accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni.

Non a caso anche l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”.

All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex articolo 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”).

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza 13 novembre 2023, n. 31471

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