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Appropriazione di pregi, vanto di un imprenditore

1 marzo 1986, n. 1310) che gli atti di appropriazione di pregi si distinguono dagli atti di confusione, in quanto l’illecito sviamento della clientela da essi causato si realizza non a seguito della confusione di identità tra prodotti od attività di imprese distinte, bensì esclusivamente ingenerando nel pubblico la convinzione che un prodotto od un’impresa abbiano le stesse qualità e pregi di quella concorrente. Né rileva se, la persona fisica, la cui prestazione d’opera aveva in concreto contribuito alla realizzazione delle passate campagne pubblicitarie per un dato numero di clienti, avrebbe per il futuro esplicato tali attività nell’ambito dell’organizzazione imprenditoriale del nuovo soggetto, imputato dell’atto di concorrenza sleale: invero, appunto, ciò sarebbe avvenuto per il futuro, onde l’informazione decettiva ed appropriativa permane.

Pubblicato il 05 September 2021 in Diritto Commerciale, Diritto Societario, Giurisprudenza Civile

La condotta tipica di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti o dell’impresa altrui, ai sensi dell’articolo 2598 c.c., comma 1, n. 2, ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori (Cass. 7 gennaio 2016, n. 100; Cass. 10 novembre 1994, n. 9387; Cass. 21 novembre 1983, n. 6928; v. pure Cass. 12 ottobre 2018, n. 25607).

Da tempo, si è quindi precisato (Cass. 1 marzo 1986, n. 1310) che gli atti di appropriazione di pregi si distinguono dagli atti di confusione, in quanto l’illecito sviamento della clientela da essi causato si realizza non a seguito della confusione di identità tra prodotti od attività di imprese distinte, bensì esclusivamente ingenerando nel pubblico la convinzione che un prodotto od un’impresa abbiano le stesse qualità e pregi di quella concorrente.

Il divieto di appropriazione di pregi posto dall’articolo 2598 c.c., comma 1, n. 2, intende impedire non propriamente l’inganno del consumatore in ordine alla qualità del prodotto o di un’impresa, ma, ancor prima, la decettività del riferimento, il quale suggestivamente mutui, da un’esperienza che il consumatore ha fatto con riguardo ad altro prodotto od altra impresa, un risultato positivo, che, invece, il consumatore deve ancora sperimentare per il nuovo prodotto o impresa.

L’imprenditore concorrente si appropria di pregi di un’altra impresa, secondo la fattispecie dell’articolo 2598 c.c., comma 1, n. 2, in quanto operi, dunque, in una comunicazione destinata a terzi, una c.d. autoattribuzione di qualità, peculiarità o caratteristiche riconosciute all’altrui impresa.

In tal modo, invero, egli riferisce a sé, mediante il mezzo pubblicitario, caratteri di prodotti, di servizi o dell’impresa altrui, ma come se si trattasse di prodotti, servizi o caratteri già facenti parte della propria attività d’impresa, così appropriandosi dell’attività di un terzo e cagionando nella potenziale clientela un indebito accreditamento, rispetto ad attività, servizi o prodotti non corrispondenti all’effettiva attività realizzativa svolta fino a quel momento.

L’imprenditore che vanti un carnet di clienti con i quali non abbia in passato intrattenuto rapporti professionali, invece in essere con un diverso imprenditore, lasciando però intendere di avere – in particolare, atteso l’oggetto sociale del medesimo – curato per essi le campagne pubblicitarie, integra la fattispecie della norma predetta, sotto il profilo dell’appropriazione di qualità altrui.

Infatti, come esposto, la condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’articolo 2598 c.c., comma 1, n. 2, consiste anche nell’operare vanto a proprio favore con riguardo a caratteristiche dell’impresa, mutuate, però, da quelle di un altro imprenditore, e ciò tutte le volte in cui, secondo la ratio della disposizione, detto vanto abbia l’attitudine di fare indebitamente acquisire meriti non posseduti, realizzando così una concorrenza sleale per appropriazione di pregi (il c.d. agganciamento), che è atto illecito di mero pericolo, ai sensi della norma predetta.

La nozione ivi recepita, in definitiva, è ampia: vi è appropriazione dei pregi di un concorrente quando, in forme pubblicitarie o equivalenti, un imprenditore attribuisca ai propri prodotti o alla propria impresa qualsiasi caratteristica dell’impresa o dei prodotti concorrenti che sia considerata dal mercato come qualità positiva e diventi, quindi, motivo di preferenza e di turbamento della libera scelta del cliente.

Ed invero, nel fatto stesso di pubblicizzare, su internet o su altro mezzo di comunicazione, come propri dati clienti reputati di prestigio o, comunque, significativi della qualità del servizio reso (“pregi”), ma in realtà riferibili ad un concorrente, vantando in tal modo una “storia imprenditoriale” che presuppone, contrariamente al vero, un’attività esercitata senza soluzione di continuità con quella di altra impresa concorrente, risiede il compimento di atti di concorrenza sleale per appropriazione di pregi ex articolo 2598 c.c., n. 2.

Né rileva se, la persona fisica, la cui prestazione d’opera aveva in concreto contribuito alla realizzazione delle passate campagne pubblicitarie per un dato numero di clienti, avrebbe per il futuro esplicato tali attività nell’ambito dell’organizzazione imprenditoriale del nuovo soggetto, imputato dell’atto di concorrenza sleale: invero, appunto, ciò sarebbe avvenuto per il futuro, onde l’informazione decettiva ed appropriativa permane.

Altro sarebbe stato, invece, se la nuova società, con la quale detta persona fisica aveva iniziato a collaborare, avesse espressamente chiarito che si trattava di una collaborazione con il soggetto in passato autore di quelle campagne pubblicitarie: perché, allora sì, essa sarebbe rimasta nell’ambito del legittimo esercizio di un proprio diritto, idoneo com’è noto, a norma dell’articolo 2043 c.c. (non iure), ad escludere l’integrazione della fattispecie della responsabilità aquiliana.

Dunque, perché si ravvisi un’attività non integrante un atto di concorrenza sleale per appropriazione di pregi, ai sensi dell’articolo 2598 c.c., n. 2, dovrebbe trattarsi al più dell’attribuzione generica ai propri prodotti di pregi insussistenti, in quanto ciò potrebbe, solo allora, risolversi in vantaggi per l’operatore scorretto, senza diretto pregiudizio per la concorrenza.

Principio di diritto: “La condotta di “appropriazione di pregi”, contemplata dall’articolo 2598 c.c., comma 1, n. 2, è integrata dal vanto operato da un imprenditore circa le caratteristiche della propria impresa, mutuate da quelle di un altro imprenditore, tutte le volte in cui detto vanto abbia l’attitudine di fare indebitamente acquisire al primo meriti non posseduti, realizzando una concorrenza sleale per c.d. agganciamento, quale atto illecito di mero pericolo: tale situazione si verifica allorché un’agenzia pubblicitaria, con la quale pur abbia iniziato a collaborare un soggetto che aveva realizzato campagne pubblicitarie per un’altra impresa, vanti sul proprio sito internet il carnet di clienti di quest’ultima, lasciando intendere di avere curato essa stessa le precedenti campagne pubblicitarie”.

Corte di Cassazione, Ordinanza n. 19954 del 13 luglio 2021

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