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Licenziamento per superamento del periodo di comporto

TRIBUNALE DI TRIESTE SEZIONE CIVILE – CONTROVERSIE DEL LAVORO Repubblica Italiana In nome del popolo italiano Il Tribunale, in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, nella persona della dott.ssa, ha pronunciato la seguente SENTENZA n. 20/2019 pubblicata il 01/02/2019 nella causa sub n. /2018 R.G. e promossa con ricorso in opposizione ex art. […]

Pubblicato il 05 February 2019 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

TRIBUNALE DI TRIESTE
SEZIONE CIVILE – CONTROVERSIE DEL LAVORO
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano

Il Tribunale, in composizione monocratica, in funzione di giudice del lavoro, nella persona della dott.ssa, ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 20/2019 pubblicata il 01/02/2019

nella causa sub n. /2018 R.G. e promossa con ricorso in opposizione ex art. 1 co. 51 L. 92/2012 depositato il 27/07/2018 da

XXX SPA in persona del legale rappresentante con gli avv.ti ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultima in

RICORRENTE

contro

YYY con l’avv.

ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in

RESISTENTE

Conclusioni ricorrente: in riforma dell’ordinanza resa del Giudice del lavoro di Trieste in data 29 giugno 2018, rigettare la domanda proposta dalla signora YYY, in quanto infondata in fatto e diritto e, comunque sfornita di prova. In via subordinata, voglia convertire il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso; sempre in via subordinata, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, si chiede che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 18 co. 5 L. 300/70 (come modificato dalla legge n. 92/2012) sia, comunque, confermata la risoluzione del rapporto di lavoro con condanna di *** al pagamento di un’indennità omnicomprensiva ivi prevista nella misura minima o in altra somma ritenuta di giustizia; in via ulteriormente subordinata, nella denegata ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro, si chiede che sia detratto – da quanto eventualmente dovuto a titolo di risarcimento del danno – le somme che il ricorrente ha percepito, a qualsiasi titolo, successivamente alla erogazione del licenziamento; con vittoria di spese, competenze ed onorari.

Conclusioni resistente: respingersi la proposta opposizione e confermarsi l’ordinanza impugnata, o comunque in via subordinata ove si ritesse di applicare al caso la sola tutela risarcitoria determinarsi la medesima nella misura massima di legge con accessori; con vittoria di spese.

FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato il 27.07.2018 la XXX Spa proponeva opposizione all’ordinanza n. 1300/2018 depositata il 29.06.2018 dal Giudice del lavoro di Trieste, rilevando che, pacificamente la YYY aveva totalizzato oltre 365 giorni di assenza per malattia e che il provvedimento aveva erroneamente addebitato al comportamento aziendale la patologia che aveva determinato tali assenze. Contestava di essere stata a conoscenza dello stato sanitario dedotto dalla lavoratrice, che non aveva mai inviato alcuna certificazione medica, e, quindi l’insorgenza di obblighi ex art. 2087 c.c. Sottolineava che non potevano ritenersi sufficienti, a tal fine, confidenze effettuate ai colleghi e, quindi, che non poteva ravvisarsi un obbligo di utilizzarla in attività diverse. In ogni caso, contestava anche che la YYY fosse stata impiegata in mansioni eccessivamente gravose ed evidenziava che, la stessa, prima di essere assunta in XXX aveva lavorato presso una cooperativa di facchinaggio, come addetta alla movimentazione dei colli e, comunque, aveva svolto attività extralavorative. Riportava l’esito delle visite mediche effettuate e contestava la relazione depositata dalla controparte. Ripercorreva le fasi del rapporto lavorativo e descriveva l’attività svolta presso la filiale di Trieste ove era assegnata la YYY, indicando quelle che potevano comportare la movimentazione di merce per i dipendenti XXX. Precisava che la controparte era addetta operativa, che non effettuava movimentazione di carichi in quanto di tale attività si occupavano i facchini delle cooperative. Rilevava che, già prima dei certificati del medico competente, dal 2012/2013 il capo filiale aveva assegnato la YYY prevalentemente ad attività d’ufficio, con l’espresso invito di rivolgersi ai colleghi per le mansioni più gravose e da maggio 2016 le aveva vietato l’accesso al magazzino, assegnandola ad attività esclusivamente d’ufficio.

Si costituiva in giudizio YYY che riportava il testo del ricorso proposto avverso il licenziamento intimatole dalla XXX, nel quale aveva dedotto di essere stata dipendente della stessa dal 2003 ma di avere ivi operato già dal 2002 in forza di contratti di lavoro interinale. Rilevava di avere sempre provveduto alla movimentazione dei pacchi in arrivo, di peso variabile ed anche consistente. Rappresentava di avere iniziato a soffrire, dal 2005, di ernie cervicali e di avere rappresentato il proprio stato di salute senza che fossero seguiti mutamenti nella situazione lavorativa. Esponeva di avere avuto uno svenimento nel 2012 e di avere reiteratamente e vanamente richiesto di essere spostata ad altri compiti, di natura amministrativa o di customer service. Evidenziava che gli ordini del *** di non farle fare alcuni compiti, non avevano avuto alcun esito pratico, in quanto doveva comunque movimentare i pacchi lasciati dai corrieri la sera prima. Sosteneva, quindi, che la sua malattia era stata aggravata dalle mansioni svolte. Richiamava gli esiti delle audizioni testimoniali effettuate nella fase sommaria, contestava le deduzioni avversarie e sottolineava l’infondatezza dell’opposizione.

Istruita la causa con l’acquisizione dei documenti prodotti e la c.t.u. medico legale, le parti discutevano all’udienza del 30.01.2019 e questo giudice tratteneva la causa in decisione ai sensi dell’art. 1 co. 57 L. 92/2012.

Innanzitutto, va evidenziato che non è in contestazione che la YYY sia stata assente per malattia per un periodo superiore a quello previsto dal CCNL applicato, pari a 365 giorni, come indicato nella lettera di licenziamento. Del pari è pacifico che la stessa è stata sempre addetta alla filiale di Trieste della convenuta, quale addetto operativo le cui mansioni sono state descritte nel ricorso in opposizione senza, sostanziali contestazioni da parte avversa, tranne in merito alle circostanze concernenti la movimentazione dei pacchi.

Invero, dalle testimonianze effettuate nella prima fase del procedimento, è emerso che una movimentazione era certamente effettuata dalla lavoratrice, anche perché altrimenti non si comprende perché, da un certo punto in poi il capo filiale ha deciso di limitare le mansioni della YYY e, dopo il provvedimento del medico competente ha trasmesso una e-mail a tutti i dipendenti per raccomandarsi di “non movimentare carichi di alcun tipo” (doc. 4 YYY). In ordine ai rischi connessi all’attività materialmente svolta dalla lavoratrice, peraltro, vi sono delle certificazioni espresse dei medici competenti incaricati dall’opponente, i quali hanno indicato che la stessa era esposta a “MMC e posture incongrue” (cfr. certificati del 31.05.2016, 15.07.2016 e 3.02.2017) e alcuna considerazione contraria è stata esposta dalla XXX in ordine al rischio derivante dalle posture incongrue.

Orbene, alla luce di tale quadro è stata disposta c.t.u. medico legale, ed il consulente nominato, previa autorizzazione del giudice, ha interloquito con il medico di base ed ha accertato che lo stesso ha rilasciato n. 6 certificati dal 3 febbraio al 20 maggio 2016 per “cervicobrachialgia sinistra in protrusioni” e n. 6 certificati dal 6 settembre 2016 al 31.01.2017 (non continuativi ma con una pausa dal 16 settembre al 25 ottobre) per “cervicobrachialgia destra in ernia cervicale C4-C5”. Inoltre, il consulente ha pure effettuato un sopralluogo della filiale ove operava la YYY. All’esito di tali accertamenti, dell’esame della stessa e del confronto con i consulenti di parte, il c.t.u. ha, intanto, rilevato che la perizianda “era ed è tutt’ora, affetta da sofferenza diffusa a tutto il rachide come evidenziato dalla risonanza magnetica presente in atti datata 15 dicembre 2017. Molteplici appaiono le lesioni in codesto distretto anatomico, come desumibile dall’esame testè citato, che assumono chiaro significato di danni morfologici in gran parte costitutivi e come tali non riconducibili ad eziologia professionale: in particolare a livello cervicale sono evidenti commistioni di fenomeni artrosici e alterazioni anatomiche con sovrapposizione di protrusioni discali improntanti il sacco durale, fenomeni non ascrivibili al tipo di lavoro svolto dalla perizianda, in perfetto accordo con quanto sostenuto dal ctp di parte resistente”. Inoltre, dopo avere esaminato tutti gli elementi a sua disposizione, ha concluso “Di conseguenza, soppesate le posizioni dei CCTTPP, entrambe articolare e ben motivate, preso atto delle prove testimoniali in atti, presa visione dei giudizi espressi dal Medico Competente, esaminato il luogo di lavoro, analizzati per quanto possibile i fattori connessi al lavoro e da ultimo sentita la collega *** della perizianda (dott.ssa N. ***) si è giunti alle seguenti conclusioni: nel caso in esame si può affermare che la perizianda sia stata esposta a fattori lavoro correlati che depongono per una manifesta e protratta postura incongrua tale da determinare riverberi sul rachide in toto. Nel caso in questione il segmento anatomico appariva costitutivamente meiopragico rivelando una sofferenza protratta, come da specificazione del Medico di Medicina Generale che poneva come diagnosi la presenza di cervicobrachialgia, con estrinsecazione clinica ora a destra ora a sinistra, in un quadro morfologicamente conclamato di ernie cervicali. Sulla base di queste premesse, visitata la ricorrente, compiuto il sopralluogo sul posto di lavoro della stessa, sentito il Medico di Medicina Generale, discusso il caso con i CCTTPP, presa visione delle prove testimoniali, appare plausibile che le condizioni di lavoro abbiano inciso in modo significativo sulla condizione meiopragica preesistente a livello del rachide. Con preciso riferimento al quesito del Giudice che chiede di specificare se le condizioni di lavoro della ricorrente abbiano determinato, in tutto o in parte, le assenze per malattia della stessa lo scrivente non appare in grado di esprimersi con assoluta certezza non avendo potuto accertare personalmente tutte le cause di assenza dal lavoro: tuttavia si rileva come le certificazioni redatte dal MMG indichino in maniera univoca la riconducibilità delle assenze dal lavoro alla patologia cervicale per tutta la durata della tutela INPS”. Orbene, tali conclusioni si basano sull’esame di elementi oggettivi emersi dalla causa e di argomentazioni prive di vizi logici, poi convincentemente sostenute anche all’esito delle osservazioni del ctp dell’opponente e, quindi, non possono che essere condivise. Infatti, il c.t.u. ha chiaramente espresso che il suo esame si è concentrato sulla patologia cervicale, che certamente non è di genesi lavorativa, ma che in ragione delle mansioni svolte, ha comportato le assenze per malattia sopra indicate. In questo contesto, peraltro, il ctu ha posto l’accento sul rischio da posture incongrue pure rilevando che “Per quanto attiene al rischio indicato dal Medico Competente relativamente all’assunzione di posture incongrue appare ridondante qualsiasi ulteriore precisazione: nell’attività svolta dalla perizianda questo tipo di rischio appare connaturato al tipo di lavoro svolto e non suscettibile di modificazioni implicando implicitamente l’adattamento alle varie imprevedibili situazioni legate alla natura del lavoro”, con la conseguenza che le osservazioni in ordine alla movimentazione dei carichi non appaiono determinanti. Né sembrano necessari chiarimenti da parte del c.t.u. alla luce dei dati oggettivi offerti dalle certificazioni dei medici competenti e degli stati di malattia indicati dal medico di base. Ne discende che può ritenersi dimostrato che le mansioni lavorative svolte dalla YYY hanno determinato, almeno nella parte sopraindicata, le assenze per malattia della stessa. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale “in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza e le mansioni espletate in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento” (Cass. 7946/2001, e nello stesso senso Cass. 7730/04, Cass. 5066/2000). Ulteriormente, è stato precisato che ”… una cosa è una generica attribuzione a causa di servizio di una malattia, un’altra è l’aggravamento della stessa malattia per omissione di cautele doverose da parte del datore di lavoro che abbia determinato un aggravamento di detta malattia, che necessariamente (per il già ricordato orientamento giurisprudenziale) porta all’esclusione delle assenze (che si accerti siano state determinate dall’omissione dei doveri di protezione del dipendente) dal computo del periodo di comporto” (Cass. Sez. Un. 13535/16). Si tratta, quindi, di verificare se è stato dimostrato che il datore di lavoro non ha posto in essere le cautele necessarie per evitare tale aggravamento. Sul punto sono del tutto condivisibili le conclusioni dell’ordinanza opposta. Innanzitutto va rilevato che sul datore di lavoro grava un obbligo di sicurezza sulla salute dei lavoratori che è delineato in varie disposizioni cautelari specifiche e nella norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. In questo contesto, l’opponente sottolinea soprattutto l’assenza della propria responsabilità in ragione del fatto che la lavoratrice non gli aveva mai trasmesso un certificato o un documento attestanti le sue condizioni di salute. Tale prospettazione non appare però convincente. Invero, sembra evidente che il sistema antinfortunistico improntato dal legislatore, anche in ottemperanza a direttive comunitarie, è costruito in modo che l’obbligo di intervento del datore di lavoro a tutela dei propri lavoratori, sorge a prescindere dalla volontà o da una richiesta degli stessi. In questo senso, deve senz’altro leggersi la norma di cui all’art. 41 d.lgs. 81/2008 che disciplina “la sorveglianza sanitaria” e prevede delle visite mediche obbligatorie per il datore di lavoro, proprio al fine di controllare lo stato di salute dei dipendenti, prima e nel corso del rapporto di lavoro e, in questo ultimo ambito, è stabilito che si debba effettuare una visita periodica almeno annuale. Orbene, risulta dalla documentazione depositata dall’opponente che la YYY è stata visita il 12.04.2011 e che il medico aveva indicato “prossima visita annuale” (doc. 4 opponente prima fase). E’ pacifico, però, che dopo tale data la lavoratrice non è stata più sottoposta a controlli fino al 2016 come sopra già rappresentato. Chiaramente, quindi, il datore di lavoro ha violato il disposto dell’art. 41 e l’omessa vigilanza non ha consentito di appurare che la salute dell’opposta stava peggiorando, tanto che infine la stessa è stata considerata inidonea alle mansioni. E’ il caso di ribadire che l’obbligo indicato è posto in via generale e astratta e prescinde dalla conoscenza di condizioni di salute particolari che, in ipotesi, possono anche non essere note al lavoratore stesso. In ogni caso, nella fattispecie che ci occupa deve ritenersi dimostrato che il responsabile della filiale fosse consapevole dei problemi della YYY. In questo senso ha deposto sia lo stesso ***, che gli altri testimoni sentiti ed è stato ammesso dalla stessa opponente che ha indicato i provvedimenti adottati dal responsabile per cercare di tutelare la YYY. La circostanza che non fosse nota con precisione la patologia della lavoratrice non appare rilevante, posto che il fatto che si fosse manifestata più volte una problematica consistente, imponeva, a maggior ragione, un controllo sanitario. Peraltro, va pure evidenziato che la teste *** ha dichiarato “è stato *** a dirmi che nel 2005 la ricorrente era assente per malattia mi disse “la solita ernia cervicale”. I testimoni hanno fatto riferimento ad alcune limitazioni disposte nel tempo dal ***, ma non è stato provato con chiarezza in quale misura ed in quali periodi sono state effettivamente poste in essere. Deve sottolinearsi che, solo all’esito delle prescrizioni del medico competente, è stato adottato un provvedimento preciso e definito ed espresso nella lettera del 17.09.2016 già sopra menzionata. In questo contesto, quindi, non può che ribadirsi che l’omessa vigilanza sanitaria ha determinato la situazione creatasi, posto che non è intervenuto alcun medico ad indicare quali sarebbero stati i rimedi per affrontare la patologia della YYY. Corollario delle considerazioni effettuate è che i giorni di malattia indicati nella relazione del c.t.u. e sopra riportati non possono essere computati nel periodo di comporto e quindi, che non sussistendo i presupposti di cui all’art. 2110 c.c. il licenziamento è illegittimo con le conseguenze di cui all’art. 18 co. 7 e co. 4 L. 300/70, come statuito dal giudice della prima fase. Nulla è stato allegato da parte opponente, in merito all’aliunde perceptum nonostante l’onere su di lei gravante (“In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell'” aliunde perceptum” o dell” aliunde percipiendum”, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito” Cass. 9616/15 e nello stesso senso Cass. 512/2018) e, quindi, l’eccezione non può essere accolta, pure sottolineando che, in assenza di qualsivoglia deduzione specifica sulla circostanza, le richiesta di acquisizione effettuata dalla resistente hanno carattere sostanzialmente esplorativo.

Ne discende che il ricorso va rigettato e l’ordinanza opposta confermata.

Le spese di lite seguono la soccombenza, non ravvisandosi ragioni per una loro compensazione e, alla luce dei criteri di cui all’art. 4 co. 1 D.M. 55/2014, come modificato dal decreto n. 37/2018, si liquidano in € 3.400 (€ 1.000 per la fase di studio € 600 per la fase introduttiva € 800 per la fase istruttoria € 1.000 per la fase decisionale) oltre spese generali ed iva e cpa se dovuti.

Condanna, altresì, la parte opponente al pagamento delle spese di c.t.u. che vanno liquidate come da dispositivo tenendo conto della complessità del quesito e dell’attività concretamente posta in essere dal consulente.

P.Q.M.

il Giudice del Lavoro di Trieste, definitivamente pronunciando tra le parti, ogni contraria e diversa istanza, eccezione e deduzione disattesa, così decide: rigetta l’opposizione e conferma l’ordinanza del Tribunale di Trieste

del 29.06.2018; condanna la ricorrente, in persona del legale rappresentante, alla rifusione delle spese di lite della resistente che liquida in € 3.400 oltre spese generali ed iva e cpa come per legge; condanna la ricorrente, in persona del legale rappresentante, al pagamento delle spese di c.t.u. che liquida in € 581,54 oltre iva e contributi se dovuti.

Trieste, 1 febbraio 2019

Il giudice

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