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Mutamento orario di lavoro già concordato

Tanto è previsto esplicitamente dal Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 3, commi 3, 7, 9 e 11 in relazione alle clausole elastiche ed al lavoro supplementare (vedi in particolare comma 11: ” Il rifiuto da parte del lavoratore di stipulare il patto di cui al comma 9 e l’esercizio da parte dello stesso del diritto di ripensamento di cui al comma 10 non possono integrare ” in nessun caso” gli estremi del giustificato motivo di licenziamento). Come prevede, peraltro, oggi in continuità con questa tesi la disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 6, comma 8 secondo il quale “il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Pubblicato il 06 January 2024 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

In materia di lavoro part-time, dalla complessiva regolamentazione stabilita dal Decreto Legislativo n. 61 del 2000, si evince una comune e generale ratio legis nel senso che qualunque mutamento dell’orario di lavoro già concordato formalmente tra le parti – sia il passaggio da part-time a full time o viceversa, sia una variazione della fascia oraria del part-time o l’introduzione di una clausola elastica o flessibile o la richiesta di lavoro supplementare – presuppone l’accordo tra le parti e, dunque, il consenso del lavoratore.

Tanto è previsto esplicitamente dal Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 3, commi 3, 7, 9 e 11 in relazione alle clausole elastiche ed al lavoro supplementare (vedi in particolare comma 11: ” Il rifiuto da parte del lavoratore di stipulare il patto di cui al comma 9 e l’esercizio da parte dello stesso del diritto di ripensamento di cui al comma 10 non possono integrare ” in nessun caso” gli estremi del giustificato motivo di licenziamento).

Inoltre, al Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 5 prevede parimenti che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in parziale, o viceversa “non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Sulla scorta di tale disciplina deve dunque affermarsi che analogo divieto valga anche, a fortiori, per la proposta di diversa distribuzione totale dell’orario di lavoro.

Dal momento che sarebbe irragionevole ipotizzare il contrario, ovvero che sia protetto il rifiuto alla stipula di una clausola flessibile, elastica o alla richiesta di lavoro supplementare e non lo sia invece quello che concerne la variazione totale dell’orario di lavoro part time.

Come prevede, peraltro, oggi in continuità con questa tesi la disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 6, comma 8 secondo il quale “il rifiuto del lavoratore di concordare una variazione dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Il difficile equilibrio tra il divieto di licenziamento del lavoratore che rifiuta il mutamento della fascia oraria del part-time (o una altra variazione protetta dalla legge), e l’eventuale insorgenza del giustificato motivo provocato da tale rifiuto, che potrebbe consentire un licenziamento per ragioni oggettive, deve essere invece garantito attuando il contemperamento dei rispettivi interessi delle parti che si riflettono nel regime pattizio del rapporto alla luce della particolare disciplina di legge evocata.

In tale prospettiva deve essere anzitutto chiarito che le esigenze organizzative che sottostanno alla richiesta di variazione dell’orario non possono rilevare, di per sé, come ragione oggettiva – esclusiva ed autosufficiente – di licenziamento, perché questo significherebbe cancellare di fatto la protezione legale che consente al lavoratore di opporre un legittimo rifiuto alla proposta datoriale di cambiamento dell’orario di lavoro, rifiuto che non può trasformarsi – con aperta contraddizione della normativa – in automatico presupposto del suo licenziamento.

D’altra parte, nemmeno può essere precluso al datore di lavoro l’esercizio del recesso quando il rifiuto alla proposta di trasformazione entri in contrasto con le ragioni di carattere organizzativo che, ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 3 possono integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento; in questo caso, tuttavia, il datore di lavoro ha l’onere di dimostrare non solo la sussistenza delle esigenze economico-organizzative, in base alle quali la prestazione oraria precedente non può essere più mantenuta, nonché il nesso causale tra le predette esigenze e il licenziamento (Cass., sentenza n. 21875/2015, Cass. sentenza n. 23620/2015; Cass., sentenza n. 9310/2001; Cass., sentenza n. 3030/1999); dovendo egli altresì dimostrare che non esistano ulteriori soluzioni occupazionali (o altre alternative orarie) rispetto a quelle prospettate al lavoratore e poste alla base del licenziamento.

Occorre, cioè in sintonia con la stessa nozione generale di giustificato motivo oggettivo, che sussista altresì l’impossibilità di un ripescaggio aliunde che deve essere dimostrato in giudizio dal datore di lavoro, la cui condotta – al pari di quella del lavoratore – deve comunque essere improntata e, dunque, valutata alla luce delle clausole generali di correttezza e buona fede, le quali possono costituire utile parametro per un controllo sulla discrezionalità gestionale del datore di lavoro.

In particolare, in un’area, quale quella del part time, sottoposta ad una rigorosa regolamentazione normativa, la scelta datoriale deve tener conto delle particolari esigenze sociali che sono a fondamento della stessa.

Una prova di questa natura è idonea a realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti che risultano regolati pattiziamente nella disciplina oraria del part time.

L’esigenza di una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo nel part time, è stata già affermata dalla Suprema Corte, a fronte di proposte di rifiuto del passaggio da part time a full time o viceversa, con la recente ordinanza n. 12244/2023 nella quale è stato ribadito che in caso di rifiuto della trasformazione del rapporto da full time a part time il dipendente può essere legittimamente licenziato solo se il recesso non è stato intimato a causa del diniego opposto, ma in ragione dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno per effettive ragioni economiche dimostrate dal datore di lavoro.

E’ necessaria dunque non solo la prova dell’effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario (Cass. n. 15400 del 20/07/2020) ma anche quella della impossibilità di un utilizzo altrimenti della prestazione, con modalità orarie differenti, quale componente/elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo.

Quando invece il licenziamento del lavoratore part time venga intimato per una ragione tecnica organizzativa diversa da quella della variazione dell’orario di lavoro vale ovviamente la nozione generale del giustificato motivo oggettivo per come elaborata dalla consolidata giurisprudenza d (Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; e da ultimo Cass. 752 del 12/01/2023).

In tale direzione spinge anche l’interpretazione conforme della normativa comunitaria e della giurisprudenza costituzionale, essendo stato pure messo in luce (da Cass. sent. n. 21875 del 27/10/2015) da una parte che – ai sensi della Direttiva 97/81/ CE del 15 dicembre 1997, che recepisce l’Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES – “il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”; e dall’altra parte che, come chiarito della Corte Costituzionale nella sent. n. 224 del 2013 (scrutinando la compatibilità costituzionale della possibilità di “revisione” del part-time riconosciuta alle pubbliche amministrazioni dalla L. n. 183 del 2010, articolo 16), tale Direttiva, accanto alla protezione del lavoratore dalla trasformazione unilaterale del proprio rapporto ad iniziativa del datore di lavoro, prende pure in considerazione le esigenze organizzative di quest’ultimo, purché l’iniziativa datoriale sia sorretta da serie ragioni organizzative e gestionali e sia attuata nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

In mancanza di tali presupposti, il dipendente può legittimamente rifiutare di passare al tempo pieno e, per ciò solo, non può mai essere licenziato.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 30093 del 30 ottobre 2023

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