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Bancarotta semplice contestata ai sindaci

XXX, YYY, ZZZ e KKK furono originariamente tratti a giudizio per rispondere di una pluralità di reati, tutti connessi al fallimento della JJJ s. r. l. (dichiarato con sentenza del 16 luglio 2015) e contestati, ai primi tre, nelle loro rispettive qualità di presidente (il primo) e componenti (gli altri) del collegio sindacale e al KKK nella sua qualità di amministratore unico della predetta società. Ciò premesso, la Corte territoriale, ha argomentato analiticamente sia in ordine al momento in cui poteva ritenersi cristallizzato lo stato d’insolvenza, sia in ordine alla misura della colpa addebitata ai sindaci, seppur non esplicitamente qualificata in termini coerenti con la previsione normativa.

Pubblicato il 22 January 2024 in Diritto Penale, Diritto Societario, Giurisprudenza Penale

XXX, YYY, ZZZ e KKK furono originariamente tratti a giudizio per rispondere di una pluralità di reati, tutti connessi al fallimento della JJJ s.r.l. (dichiarato con sentenza del 16 luglio 2015) e contestati, ai primi tre, nelle loro rispettive qualità di presidente (il primo) e componenti (gli altri) del collegio sindacale e al KKK nella sua qualità di amministratore unico della predetta società.

Le (residue) contestazioni attengono alla bancarotta semplice, contestata ai sindaci al capo C) (perché avrebbero aggravato il dissesto omettendo, nonostante il valore negativo del patrimonio societario, di esercitare i loro doveri di vigilanza e di procedere, segnatamente, alla convocazione dell’assemblea) e alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, contestata al KKK al capo D) (perché avrebbe distratto la somma di oltre 677.000 Euro omettendo di riscuotere il relativo credito vantato dalla JJJ nei confronti della SSS s.p.a., per canoni d’affitto non pagati).

Celebrato il giudizio di primo grado, il Tribunale di Ancona ha ritenuto gli imputati responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti nei termini in precedenza evidenziati e la Corte d’appello, investita dell’impugnazione proposta nell’interesse degli imputati, ha confermato la condanna, riformandola solo in punto di trattamento sanzionatorio e di riconoscimento del beneficio della non menzione.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione tutti i predetti imputati.

Per come si è detto, ai sindaci è contestato di aver concorso nella causazione del dissesto della JJJ s.r.l. omettendo di esercitare i poteri di vigilanza e controllo loro riconosciuti in ragione delle funzioni svolte e, segnatamente, astenendosi gli amministratori dal richiedere il fallimento, di procedere alla convocazione dell’assemblea stante l’inerzia dell’organo gestorio.

Secondo la Corte territoriale, l’organo di controllo, pur riscontrando la sussistenza dei presupposti operativi indicati nell’art. 2447 cod. civ., si sarebbe limitato ad invitare gli amministratori ad eseguire l’aumento di capitale, senza rilevarne l’inadempimento e senza procedere alla diretta convocazione dell’assemblea e alla parallela segnalazione delle gravi irregolarità commesse dall’organo amministrativo.

Omissioni che, permettendo la prosecuzione dell’attività economica pur in presenza di un patrimonio netto sensibilmente negativo, avrebbero contribuito ad aggravare il preesistente stato di dissesto.

Il controllo sindacale, in quanto posto a tutela degli interessi dei soci e di quello (preminente) dei creditori e pur non potendo investire in forma diretta le scelte imprenditoriali, non si esaurisce in una mera verifica formale o in un riscontro contabile della documentazione messa a disposizione dagli amministratori: deve necessariamente sostanziarsi nell’oggettivo riscontro tra la realtà e la sua rappresentazione ed estendersi al contenuto della gestione sociale e alla conseguente verifica di conformità delle scelte degli amministratori ai canoni d’una buona amministrazione e della loro compatibilità con i fini propri della società (cfr. Sez. 5, n. 28848 del 21/09/2020).

Cosicché, ove nell’esercizio dei suoi poteri di controllo e di vigilanza abbia conoscenza di condotte illecite degli amministratori, il sindaco ha il dovere di intervenire per impedirne la realizzazione.

E la relativa omissione determina la sua responsabilità a titolo di concorso nel reato eventualmente commesso all’amministratore, ove l’esercizio dei poteri conoscitivi riconosciuti ai sindaci avrebbe condotto questi ultimi a conoscere delle irregolarità contabili e, conseguentemente, ad attivare le (doverose) procedure di segnalazione (esterna ed interna) e d’inibizione che il legislatore ha messo a disposizione.

In questo contesto si inseriscono gli specifici poteri-doveri d’iniziativa, riconosciuti ai sindaci in sostituzione dell’organo deliberativo (l’assemblea) o degli amministratori.

Segnatamente: il dovere di convocare l’assemblea ed eseguire le pubblicazioni prescritte in caso di omissione da parte degli amministratori (art. 2406 cod. civ.); quello di chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale sociale obbligatoria per legge, ove l’assemblea non vi provveda e gli amministratori restino inerti (artt. 2357, 2359-ter e 2446 cod. civ.); quello di promuovere l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (2393 cod. civ.) e di sollecitare il controllo giudiziario sulla gestione (2409 cod. civ.); norme applicabili anche alla società a responsabilità limitata in virtù dell’esplicito richiamo contenuto nell’art. 2477 del codice civile.

Ebbene, come ritenuto dalla Corte territoriale, il collegio sindacale si è limitato, per ben tre anni (dal 2007 al 2010), pur a fronte di un conclamato stato d’insolvenza (cristallizzatosi sin dal 2007), a sollecitare l’organo amministrativo all’adempimento di quanto necessario in ragione della rilevata situazione finanziaria (le necessarie ricapitalizzazioni e la convocazione dell’assemblea).

E ciò senza provvedere agli ulteriori e più rilevanti obblighi in precedenza indicati.

Tanto, all’evidenza, non può intendersi come diligente adempimento degli obblighi imposti all’organo di controllo e, in sé, non esclude la sussistenza della condotta materiale (omissiva) oggetto dell’imputazione.

La fattispecie incriminatrice contestata è quella descritta nell’art. 217, comma 1, n. 4, L. fall., nella parte in cui sanziona la condotta dell’imprenditore che, in violazione dell’obbligo (oggi esplicitato nell’art. 3 del codice della crisi) di rilevare tempestivamente la crisi, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento, ha contribuito ad aggravare lo squilibrio economico-patrimoniale della propria impresa.

E la cooperazione colposa contestata ai sindaci, per come si è detto, sarebbe consistita nell’aver omesso di esercitare i poteri di vigilanza e controllo loro riconosciuti in ragione delle funzioni svolte e, segnatamente, astenendosi gli amministratori dal richiedere il fallimento, di procedere, pur essendo pienamente consapevoli della reale situazione economica e finanziaria della società, alla convocazione dell’assemblea stante l’inerzia dell’organo gestorio, così concorrendo nella mancata richiesta di fallimento.

Quanto, in particolare, al profilo soggettivo, la Suprema Corte ha ripetutamente ribadito come, nonostante le diverse possibili opzioni ermeneutiche, la colpa grave debba essere accertata anche nell’ipotesi del ritardato fallimento, in quanto decisione ricollegabile “ad una vasta gamma di dinamiche gestionali; che si estende dall’estremo dell’assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell’opinabile valutazione sull’efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse.

L’eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa.

Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave; dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato” (Sez. 5, n. 43414 del 25/09/2013).

Tanto più “alla luce dell’evoluzione della normativa fallimentare e del progressivo favore dimostrato dal legislatore verso soluzioni della crisi d’impresa che consentano la sopravvivenza di quest’ultima” (Sez. 5, n. 29866 del 04/06/2015).

E il medesimo coefficiente soggettivo deve caratterizzare anche la colpa imputata ai sindaci, essendo irragionevole ritenere che l’imprenditore, dominus delle dinamiche gestionali, risponda a titolo di colpa grave e l’organo di controllo sia ritenuto responsabile anche per condotte colpose più lievi.

L’accertamento del grado di colpa, tuttavia, presuppone la verifica delle particolari condizioni in cui l’agente deve operare, che, in presenza di una regola cautelare cosiddetta “elastica” (come nel caso di specie), impongono un apprezzamento in fatto che, com’è noto, è riservato al giudice di merito e precluso al giudice della legittimità, chiamato a verificare, sotto questo profilo, la sola esistenza di un complessivo impianto motivazione, logico e coerente con i dati processuali richiamati.

Ciò premesso, la Corte territoriale, ha argomentato analiticamente sia in ordine al momento in cui poteva ritenersi cristallizzato lo stato d’insolvenza, sia in ordine alla misura della colpa addebitata ai sindaci, seppur non esplicitamente qualificata in termini coerenti con la previsione normativa.

La Corte ha evidenziato, infatti, come, sin dal 2003, il capitale era sceso al sotto dei limiti legali e al 31 dicembre 2007 la società non era in grado di adempiere alle proprie obbligazioni, conclamandosi, in quel momento, lo stato d’insolvenza.

Una situazione, rileva ancora la Corte, che, palesatasi sin dal 2003, era comodamente verificabile attraverso una semplice operazione algebrica.

E, a fronte di ciò, il collegio sindacale, pur pienamente consapevole delle criticità evidenziate, non ha provveduto al proprio obbligo di richiesta di convocazione dell’assemblea, né ha sollecitato l’organo gestorio alla redazione della relativa situazione economico-patrimoniale, né, tanto meno, alla denuncia di gravi irregolarità ai sensi dell’art. 2409 del codice civile.

Anzi, sollecitando l’immissione di ulteriore capitale senza fornire all’assemblea l’informativa richiesta dall’art. 2447 cod. civ., avrebbe posto in essere una condotta persino commissiva volta a fornire una indicazione non corretta, incompleta e persino fuorviante.

Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza n. 1162 del 10 gennaio 2024

 

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