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Registrazione della conversazione senza consenso

La Suprema Corte ha già affermato che la registrazione della conversazione tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, con conseguente legittimità del licenziamento intimato (Cass.

Pubblicato il 28 November 2021 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

La Suprema Corte ha già affermato che la registrazione della conversazione tra presenti all’insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, con conseguente legittimità del licenziamento intimato (Cass. 21 novembre 2013, n. 26143; Cass. 8 agosto 2016, n. 16629; Cass. 16 maggio 2018, n. 11999).

Tuttavia, Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 24, permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612).

Sicché, l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio: con la conseguenza della legittimità (idest: inidoneità all’integrazione di un illecito disciplinare) della condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

Al riguardo, questa Corte ha esplicitamente affermato che “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso.

Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’articolo 24 Cost., sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento.

Dunque, neppure tale addebito può integrare illecito disciplinare, rispondendo la condotta in discorso alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’articolo 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico” (Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424).

Si tratta evidentemente di un profilo estremamente delicato, che esige un attento ed equilibrato bilanciamento tra la tutela di due diritti fondamentali, quali la garanzia della libertà personale, sotto il profilo della sfera privata e della riservatezza delle comunicazioni, da una parte e del diritto alla difesa, dall’altra.

Ed esso si deve fondare su una valutazione rigorosa del requisito di pertinenza, nella prospettiva di una diretta e necessaria strumentalità, della registrazione all’apprestamento della finalità difensiva nell’orizzonte sopra illustrato, all’interno di una scrupolosa contestualizzazione della vicenda.

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 31204 del 2 novembre 2021

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