Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24238 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24238 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/08/2025
Oggetto: Consob -Amministratore senza delega.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22539/2019 R.G. proposto da
CONSOLI VINCENZO, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME, dall’avv. NOME COGNOME e dal prof. avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del primo.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME NOME COGNOME e domiciliata presso la propria sede in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia n. 99/2019, pubblicata il 15/1/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 Aprile 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con delibera n. 20033 del 14/06/2017, come modificata dalla delibera n. 20057 del 06/07/2017, la Consob, all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 195 d.lgs. n. 58 del 1998, applicò a NOME COGNOME nella sua qualità di amministratore delegato dal 30/4/2011 al 26/4/2014 e di direttore generale dal 26/4/2014 al 31/7/2015 di Veneto Banca s.p.a., la sanzione pecuniaria di euro 300.000,00 per la violazione delle seguenti norme:
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F., e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), del T.U.F., e degli artt. 39 e 40 dal Regolamento Consob n. 16190 del 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-31/12/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di valutazione di adeguatezza delle operazioni;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. (Periodo di riferimento: 18/12/2012-31/08/2015), per avere la Banca tenuto comportamenti irregolari, tra l’altro, nell’ambito dei ‘trasferimenti tra privati’ delle azioni Veneto Banca e dei finanziamenti concessi ai clienti per l’acquisto delle azioni di propria emissione;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F., e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F., e dell’art. 49, commi 1 e 3, del Regolamento Consob n. 16190 dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-10/2/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di gestione degli ordini dei clienti;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), del T.U.F., e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob
dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-18/04/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate in materia di pricing delle azioni di propria emissione;
violazione dell’art. 8, comma 1, T.U.F., in materia di vigilanza informativa della Consob (periodo 23/5/2014-22/4/2015) con riferimento all’operazione di aumento del capitale 2014, per avere reso informazioni rivelatesi non veritiere in seguito ad accertamenti ispettivi (periodo 12/6/2014-12/1/2015).
Il giudizio di opposizione, proposto da NOME COGNOME si concluse, nella resistenza della Consob, con la sentenza n. 99/2019, pubblicata il 15/1/2019, con la quale la Corte d’Appello di Venezia rigettò il ricorso.
Contro la predetta sentenza, NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Consob – Commissione
Nazionale per le Società e la Borsa si difende con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta la mancanza assoluta di motivazione o, comunque, la motivazione solo apparente con riguardo all’art. 190 T.U.F. e all’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., e, in via subordinata, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 190 T.U.F., e dell’art. 49 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito escluso la natura sostanzialmente penale delle sanzioni di cui all’art. 190 T.U.F., che avrebbe reso incostituzionale il regime intertemporale previsto dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma terzo dello stesso articolo alle sanzioni amministrative previste dagli illeciti ex art. 190 T.U.F.
Ad avviso del ricorrente, i giudici avevano fondato la decisione sulla base di numerose decisioni di questa Corte, che avevano escluso l’applicabilità ad esse del favor rei , senza però esplicitare i motivi per i quali, nel caso concreto, non fossero condivisibili le argomentazioni dell’opponente circa la natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata, alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza europea e dei casi da questa trattati, così affidandosi ad una motivazione per relationem , e senza considerare che nessuna delle pronunce citate individuava le ragioni che avrebbero portato ad escludere la natura sostanzialmente penale di siffatte sanzioni – valutate collettivamente e in astratto in contrasto con la necessità di una loro valutazione in concreto alla stregua di quanto affermato dalla CEDU , e che l’afflittività della sanzione avrebbe dovuto essere verificata in concreto alla luce dei criteri Engel, specie in considerazione di quanto affermato con la pronuncia della Corte Costituzionale con la sentenza n. 63 del 21/3/2019.
In ragione di ciò si profilava anche il vizio di violazione di legge, giacché i giudici non avevano applicato l’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea alla luce della giurisprudenza EDU, che aveva considerato sostanzialmente penali sanzioni analoghe – per natura, interessi tutelati, fini e cornice edittale a quelle previste dall’art. 190 cit.
Col medesimo motivo, il ricorrente ha anche proposto domanda pregiudiziale da sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in relazione all’art. 190 T.U.F. e all’art. 49 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, anche alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 21/3/2019, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 del medesimo articolo alle sanzioni amministrative previste per l’illecito
disciplinato dall’art. 187 -bis T.U.F., sulla base della natura punitiva delle stesse, siccome poste a tutela dei mercati finanziari e aventi finalità deterrenti e punitive mediante comminatoria di una sanzione severa specie con riguardo al massimo applicabile, e delle pronunce della Corte Edu, che aveva considerato sostanzialmente penali sanzioni analoghe per cornice edittale e interessi tutelati a quelle previste dall’art. 190 T.U.F., e di quelle della Corte di Giustizia, posto che, dal riconoscimento della natura penale delle sanzioni irrogate, sarebbe derivata l’applicabilità del principio del favor rei , che, in virtù dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Corte di Giustizia era competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei Trattati e sulla validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, e che non esisteva allo stato una giurisprudenza della Corte europea sulle questioni prospettate, né era stata mai sollevata questione pregiudiziale su analoga questione.
1.2 Il primo motivo è infondato.
Al riguardo, occorre osservare come la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, debba essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Nella specie, i giudici di merito hanno escluso l’applicabilità alla specie delle modifiche normative apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 agli artt. 190bis e 191 T.U.F., laddove prevedono un trattamento più favorevole, ascrivendo esclusivamente all’intermediario la responsabilità per la violazione del T.U.F., quali quelle addebitate al ricorrente, sia in ragione del contenuto dell’art. 6 del medesimo d.lgs. che ne escludeva l’applicazione a violazioni antecedenti alla sua entrata in vigore, sia delle numerose decisioni di questa Corte, citate espressamente nella pronuncia, favorevoli a questo orientamento interpretativo.
Deve allora escludersi la dedotta nullità per omessa motivazione o motivazione apparente, avendo i giudici chiaramente fatto comprendere la ratio decidendi sul punto.
1.3 1.3 Quanto alla dedotta violazione di legge e alla questione pregiudiziale, si osserva come questa Corte si sia già espressa, anche recentemente, nel senso che non è possibile l’equiparazione
delle sanzioni amministrative in oggetto, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate per manipolazione del mercato ex art. 187 e ss. T.U.F., sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti (cfr. Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833; Cass. Sez. 1, 30/06/2016, n. 13433; Cass. Sez. 1, 02/03/2016, n. 4114; Cass. Sez. 2, 22-09-2017 n. 27837 e Cass. Sez. 2 24/02/2016, n. 3656, tutte in rapporto a Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, COGNOME e altri c. Italia).
Non si può condividere, pertanto, l’assunto della difesa del ricorrente secondo cui le suddette sanzioni devono essere considerate afflittive, e dunque, sostanzialmente penali.
Al riguardo si richiama integralmente quanto già affermato da Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154, sia in ordine alla natura amministrativa della sanzione relativa all’art. 190 T.U.F., sia alla insussistenza dei presupposti per disporre il sollecitato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul punto, condividendosi integralmente le relative argomentazioni.
In particolare, la suddetta pronuncia è partita dai principi affermati dalla Corte costituzionale, secondo cui, relativamente alle singole sanzioni amministrative aventi natura e finalità «punitiva», il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior – deve estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU, atteso che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) «è
suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011), con conseguente retroattività della lex mitior in materia penale, sia in ragione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., sia dell’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia; Corte EDU, sentenza 24 gennaio 2012, NOME COGNOME c. Romania; Corte EDU, sentenza 12 gennaio 2016, COGNOME c. Andorra; Corte EDU, sentenza 12 luglio 2016, COGNOME c. Ucraina), sia di altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, e l’art. 49, par. 1, della CDFUE (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019).
E’ stato anche ricordato quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 193 del 2016, che ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata «amministrativa» dal diritto interno) come «convenzionalmente penale», alla luce dei criteri Engel», precisando che la retroattività in mitius della legge penale, così come delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo, è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampio riconoscimento nel diritto internazionale
e nel diritto dell’Unione europea, siccome enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, quanto dall’art. 49, par. 1, terzo periodo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE).
Ciò ha indotto la Consulta a concludere, con la sentenza n. 393 del 2006, che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo . Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al trasgressore deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (Corte cost.).
Con specifico riguardo alle sanzioni ex art. 190 T.U.F., di cui l’orientamento costante di questa Corte ha escluso la natura penale (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17574 del 2022; Cass. Sez. 2, n. 8855 del 05/04/2017; Rv. 643735 – 01; Cass. Sez. 2, n. 23945 del 2019, con richiami), Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154 ha analizzato i criteri, alternativi e non cumulativi, c.d. Engel, elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e dati dalla qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale e dalla natura e grado di severità della «sanzione», per poi escludere a sua volta, pur nella consapevolezza che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione punitiva si inserisce, la natura penale delle sanzioni in esame, sia in ragione della qualificazione giuridica (illecito amministrativo) attribuita chiaramente dal legislatore; sia della natura (assenza di un divieto generale di generale applicabilità, essendo la norma indirizzata ad una platea ristretta di possibili
destinatari -i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche -, e assenza di finalità retributive, trattandosi di illeciti derivanti da trasgressioni di norme che impongono obblighi comportamentali riferiti all’organizzazione dei servizi finanziari), sia del grado di severità (assenza della connotazione dell’afflittività economica).
Sotto quest’ultimo profilo, si è anche detto che, secondo la formulazione applicabile ratione temporis , valevole peraltro anche nel caso di specie, l’importo delle sanzioni è compreso nella forbice edittale da euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila e che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può comunque essere svolta in termini totalmente astratti e assoluti, ma deve essere necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce e al bene giuridico tutelato, dovendo considerarsi, da un lato, che nell’ordinamento sezionale del credito e della finanza sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che possono ascendere a molti milioni di euro; dall’altro lato, la tutela dei consumatori degli investitori e del mercato finanziario e del risparmio.
In questi stessi termini si sono pronunciate, tra le tante, anche Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833, secondo cui la sanzione prevista da tali norme, non corredata da sanzioni accessorie, né da confisca, non ha un’afflittività ‘così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale’ (vedi anche Cass., Sez. 2, 10/8/2023, n. 24375), e Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855, secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF), non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle inflitte ai sensi dell’art. 187ter del TUF per manipolazione del mercato, sicché non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate
ai processi penali dall’art. 6 CEDU, in particolare quanto alla violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti.
In ragione di quanto detto, la pronuncia in esame ha ritenuto di rigettare le istanze di rimessione pregiudiziale alla CGUE e la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015 (nonché delle norme contenute nella legge di delega), rigetto che, per gli stessi motivi sopra enunciati, deve essere ribadito anche in questa sede.
2.1 Con il secondo motivo si lamenta la violazione del combinato disposto degli artt. 3 e 195 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, dell’art. 24 della legge 24 dicembre 2005, n. 262, e dell’art. 4 del Regolamento Generale sui procedimenti sanzionatori della Consob, con conseguente violazione del diritto alla celerità e alla certezza del procedimento sanzionatorio e del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e, in subordine, la motivazione solo apparente e comunque contraddittoria della decisione impugnata con riguardo alla violazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello rigettato la censura, con la quale era stata lamentata la violazione del termine di durata del procedimento sanzionatorio prescritto dall’art. 4 del Regolamento Consob applicabile ratione temporis , sostenendo che i termini previsti dal predetto Regolamento avessero natura meramente acceleratoria e non perentoria, sicché la loro inosservanza non avrebbe prodotto alcuna conseguenza sul provvedimento finale, atteso che, in tema di sanzioni amministrative, il procedimento preordinato alla loro irrogazione sfuggiva all’ambito di applicazione della legge n. 241 del 1990, in quanto, in ragione della sua natura sanzionatoria, compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge n. 689 del 1981, mentre
nessuna rilevanza assumeva l’art. 4 del Regolamento Consob, stante l’inidoneità di un regolamento interno, emesso sull’erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ex lege n. 241 del 1990, a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981.
Il ricorrente, dopo avere premesso di non avere mai chiesto l’applicazione della legge n. 240 del 1990, ma solo della legge n. 689 del 1981, ha asserito che l’errore commesso era dato dal fatto che i giudici avessero richiamato precedenti giurisprudenziali riferiti al Regolamento di cui alla delibera n. 12687 del 2/8/2000, che costituiva effettivamente esecuzione della legge n. 241 del 1990, e non a quello corretto adottato con delibera n. 18750 del 2013, che, correggendo il richiamo normativo del precedente alla stregua di quanto affermato da questa Corte, trovava fondamento nella normativa primaria di settore contenuta nell’art. 3, comma 2, del T.U.F., e nell’art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262, che indicavano, per l’appunto, la necessità che Consob e Banca d’Italia stabilissero termini e procedure per l’adozione degli atti di propria competenza, stabilendo anche i casi di necessità e di urgenza o le ragioni di riservatezza per cui era ammesso derogarvi. In tema di procedimento sanzionatorio Consob, esistono infatti, ad avviso del ricorrente, due termini distinti, uno che inizia a decorrere dall’accertamento della violazione e termina con la contestazione dello stesso e l’altro che inizia a decorrere dalla contestazione e termina con la notifica del provvedimento: mentre la legge n. 689 del 1981 prevede un termine per la notifica della contestazione (90 giorni dall’accertamento per i residenti e 360 per i residenti all’estero), che è stato derogato, in materia finanziaria, dall’art. 195 T.U.F., attraverso la previsione, conseguente alla modifica di cui al d.lgs. n. 164 del 2007, di un termine di 180 giorni dall’accertamento per i residenti in Italia e di 360 per i residenti all’estero, nessun termine è previsto, invece, per la conclusione del
procedimento sanzionatorio, per il quale è stabilita la sola prescrizione quinquennale del diritto a riscuotere le somme dovute. In tale contesto si inserisce, secondo il ricorrente, la normativa secondaria e, in particolare, l’art. 4 del nuovo Regolamento, il quale ribadisce, al primo comma, il termine perentorio di cui all’art. 195 T.U.F., e prevede, in forza degli artt. 3 T.U.F. e 24 legge n. 262 del 2005, il termine, altrettanto perentorio e non meramente ordinatorio come scritto in sentenza, per la conclusione del procedimento sanzionatorio, fissandolo in 200 giorni dal trentesimo giorno successivo alla data di perfezionamento della notificazione della lettera di contestazione degli addebiti. Ciò significa che la norma regolamentare ha soltanto integrato e non modificato quanto disposto dalla legge n. 689 del 1981, sicché i giudici d’appello avevano sbagliato nel considerare ordinatorio e non perentorio il termine di cui all’art. 4 del Regolamento, benché dettato dall’esigenza di evitare il protrarsi di procedimenti irragionevolmente lunghi nel rispetto del buon andamento dell’Amministrazione e dei diritti del soggetto sanzionando, termine che, nella specie, era stato violato, in quanto, in seguito all’apertura della fase decisoria in data 10/5/2016 e per effetto della sospensione del menzionato termine intervenuta, una prima volta, in occasione della notifica della Relazione e poi, una seconda volta, in seguito alla notifica della Relazione integrativa, il termine ultimo per la conclusione sarebbe stato quello de 26/7/2017, mentre la notifica del provvedimento sanzionatorio si era perfezionata solo il 8/8/2017, così come tardivamente era avvenuta la formazione del provvedimento con la sottoscrizione della delibera 20033 e della delibera 20057, intervenuta rispettivamente il 1 e il 2 agosto 2018.
In subordine, il ricorrente ha censurato la pronuncia in quanto, facendo un richiamo per relationem a pronunce di questa Corte, spesso non conferenti, non aveva dato conto delle ragioni per le
quali il termine andava considerato ordinatorio e non perentorio alla luce delle argomentazioni proposte dalla sua difesa (Regolamento diverso e ragioni per le quali il previgente Regolamento non prevedesse termini perentori), così rendendo una motivazione contraddittoria e meramente apparente, con conseguente sua nullità.
2.2 Il secondo motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di analizzare, con l’ordinanza n. 10922 del 23/4/2024, non massimata sotto questo profilo, proprio l’art. 4 del Regolamento Consob 18750/2013, affermando che questo, al pari dei precedenti, era stato adottato in forza della previsione dell’art. 24 legge n. 262 del 2005, il quale ‘non aveva conferito alla Consob il potere di porre un termine perentorio all’esercizio della sua potestà sanzionatoria, non essendo stata introdotta – con norma primaria – alcuna deroga al regime generale delle sanzioni amministrative ricadenti nella disciplina della legge n. 689 del 1981 (Cass., Sez. 2, 17/1/2024, 1833; Cass., Sez. 2, 31/5/2022, n. 17670). Si è posto in evidenza che la norma regolamentare che stabilisce un termine alla conclusione del procedimento sanzionatorio non pertiene al nucleo irriducibile delle garanzie del contraddittorio endo-procedimentale, che è rappresentato dalla contestazione dell’addebito e dalla valutazione delle controdeduzioni dell’interessato (cfr. Cass., Sez. 2, 11/2/2022, n. 4521), ma ha una funzione esclusivamente sollecitatoria e ordinatoria dell’attività degli uffici delle Autorità di vigilanza, potendosi qualificare come «norma di azione» e non come «norma di relazione» (Cass., Sez. 2, 11/2/2022, n. 17670). In definitiva, in tema di sanzioni amministrative, il procedimento preordinato alla loro irrogazione non soltanto sfugge all’ambito di applicazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, poiché, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge 21 novembre 1981, n. 689, ma nessuna rilevanza può
attribuirsi al termine per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4 del Regolamento Consob, dovendosi confermare quanto già ritenuto da questa Corte con riferimento al Regolamento 2 agosto 2000, n. 12697, inidoneo a regolare i tempi del procedimento e a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981 (Cass., Sez. 2, 1/3/2007, n. 4873; Cass., Sez. 2, 29/10/2010, n. 22199; Cass., Sez. 2, 20/2/2008, n. 4329). Data l’impossibilità di invocare per il procedimento di cui si discute le garanzie costituzionali e convenzionali che invece sono approntate per le sanzioni penali, ancorché solo in senso sostanziale, occorre ribadire che (Cass. Sez. U, 27/4/2006, n. 9591 e Cass., Sez. U, 30/9/2009, n. 20929), in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 21octies , secondo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241, gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dall’art. 195 del d.lgs. 58 del 1998, che si svolge innanzi alla Commissione nazionale per la società e la borsa, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto. Tale disposizione, introdotta dall’art. 14 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha carattere processuale, ed è pertanto applicabile con effetto retroattivo anche ai giudizi di opposizione in corso, ancorché promossi in epoca successiva alla sua emanazione (Cass., Sez. 2, 18/4/2018, n. 9517; e in genere per il procedimento anche relativo a sanzioni diverse da quelle di cui al TUF, Cass., Sez. L, 6/9/2018, n. 21706; Cass., Sez. 1, 20/3/2018, n. 6965; Cass., Sez. 2, 20/1/2022, n. 1770; Cass., Sez. 2, 28/4/2022, n. 13345). Non occorre, quindi, stabilire se sia stato o meno rispettato il termine appositamente fissato con Regolamento della Consob, non potendo siffatto accertamento condurre all’estinzione della sanzione’.
Nella specie, i giudici di merito hanno evidenziato la natura meramente acceleratoria dei termini previsti dal Regolamento n. 18740/2013, escludendo che la sua violazione potesse riverberarsi sul provvedimento finale, viziandolo. Al riguardo, hanno sostenuto che il procedimento di sua irrogazione sfuggisse all’ambito di applicazione della legge n. 241 del 1990, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, era retto dai principi sanciti dalla legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che non assumeva alcuna rilevanza il termine stabilito per la conclusione del procedimento dall’art. 4 del Regolamento Consob, attesa l’inidoneità di un regolamento interno a modificare le disposizioni della citata legge n. 689 del 1981.
Tali considerazioni consentono di escludere non soltanto la dedotta nullità della sentenza, dovendosi escludere il vizio di insussistenza della motivazione o di motivazione apparente, alla luce dei principi già esplicitati nel punto 1.2 che precede, ma anche la violazione di legge, essendosi i giudici di merito espressi in conformità agli insegnamenti di questa Corte come sopra ricordati anche con riguardo al Regolamento del 2013, al quale, analogamente a quanto affermato con riguardo al Regolamento del 2000, non può attribuirsi l’effetto di dettare un termine per la conclusione del procedimento.
Deriva da quanto detto l’infondatezza della censura.
Col terzo motivo si lamenta la mancanza assoluta di motivazione o, comunque, la motivazione solo apparente della decisione impugnata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito rigettato la censura riguardante la quantificazione della sanzione operata dalla Consob, senza neppure dedicare un paragrafo all’argomento, ma limitandosi ad affermare, con riguardo al profilo soggettivo degli illeciti, che nel quadro esaminato non vi fosse spazio per una rimodulazione del titolo di responsabilità e quindi per la riduzione della sanzione. In sostanza,
i giudici di merito non avevano indicato le ragioni per le quali avevano avallato la quantificazione della sanzione, posto che i rilievi svolti in relazione alla componente comportamentale, al periodo temporale preso in esame per ciascuna violazione e alla moltiplicazione delle ipotesi di violazione avevano avuto a riferimento la sola sussistenza delle violazioni contestate e non l’entità della sanzione, e che era stato preso in esame un arco temporale esageratamente lungo e non quello, più contenuto, indicato e motivato nel ricorso, quantomeno con riferimento a quattro delle cinque ipotesi di violazione contestate (sulla prima era stato esaminato quello dal 1/7/2009 al 1/9/2015 e non quello contestato dalla Consob dal 1/6/2011 al 31/12/2015; quanto alla seconda, era stato considerato il periodo di tempo che la riguardava, che non risaliva ad epoca antecedente al 2013; sulla terza, erano state seguite le indicazioni della Consob, salvo poi dire che il periodo si riferiva dal 1/1/2013 al 10/2/2015 e successivamente che la situazione risaliva al mese di aprile 2011, così da essere stati individuati tre diversi periodi temporali in difformità dalle indicazioni della Consob; sulla quarta, non si capiva il periodo di riferimento preso in considerazione), con la conseguenza che la sentenza era, sotto questo profilo, affetta da nullità perché priva di motivazione o fondata su motivazione apparente.
4.2 Il terzo motivo è, parimenti, infondato.
Va, infatti, osservato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel caso di contestazione della misura della sanzione, il giudice è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero e alla consistenza degli addebiti, e a reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse (Cass., Sez. 2, 2/4/2015, n. 6778).
Non è, invece, tenuto a controllare la motivazione dell’ordinanzaingiunzione, dovendo determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della legge n. 689 del 1981 (Cass., Sez. 2, 15/06/2020, n. 11481; Cass., Sez. 2, 17/07/2024, n. 19716).
Nella specie, i giudici di merito hanno parametrato la sanzione, sostenendo che fosse emerso il ruolo incisivo assunto dal ricorrente nella realizzazione delle condotte illecite, descritte ampiamente nella motivazione e non contestate in questa sede, e che queste fossero scientemente orientate nella direzione di rafforzare le esigenze di patrimonializzazione della Banca a discapito degli interessi della clientela, atteso che il predetto non aveva adempiuto ai doveri legali legati alla sua carica di amministratore delegato prima e di direttore generale poi e aveva, anzi, assunto un ruolo centrale nella ideazione e realizzazione degli illeciti, rappresentando un punto di raccordo tra l’organo gestorio e la rete operativa, sicché non vi era spazio per una rimodulazione del titolo di responsabilità e quindi per la riduzione della sanzione.
Tali considerazioni consentono allora di escludere la dedotta nullità della sentenza per difetto di motivazione, censura che si pone in contrasto con i principi affermati da questa Corte in merito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riportati nel precedente punto 1.2.
5. In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda