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Ammissione alla prova, responsabilità degli enti

Avverso la suddetta sentenza, comunicata alla Procura generale presso la Corte di appello di Trento in data 23 dicembre 2019, è stato proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trento. Le Sezioni Unite hanno ritenuto di privilegiare l’interpretazione, secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’articolo 168-bis c. p. , non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

Pubblicato il 23 April 2023 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Con sentenza del 18 dicembre 2019, resa con motivazione contestuale, il Tribunale di Trento ha dichiarato non doversi procedere nei confronti della società XXX s.p.a., ai sensi dell’articolo 464- septies c.p.p., per essere estinto l’illecito di cui all’articolo 25-septies, comma 3, Decreto Legislativo n. 8 giugno 2001, n. 231, ascritto alla società in relazione al delitto di lesioni colpose gravi contestato al legale rappresentante, per esito positivo della prova (istituto dell’ammissione alla prova), ai sensi dell’articolo 168-ter c.p..

Avverso la suddetta sentenza, comunicata alla Procura generale presso la Corte di appello di Trento in data 23 dicembre 2019, è stato proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trento.

La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite è relativa alla possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’articolo 168-bis c.p., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex Decreto Legislativo n. 8 giugno 2001, n. 231.

La sospensione del procedimento con messa alla prova si manifesta, dal punto di vista afflittivo, attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, rientrante a pieno titolo nella categoria delle sanzioni penali, ma, in assenza – de jure condito- di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all’articolo 168-bis c.p. alla categoria degli enti, deriva che l’istituto in esame, in ossequio al principio della riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società in relazione alla responsabilità amministrativa ex Decreto Legislativo n. 231 del 2001 (Trib. Milano, 27/3/2017).

Sotto altro versante è stato evidenziato che l’applicazione analogica non sarebbe praticabile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il Decreto Legislativo n. 231 del 2001 appare essere in realtà intenzionale.

Rispecchia la precisa scelta del legislatore di escludere l’ente dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto.

Inoltre, vi è incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da ratio diverse, inconciliabili negli aspetti sostanziali ed anche processuali.

L’articolo 168-bis c.p. modellato sulla figura dell’imputato persona fisica, in un’ottica, non soltanto special-preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa, non è applicabile all’ente, con la conseguenza che deve ritenersi indebita l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova all’ente, in quanto si rischierebbe di introdurre, per via giurisprudenziale, un nuovo istituto del quale lo stesso giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali (Trib. Bologna, 10/12/2020).

Inoltre è stato evidenziato che, pur volendo ritenere che l’ammissione alla prova dell’ente si risolva in un’interpretazione analogica in bonam partem, astrattamente consentita, tale estensione sarebbe, comunque, inibita dal fatto che il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe in concreto ampi margini di incertezza operativa, non essendo precisato quale sia l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti e non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità, a differenza di quanto, invece, previsto per gli imputati persone fisiche, con riferimento ai quali l’articolo 168-bis c.p. richiede che non ne abbiano già usufruito in precedenza e che si proceda per reati puniti con pena pecuniaria, ovvero detentiva non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione (Trib. Spoleto, 21/4/2021).

Con diverso orientamento di merito favorevole all’ammissione alla prova dell’ente, attraverso l’interpretazione “estensiva”, ovvero “analogica”, dell’articolo 168-bis c.p., è stata ritenuta, invece, la piena compatibilità dell’istituto della messa alla prova con il sistema delineato dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

All’uopo è stato evidenziato che l’ammissibilità dell’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società, ovvero l’essersi la stessa dotata, prima del fatto di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché solo in questo caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente, che dimostrerebbe così di essere stato diligente e di aver adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche per quanto valutato non idoneo dal giudice (Trib. Modena, 19/10/2020).

Con altra ordinanza (Trib. Bari, 22/6/2022), l’ammissione alla prova dell’ente è stata giustificata, con percorso argomentativo più articolato, in base al presupposto che l’applicazione della disciplina della messa alla prova dell’ente non determina una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale, generando effetti favorevoli per l’ente.

Comunque, il difetto di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001 non è espressione della scelta del legislatore di escludere gli enti dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto in questione.

Anche il sistema di responsabilità da reato degli enti risponderebbe a una logica di prevenzione del crimine da perseguire attraverso la rieducazione dell’ente, ossia la prevenzione speciale in chiave rieducativa, declinandosi essa in maniera peculiare.

Neppure costituirebbero argomenti idonei ad escludere l’applicabilità della messa alla prova dell’ente, l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato, che comunque non impedirebbe all’ente di accedere al procedimento speciale della messa alla prova, atteso che l’esito positivo della prova estingue l’illecito amministrativo.

Inoltre, l’incertezza applicativa della messa alla prova all’ente non sarebbe ostativa, traducendosi nella fisiologica sfera di discrezionalità, nell’ambito della quale si muove il giudice in sede di applicazione analogica della legge e che la Costituzione limita quando possano derivare effetti negativi, non sussistenti in tale ipotesi.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto di privilegiare l’interpretazione, secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’articolo 168-bis c.p., non può essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità amministrativa dipendente da reato, di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

Le caratteristiche dell’istituto di cui all’articolo 168-bis c.p. consentono di affermare la indubbia natura “sanzionatoria” della messa alla prova sulla base degli inequivoci indici rivelatori valorizzati nella sentenza n. 91 del 2018 dalla Corte costituzionale, tra cui:

– l’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – ai sensi dell’articolo 168-bis, comma 3, c.p. – di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una “prestazione non retribuita (…) di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività” e la cui “durata giornaliera non può superare le otto ore”;

– la “prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno“;

– gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all’atto dell’ammissione al beneficio, che possono comprendere “attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali”, prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva;

– il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonché la durata della messa alla prova, variabile a seconda della gravità del reato contestato all’imputato;

– la valutazione dell’idoneità del programma di trattamento “in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale” e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena;

– la previsione di cui all’articolo 657-bis c.p.p., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte “e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittività – ma pur sempre di afflittività – delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva”.

L’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un “trattamento sanzionatorio” – quello della messa alla prova ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario, che si traduce nel principio, secondo cui “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

Non possono soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova, né l’analogia in bonam partem, né tantomeno l’interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all’applicazione agli enti della messa alla prova.

La modulazione dell’istituto della messa alla prova sull’imputato – “persona fisica”, emerge all’evidenza dalla mera lettura dell’articolo 168-bis c.p., laddove si fa riferimento all’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma implicante, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, “alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali”.

Del pari, il riferimento alla prestazione di lavoro di pubblica utilità – che deve tener conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato con prestazione svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la cui durata giornaliera non può superare le otto ore – non può che attenere alla persona fisica.

Ancora, le condizioni che consentono l’accesso dell’imputato alla messa alla prova – ossia l’allegazione alla richiesta ex articolo 464-bis c.p.p. di un programma di trattamento, ovvero la richiesta di elaborazione del predetto programma, contemplante, tra l’altro, ” a) le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale” non possono che confermare che il soggetto destinatario del programma sia l’imputato-persona fisica.

Emblematico, poi, risulta il criterio di cui all’articolo 464-quater, comma 3, c.p.p. – secondo cui la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’articolo 133 c.p. reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati- che rende ancor più evidente che la disciplina è stata modellata per l’imputato e per la sua rieducazione e risocializzazione e non può essere traslata ad una persona giuridica, soggetto non “imputato”, privo di sostrato psicofisico.

L’operazione ermeneutica – secondo cui gli organi dell’ente, in quanto investiti da un rapporto di immedesimazione organica sono equiparabili all’imputato e garantirebbero sufficientemente il soddisfacimento degli obiettivi e delle finalità della messa alla prova – si tradurrebbe in una sorta di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell’ente ricadrebbero sugli organi e questi sarebbero chiamati a rieducarsi per conto di un diverso soggetto, operazione questa in evidente contrasto anche con le finalità proprie del Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

Va, inoltre, rilevato che l’articolo 168-ter c.p. prevede che l’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ma non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge, a dimostrazione ulteriore del fatto che le sanzioni diverse da quelle penali, operando in ambiti e per finalità diverse, non sono interessate dal percorso della messa alla prova e possono essere egualmente irrogate.

Peraltro, ulteriori argomenti ostativi all’applicazione della messa alla prova nel sistema della responsabilità amministrativa dell’ente si ricavano anche dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

E’ sufficiente all’uopo citare l’articolo 67, che, nel prevedere le ipotesi in cui il giudice pronuncia sentenza di non doversi procedere nei confronti dell’ente, richiama esclusivamente i casi previsti dall’articolo 60 e l’estinzione per prescrizione della sanzione.

In base a tale disposto testuale si deduce che, in caso di esito positivo della messa alla prova, il giudice non potrebbe pronunciare sentenza di non doversi procedere ex articolo 464-septies c.p.p., non essendo tale ipotesi prevista tra quelle espressamente indicate di estinzione dell’illecito, con conseguente necessità di “creazione” in tal caso di una causa estintiva dell’illecito al di fuori del sistema espressamente disciplinato dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

Senza considerare, poi, che già sono previste nel Decreto Legislativo n. 231 forme di riparazione delle conseguenze da reato che rilevano, tuttavia, per l’ente solo in relazione alla mancata applicazione di sanzioni interdittive e non già per l’estinzione di sanzioni pecuniarie.

Il principio di diritto:

L’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’articolo 168-bis c.p., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza n. 14840 del 6 aprile 2023

 

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