Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1154 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 1154 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/01/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10714/2019 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOMECOGNOME
-ricorrenti –
contro
COMMISSIONE NAZIONALE PER LE SOCIETÀ E LA RAGIONE_SOCIALE – RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo
studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 116/2018 depositata il 28/09/2018;
lette le conclusioni scritte rese dalla Sostituta Procuratrice Generale, dott.ssa NOME COGNOME
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/04/2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con delibera n. 19994 del 03.05.2017 la Commissione Nazionale per le Società e l a Borsa (‘Consob’) condannava gli odierni ricorrenti l’istituto di credito Banco delle Tre Venezie, nonché taluni membri degli organi direttivi (Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale Direzione Generale, funzione di conformità alle norme) – al pagamento di sanzioni amministrative, disponendone la pubblicazione per estratto. Il provvedimento amministrativo sanzionatorio, avviato con atto di contestazione Consob del 30.08.2016, era stato originato da un’attività di vigilanza ispettiva posta i n essere dalla Banca d’Italia (su richiesta di Consob) nel periodo compreso tra il 1 ottobre e il 30 dicembre 2015, riferita a violazioni ascritte ai ricorrenti nel periodo compreso tra il 01.01.2012 e il 30.12.2015.
1.1. Con la menzionata delibera, Consob ravvisava a carico degli esponenti aziendali e dell’organo di controllo del Banco delle Tre Venezie tre violazioni del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (‘ T.U.F. ‘) :
-i.) dell’art. 21, comma 1, lett. d) del T.U.F. (e dell’art. 15 del Regolamento Congiunto Banca d’Italia-Consob del 29.10.2007 adottato ai sensi dell’art. 6, comma 2bis del T.U.F., ‘Reg. C ongiunto ‘) e lett. a) del T.U.F. (e degli artt. 41 e 42 del Regolamento Consob n.
16190 del 29.10.2007, ‘R eg. RAGIONE_SOCIALE ‘ ), con riferimento al modello di relazione con la clientela ed alla valutazione di appropriatezza degli investimenti;
-ii.) dell’art. 21, comma 1, lett. d) del T.U.F. (e dell’art. 15 del Reg. Congiunto) e lett. a) del T.U.F. (e degli artt. 31, 52, comma 1, lett. b), punto b1, e 56 Reg. Intermediari), in materia di obblighi di informazione e di rendicontazione nei confronti dei clienti;
-iii.) dell’art. 21, comma 1bis , lett. a) e b), del TUF (e degli artt. da 23 a 26 Reg. Congiunto), in materia di conflitti di interesse.
Con ricorso in opposizione del 20.07.2017 ex art. 195, commi 4 ss. T.U.F., la delibera veniva opposta in via congiunta dagli odierni ricorrenti innanzi alla Corte d’Appello di Venezia, la quale respingeva l’istanza. A sostegno della sua decisione, per quanto qui ancora rileva, osservava la Corte che:
non può dirsi tardiva la contestazione degli addebiti da parte della Consob, in pretesa violazione del termine di 180 giorni di cui all’art. 195, comma 1, T.U.F., con conseguente decadenza della PA dal potere sanzionatorio. Infatti, la contestazione era derivata dall’attività ispettiva della Banca d’Italia conclusasi il 31.01.2016; la Relazione della Banca d’Italia era stata trasmessa alla Consob in data 14.03.2016; l’atto di contestazione era stato notificato agli interessati il 30.08.2016. Per insegnamento costante della Corte di legittimità, nel caso in cui l’Autorità che effettua i rilievi ispettivi sia diversa dall’Autorità che procede alle contestazioni, l’atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dalla prima Autorità non siano portati a conoscenza della seconda; dovrà, inoltre, presumersi -salvo prova contraria -che l’ Autorità non ispezionante sia in grado di apprezzare, ai fini sanzionatori, le irregolarità riscontrate solo dal momento in cui sia trasmessa notizia
dall’autorità ispezionante: nel caso di specie, dalla data in cui Consob ha ricevuto gli esiti delle verifiche (14.03.2016) alla data dell’atto di contestazione (30.08.2016) sono decorsi meno di 180 giorni (169). E ciò senza neppure considerare che, dalla materiale ricezione degli esiti delle verifiche compiute dalla Banca d’Italia sarebbe in ogni caso necessario un ulteriore spatium deliberandi in capo a Consob, al fine di operare le necessarie valutazioni sugli esiti trasmessi;
-è infondata la pretesa violazione dell’art. 27, comma 1 -bis , del d.lgs. del 6 settembre 2005, n. 206 (cod. cons.), introdotto dall’art. 1, comma 6, lett. a) del d.lgs. n. 21/2014. Secondo gli opponenti, le violazioni i.) e ii.) loro contestate da Consob finirebbero per presentare i tratti tipici di una pratica commerciale scorretta, di talché non spetterebbe alla Consob accertare e sanzionare tali presunti illeciti, bensì all’ AGCM. Invece, gli addebiti mossi ai ricorrenti attengono, da un lato, alla violazione di obblighi attinenti alla prestazione di servizi di investimento e alla valutazione di appropriatezza delle operazioni (violazione i. ) e, dall’altro lato, alla violazione di obblighi attinenti all’informativa alla clientela (violazione ii. ). L’accer tamento e il potere sanzionatorio sono stati esercitati in relazione a specifici aspetti della prestazione di servizi di investimento (dettagliatamente disciplinati da disposizioni normative) che non valgono ad integrare una pratica commerciale scorretta. Prova ne sia che, anche in difetto del richiamo normativo all’art. 21, comma 1, lett. a) del T.U.F. le condotte ascritte comunque rientrerebbero nell’ambito di applicazione delle restanti diposizioni normative (di legge e regolamentari) indicate nella delibera e, in relazione alle medesime, non sarebbe in alcun modo negabile la competenza sanzionatoria della Consob;
-deve escludersi l’applicabilità del regime sanzionatorio precedente più favorevole introdotto dall’art. 5 d.l.gs. 12 maggio 2015, n. 72
(recante attuazione della dir. 2013/36/UE CRD IV), che prevedeva l’applicazione della sanzione amministrativa per inosservanza dell’art. 21 T.U.F. solo agli enti, non anche ai relativi esponenti aziendali, in quanto le sanzioni irrogate ai sensi dell’art. 190 T.U.F. non sono in alcun modo equiparabili a quelle irrogate ai sensi dell’art. 187 -ter T.U.F. per la manipolazione del mercato, non avendo natura sostanzialmente penale (Cass. n. 9561/2018; Cass. n. 8855/2017);
priva di fondamento è la censura che attiene al preteso mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento stabilito dall’art. 4, comma 2, del nuovo Regolamento, alla luce del reiterato insegnamento del giudice di legittimità (Cass. n. 20929/2009; Cass. n. 1065/2014) che ritiene applicabile alla fattispecie in questione la previsione dell’art. 21 -octies della l. n. 241/1990 e, conseguentemente, irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento l’eventuale violazione del termine di conclusi one del provvedimento sanzionatorio, in ragione della natura vincolata del provvedimento e dell’immodificabilità del suo contenuto .
Avverso detta pronuncia i ricorrenti proponevano congiuntamente ricorso per cassazione, affidandolo a cinque motivi.
Si difendeva Consob depositando controricorso, illustrato da memoria.
La Sostituta Procuratrice Generale si esprimeva per l’infondatezza di tutti i motivi del ricorso.
In prossimità dell’udienza perveniva memoria dei ricorrenti, ove si dava anche atto dell’avvenuto decesso, in data 24.11.2020 pendente il giudizio innanzi a questa Corte, di NOME COGNOME Depositato il certificato di morte, si chiedeva in via preliminare la dichiarazione di cessazione della materia del contendere nei suoi confronti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, preso atto dell’intervenuto decesso di NOME COGNOME deve dichiararsi nei suoi confronti la cessazione della materia del contendere. La morte dell’autore della violazione, comportando l’estinzione dell’obbligo di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi, attesa la natura personale della responsabilità amministrativa, determina la cessazione della materia del contendere, senza alcuna regolamentazione delle spese di lite, poiché, non potendo trovare applicazione i principi della soccombenza e della causalità propri della c.d. soccombenza virtuale, in quanto l’erede succede nel processo, ma non nel lato passivo del rapporto giuridico sanzionatorio che ne forma l’oggetto sostanziale, il carico delle spese resta regolato dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale ciascuna parte anticipa e sostiene le proprie (v. ex multis : Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 16747 del 24/05/2022, Rv. 664888 – 01).
Con il primo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ., e/o violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. dell’art. 195 T.U.F. in relazione all’eccezione di tardiva contestazione degli addebiti. Lamenta il ricorso la mancata verifica, da parte del giudice dell’opposizione, dell’effettivo contenuto dell’ atto di contestazione emesso da Consob in data 30.08.2016. Nella prospettazione dei ricorrenti, infatti, si sarebbe in presenza di un mero esercizio di «copia e incolla», con cui l’Autorità per la vigilanza dei mercati finanziari dà espressamente atto che le irregolarità di cui è causa erano state contestate dagli ispettori di Banca d’Italia, limitandosi essa a formalizzare e poi notificare un atto meramente riproduttivo di un
precedente Rapporto di Banca d’Italia datato 13.01.2016, rispetto al quale non sono stati effettuati da Consob approfondimenti o supplementi istruttori. A giudizio dei ricorrenti, tale fatto risulta decisivo, poiché il suo riscontro comporta che il dies a quo per la decorrenza dei 180 giorni ai fini della contestazione dell’addebito ( ex art. 195, comma 1, T.U.F.) decorrano dalla data di redazione del Rapporto a cura di Banca d’Italia, 13.01.2016, non già dalla sua trasmissione a Consob in data 14.03.2016, rendendo così palesemente tardive le relative contestazioni per decorrenza dei termini. Tanto più, proseguono i ricorrenti, se si ha riguardo al fatto che il suddetto Rapporto di Banca d’Italia era stato trasmesso all’Autorità richiedente ben due mesi dopo la sua redazione (nonché due mesi e mezzo dopo la chiusura dell’attività ispettiva , terminata in data 30 dicembre 2015), malgrado il Protocollo d’Intesa tra Banca d’Italia e Consob preveda esplicitamente al punto 7, dedicato alla Vigilanza Ispettiva, che gli esiti delle verifiche siano trasmessi quanto prima all’Autorità richiedente.
2.1. Il motivo è infondato. La sentenza ha fatto puntuale applicazione dei principi di diritto più volte enunciati in materia da questa Corte. Qualora, infatti, come nel caso in esame, il soggetto abilitato a riscontrare gli estremi della violazione sia diverso da quello incaricato della ricerca e della raccolta degli elementi di fatto, l’atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dal secondo non siano portati a conoscenza del primo, dovendo escludersi che le attività svolte dai due diversi organi possano essere considerate unitariamente al fine di valutare la congruità del tempo necessario per l’accertamento delle irregolarità e, conseguentemente, la ragionevolezza di quello effettivamente impiegato dall’amministrazione. Da tanto deriva che, in tema di disciplina dell’attività di intermediazione finanziaria, essendo la
vigilanza delle norme, la cui violazione è sanzionata come illecito amministrativo, affidata appunto alla Consob, e non alla Banca d’Italia (la quale non è legittimata ad avviare il procedimento sanzionatorio), il momento iniziale di decorrenza del termine per la contestazione non può essere fatto coincidere con il deposito presso la Banca d’Italia della relazione ispettiva redatta dal Servizio di vigilanza della medesima Banca d’Italia ( ex multis : Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9456 del 19/05/2004, Rv. 572933 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5395 del 09/03/2007, Rv. 596028 -01; conf.: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25836 del 02/12/2011, Rv. 620363 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8687 del 03/05/2016, Rv. 639747 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9254 del 16/04/2018, Rv. 648081 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21171 del 08/08/2019, Rv. 655194 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9022 del 30/03/2023, Rv. 667516 -01). Compete al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per l’ accertamento, in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 26734, 13/12/2011, Rv. 620263), dovendosi tener conto, a tal fine, del tempo strettamente necessario affinché, al termine delle verifiche preliminari, la constatazione dei fatti avrebbe potuto essere tradotta in accertamento, senza ingiustificati ritardi derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati ai diversi organi (per tutte: Cass. Sez. U, n. 5395 del 2007, cit.), avuto riguardo, oltre che alla complessità della materia, alle particolarità del caso concreto, anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 21171 del 2019, cit.). A tal proposito, è stato ulteriormente precisato che il termine per la contestazione all’interessato, stabilito, a pena di decadenza, dall’art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (applicabile anche nel campo
delle violazioni di norme in materia di intermediazione finanziaria), decorre non già dal momento in cui il «fatto» è stato acquisito nella sua materialità ma, dovendosi tener conto anche del tempo necessario per la valutazione dell ‘ idoneità di tale fatto ad integrare gli estremi (oggettivi e soggettivi) di comportamenti sanzionati come illeciti amministrativi, da quando l’accertamento è stato compiuto o avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato dall’organo addetto alla vigilanza delle disposizioni che si assumono violate ( ex multis , di recente: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27702 del 29/10/2019, Rv. 655683 – 01).
2.2. Nel caso che ci occupa, la Corte d’Appello, esaminata la sequenza dell ‘a ttività ispettiva, tenuto presente il necessario ulteriore spatium deliberandi in capo alla Consob al fine di operare le necessarie valutazioni sugli esiti trasmessi, ha ritenuto che i 169 giorni intercorsi tra la data di ricezione degli esiti delle verifiche (14.03.2016) e la data dell’atto di contestazione (30.08.2016) rappresentassero un lasso di tempo ragionevole per l’accertamento , a prescindere dal fatto che il rapporto ispettivo fosse stato inviato da Banca d’Italia Consob a oltre due mesi di distanza dopo la sua redazione, posto che deve escludersi la considerazione unitaria delle attività svolte dai due diversi organi.
2.2.1. Né a pregio quanto affermato in ricorso riguardo al fatto che la Corte distrettuale avrebbe omesso di valutare se l’atto di contestazione fosse stato o meno il frutto di un autonomo accertamento delle fattispecie sanzionate a cura di Consob, posto che lo spatium deliberandi menzionato in sentenza assolve esattamente allo scopo di valutare le risultanze delle indagini pervenute, per poi eventualmente avallare appieno – come nel caso in esame -le fattispecie sanzionatorie, ovvero approdare a conclusioni differenti.
2.3. Da quanto premesso deriva che le deduzioni tratte dal giudice dell’opposizione alla luce dei principi di diritto espressi da questa Corte non soffrono di manifesta implausibilità, tale da violare il «minimo costituzionale» (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629829 – 01) e tradursi perciò nel il vizio di motivazione apparente che, è bene ricordare, ricorre unicamente allorquando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante: Cass Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Cass. Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 23123 del 28/07/2023, Rv. 668609 – 01).
3. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. degli artt. 19, 20 e 27, comma 1bis , del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 -Incompetenza della Consob ad intervenire su pratiche commerciali scorrette. Erra la Corte d’Appello nell’interpretare l’art. 19, comma 3, cod. cons. (che riproduce l’art. 3, para. 4, Dir. 2005/29/CE) nel senso che es so regolerebbe il concorso (c.d. apparente) di previsioni normative tra loro incompatibili sulla scorta del c.d. «principio di specialità». Secondo i ricorrenti, tale interpretazione svilisce l’effettiva portata della norma, anche alla luce dell’intervento della CGEU (cause riunite C54/17 e C -55/17), in virtù della quale in presenza di una condotta astrattamente plurioffensiva (ovverossia idonea a violare sia la disciplina delle pratiche commerciali
scorrette sia quella di protezione dei consumatori recata da norme settoriali di matrice euro-unitaria), le previsioni consumeristiche cedono il passo a quelle di settore esclusivamente nelle ipotesi in cui queste ultime impongano obblighi «incompatibili» con le prime. Del resto, l’art. 27, comma 1 -bis (introdotto dall’art. 1, comma 6, lett. a) del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, attuativo della Dir. 1011/83/UE), attribuisce competenza esclusiva all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ( ‘ AGCM ‘ ) anche nei settori regolati dall’art. 9, comma 3, cod. cons. La disposizione in esame avrebbe, dunque, superato ogni incertezza interpretativa: in presenza di una condotta astrattamente plurioffensiva idonea a violare sia l’art. 20 cod. cons. sia una specifica previsione di settore a tutela dei consumatori che non contrasti con quella generale, è l’AGCM a detenere in via esclusiva la competenza ad intervenire nei confronti delle pratiche commerciali scorrette. Nel caso di specie, che coinvolge attività di prestazione di servizi e attività di investimento, il destinatario di tali prestazioni è il cliente-consumatoreinvestitore la cui tutela è prevista sia nell’art. 20 cod. cons. (che sanziona le pratiche commerciali scorrette), sia l’art. 21 T.U.F.: norme tra loro non contrastanti e rispetto alle quali, dunque, la competenza all’esercizio dell’azione di enforcement spetta esclusivamente all’AGCM.
3.1. Il motivo è infondato. Ai fini della trattazione del presente mezzo di gravame occorre innanzitutto ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza nazionale ed europea in ordine al riparto di competenze tra le due Autorità (AGCM, Consob); in un secondo momento, esaminare il settore generale delle pratiche commerciali scorrette e il settore particolare dei servizi finanziari (entrambi di derivazione comunitaria).
3.2. Nella definizione del rapporto di competenza tra AGCM, che opera nel mercato generale con funzioni di vigilanza, e Consob, che opera nel particolare settore finanziario, la norma fondamentale di riferimento è l’art. 19, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 ( ‘cod. cons.’) , che riproduce l’art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette. Tale norma prevede che «In caso di contrasto , le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni di disciplina delle pratiche commerciali scorrette e si applicano a tali aspetti specifici». Detta disposizione è stata oggetto di incertezze interpretative tra la giurisprudenza nazionale e le istituzioni europee.
In un primo momento, il Consiglio di Stato convenne nell’applicazione, quale criterio risolutore, del principio di specialità (parere n. 3999/2008, Sez. 1 del 03.12.2008), così optando per l’applicazione delle disposizioni del T.U.F. e non di quelle del codice del consumo, in ragione appunto della specialità delle prime rispetto alle seconde. L ‘ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenze 11 maggio 2012, nn. 11 – 13 e nn. 15 -16, ha poi stabilito che l’espressione «contrasto» tra la normativa sulle pratiche commerciali scorrette e quella di settore, contenuta nel sopra riportato art. 19 cod. cons., ai fini della individuazione dei casi in cui trova applicazione quest’ultima non deve essere intesa come «vera e propria antinomia normativa», ma come «diversità di disciplina».
A séguito di procedura di infrazione iniziata dalla Commissione europea (n. 2013-2169), il legislatore italiano ha introdotto, con d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, nell’art. 27 del Codice del consumo, il comma 1bis , il quale prevede quanto segue: «Anche nei settori regolati, ai
sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato …, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze». Ad interpretare detta norma era intervenuta nuovamente l’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (v. sentenze gemelle del 09.02.2016, nn. 3 e 4): richiamando concetti penalistici, il giudice amministrativo ha fatto applicazione del criterio dell’assorbimento o della consunzione, sul raffronto tra fattispecie concrete. Nel caso affrontato in tale sede (riguardante la preattivazione di servizi di navigazione Internet e segreteria degli telefonica a carico di consumatori inconsapevoli), non comprendendo l’illecito settoriale (d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 – Codice delle comunicazioni elettroniche) l’ ulteriore elemento dell’«indebito condizionamento» delle scelte del consumatore-utente, non poteva sostenersi che la normativa settoriale disciplinasse esaustivamente la condotta posta in essere dall’operatore telefonico: con conseguente applicazione residuale degli artt. 18 ss. cod cons. e riconoscimento nella competenza dell’AGCM .
Su rinvio pregiudiziale disposto dalla Sezione VI Consiglio di Stato, è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ( ‘CGUE’: sez. II, sentenza13 settembre 2018, nelle cause riunite C-54/17 e C-55/17). Utilizzando il criterio dell’incompatibilità tra norme, secondo la Corte
europea il «contrasto» sussiste unicamente quando «disposizioni estranee» alla direttiva n. 29 del 2005, disciplinanti «aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali», impongono «ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili» con quelli stabiliti dalla suddetta direttiva; nel qual caso la disciplina speciale prevale su quella generale delle pratiche commerciali scorrette. Sulla scorta delle indicazioni della CGUE, il Consiglio di Stato (sentenza n. 7699 del 2019) ha da ultimo stabilito che l’espressione «aspetti specifici» della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime -e con la relativa attribuzione di competenza all’Autorità di settore preposta: nel caso che ci occupa Consob – soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette. Ne consegue che la normativa di settore non disciplinerà pratiche commerciali scorrette, ma condotte che presentano aspetti di divergenza radicale con tali pratiche.
3.2.1. In definitiva, alla luce di quanto affermato dalla CGUE, la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell’AGCM; la competenza delle altre Autorità di settore è residuale, e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli «aspetti specifici» delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili.
3.3. L’art. 20 cod. cons. (comma 1) prevede che una pratica commerciale è scorretta se ricorrono cumulativamente due condizioni: a) la sua contrarietà alla diligenza professionale; b) la sua idoneità «a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica
commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori». Al precetto generale si aggiungono due criteri speciali di identificazione di comportamenti illeciti: le pratiche ingannevoli di cui agli articoli 21, 22 e 23; ovvero quelle aggressive, di cui agli articoli 24, 25 e 26 cod. cons. La fattispecie normativa generale consiste, dunque, nel vietare una pratica commerciale ingannevole/aggressiva idonea ad indurre un comportamento commerciale scorretto del consumatore, in quanto impedisce – ovvero è idoneo ad impedire – la formazione di un consenso libero ed efficiente distorcendone la capacità decisionale; solo all’esito di tale accertamento la pratica viene considerata dalla legge contraria alla diligenza professionale. Da un lato, dunque, è sufficiente l’idoneità della pratica commerciale a falsare il comportamento del consumatore, realizzandosi quindi un’ipotesi di illecito di pericolo; dall’altro lato, tuttavia, la contrarietà alla diligenza professionale, commisurata alla distorsione della capacità decisionale del consumatore, circoscrive le pratiche commerciali scorrette, lasciando impregiudicati comportamenti commerciali che, seppure indirizzati al product placement, non integrano solo per questo un illecito sanzionabile.
3.3.1. Così identificato il nucleo essenziale del precetto della pratica commerciale sleale è possibile evidenziare i profili di disciplina incompatibili e antinomici rispetto ad esso che caratterizzano le disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. Le norme contestate agli odierni ricorrenti (v. punto 1.1. in parte narrativa) integrano illeciti omissivi di pericolo (v. infra , punto 6.2.1.); tuttavia, contrariamente a quanto previsto dall’art. 20 cod. cons., detti illeciti si realizzano per la mera inosservanza di una serie di regole di condotta, senza che sia necessario accertare l’idoneità di tali comportamenti a distorcere la capacità decisionale dei consumatori. In altri termini, la violazione della diligenza professionale nella materia
d ell’ intermediazione finanziaria si realizza contestualmente al fatto di aver ignorato regole di condotta prescritte dal T.U.F. e dai regolamenti di attuazione, a prescindere dalla potenziale ovvero attuale ripercussione di detta condotta sui comportamenti dei risparmiatori; di conseguenza, l’intervento sanzionatorio è anticipato al momento della trasgressione.
3.3.2. Un ulteriore elemento di divergenza tra le due fattispecie normative è rappresentato dai rispettivi ambiti soggettivi di applicazione. Mentre la disciplina delle pratiche commerciali scorrette contenuta nel codice di consumo è indirizzata unicamente ai rapporti tra professionisti e consumatori (sebbene la categoria di questi ultimi sia allargata alle microimprese dall’art. 18, comma 1, lett. d), cod cons.); le disposizioni in materia di intermediazione finanziaria si rivolgono ad un contesto più ampio di beneficiari della tutela, costituito dal consumatore-investitore come anche da investitori istituzionali, che non rispondono necessariamente alla definizione di consumatore rinvenibile nell’art. 3, comma 1, cod. cons. («persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta»).
3.3.3. Tanto chiarito, la Corte d’appello ha esaminato analiticamente (v. sentenza, pp. 9-11) le disposizioni normative e regolamentari oggetto delle trasgressioni contestate da Consob, riassumibili nelle violazioni di obblighi attinenti alla prestazione di servizi di investimento e alla valutazione di appropriatezza delle operazioni (violazione i. ), e nella violazione di obblighi attinenti all’informativa alla clientela (violazione ii. ). Dette disposizioni aggiungono – al richiamo generale agli obblighi di correttezza e trasparenza (rinvenibile anche nella disciplina generale delle PCS) «aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette che impongono
ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29» (CGEU, 54/17, C -55/17, par. 61). Si tratta, cioè, di una disciplina che presenta una duplicità di aspetti specifici.
3.3.4. Sotto un primo aspetto, le norme segnalate da Consob nella contestazione degli illeciti obbligano i soggetti abilitati, nello svolgimento dell’attività di prestazione dei servizi e delle attività di investimento, a predisporre risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività al fine di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse dei clienti e per salvaguardare l’integrità dei mercati. Ai ricorrenti si contesta (cfr. violazioni i. e ii. e saminate dalla Corte d’appello di Venezia; ma analogo discorso può esser fatto per la violazione iii. ) di aver infranto il dovere di diligenza connesso alla carica da loro ricoperta, omettendo di predisporre regole di organizzazione interna alla banca che avrebbero assicurato il corretto svolgimento dei servizi e l’adempimento degli obblighi nei confronti dei clienti, a tutela dell’integrità del mercato. Norme, queste, estranee alla logica e alla tecnica di redazione della disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette disegnata nella dir. 2005/29/UE. In altri termini, nel caso di specie, l’attività di vigilanza della Consob è stata esercitata per verificare la corretta organizzazione della banca nell’espletamento delle prestazioni relative al servizio di investimento. Ne consegue che la condotta sanzionata con il provvedimento opposto non si riferisce direttamente al rapporto tra professionista e consumatore, concretizzandosi piuttosto nell’omissione di obblighi e doveri che si collocano a monte del suddetto rapporto, attenendo alle modalità organizzative della banca, che hanno la diversa finalità di presidiare la corretta organizzazione e gestione del servizio di
investimento a tutela non solo del cliente ma anche della trasparenza e correttezza dell’operato della banca e dell’integrità del mercato (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19558 del 18/09/2020, Rv. 659174 -01; conf. da: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3248 del 02/02/2022; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27708 del 2021).
3.3.5. Sotto un secondo aspetto, le contestazioni in esame, avendo ad oggetto fatti e comportamenti incidenti sul momento organizzativo, come in concreto attualizzato nelle scelte di procedure fondate su disposizioni interne finalizzate a disciplinare l’ordinata e corretta prestazione dei servizi, intercettano violazioni che integrano esse sole la fattispecie dell’illecito amministrativo, contrariamente a quanto accade per la pratica commerciale scorretta che necessita dell’idoneità della condotta del professionista a falsare il comportamento economico dei suoi destinatari.
3.3.6. In definitiva, il Collegio ritiene il motivo infondato: le contestazioni di cui è causa rientrano pienamente nell’ambito di competenza della Consob, ai sensi degli artt. 5, 21 e 190 del T.U.F., restando irrilevante che dalle violazioni siano poi derivate pratiche commerciali scorrette e senza che ciò determini un contrasto della disciplina del T.U.F. con l’art. 27, comma 1bis , del d.lgs. n. 206 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 6, lett. a), del d.lgs. n. 21 del 2014, che attribuisce in via esclusiva all’AGCM la tutela amministrativa del consumatore contro simili pratiche. Si deve, dunque, ribadire il principio di diritto per cui: «In materia di sanzioni amministrative nei confronti degli intermediari mobiliari, ove la condotta sanzionata consista nella violazione, da parte di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, dei doveri concernenti il momento organizzativo, preordinati alla tutela non solo del cliente, ma anche della trasparenza e correttezza dell’operato della
banca e dell’integrità del mercato, risultando profili di oggettiva incompatibilità, si applicano le norme contenute nel T.U.F. con competenza sanzionatoria della Consob, ai sensi degli artt. 5, 21 e 190 del T.U.F.»
4. Con il terzo motivo si deduce violazione falsa applicazione ex 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., della legge 24 novembre 1981, n. 689, dell’art. 24 della legge 28 dicembre 2005 n. 262, in relazione all’articolo 195 del T.U.F. e all’art. 4 delibera Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013 (nella versione risultante a seguito delle modifiche apportate dalla delibera Consob n. 19158 del 29 maggio 2015), nonché dell’articolo 21octies della legge 7 agosto 1990 numero 241 Violazione del termine di durata del procedimento sanzionatorio. Con una prima censura, il ricorrente lamenta l’erronea individuazione delle norme applicabili al procedimento sanzionatorio. In particolare, i ricorrenti lamentano il fatto che la Corte territoriale ha ommesso di indagare sulla natura perentoria o meno del termine di duecento giorni per la conclusione del procedimento sanzionatorio, affidandosi all’adesione piena ed acritica a Cass. n. 20929 del 2009 e Cass. 1065 del 2014: pronunce che applicano una disciplina del procedimento sanzionatorio di competenza delle Autorità di vigilanza del tutto diverse, riferite cioè al regime antecedente alla novella portata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262. Quanto a quest’ultima legge, essa ha introdotto una diversità di disciplina che testimonia un mutamento del sistema delle sanzioni amministrative pecuniarie applicate da Consob (e da altre selezionate Autorità). In attuazione dell’art. 24 della legge n. 262 del 2005 era preordinato il Regolamento Sanzioni Consob, di cui alla delibera n. 18750 del 19 dicembre 2013. In tale sede, la Consob ha individuato – all’art. 4, comma 2 – il termine di durata del proprio procedimento sanzionatorio in duecento giorni, che decorre dal
trentesimo giorno successivo alla data di perfezionamento, per i destinatari, della notificazione della lettera di contestazione degli addebiti. Ciò in linea con l’art. 8, comma 2 della legge n. 241 del 1990, che impone all’Amministrazione procedente di indicare nella comunicazione di avvio del procedimento la data entro la quale deve concludersi il procedimento medesimo. Dunque, la legge n. 262 del 2005 introduce un trattamento differenziato rispetto alla disciplina generale delle sanzioni amministrative contenuta nella legge n. 689 del 1981. Il legislatore del 2005 ha ritenuto, in altri termini, doveroso integrare la disciplina generale innestandovi elementi di specialità (come, ad esempio, il termine più lungo di 180 giorni per la contestazione degli addebiti di cui all’articolo 195 del T.U.F., a fronte del termine di 90 giorni di cui all’art. 14 della legge numero 689 del 1981), ed ha, altresì, imposto il rispetto di ulteriori specifiche garanzie procedimentali che meglio tutelino i diritti (di difesa, al contraddittorio, alla conoscenza degli atti istruttori, alla partecipazione al procedimento del soggetto incolpato e dell’intera collettività). Sulla scorta di quanto sopra, considerare ordinatorio il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio significa ignorare – errando – questo nuovo quadro normativo; sì che la perentorietà di questo termine deve essere vagliata alla luce del nuovo contesto normativo. In tale prospettiva, il termine ultimo perentorio di conclusione del procedimento sanzionatorio avrebbe dovuto essere il 30 maggio 2017, laddove invece l’adozione finale del provvedimento sanzionatorio – coincidente con il giorno della sua sottoscrizione da parte del Presidente di Consob – è datata 14 giugno 2017.
Con una seconda censura il ricorrente denuncia l’argomentazione della sentenza impugnata nella parte cui, in ogni caso, la violazione del termine di conclusione dei procedimenti sanzionatori di competenza
della Consob non si riverbera sulla validità dei provvedimenti finali, in quanto si tratterebbe di un vizio formale, la cui rilevanza rispetto ai provvedimenti vincolati – quali sarebbero quelli sanzionatori – sarebbe sancita dall’articolo 21octies delle legge n. 241 del 1990.Nel ricorso si chiede un doveroso ripensamento sulla questione della natura vincolata o meno dei provvedimenti adottati dalla Consob ad esito dei procedimenti sanzionatori da essa avviati istruiti e conclusi: a giudizio di ricorrenti, infatti, nessuno dei requisiti indicati dalla Corte di legittimità ai fini della definizione di provvedimento vincolato è predicabile per le delibere sanzionatorie della Consob. Ne segue l’impossibilità di applicare l’art 21octies della legge n 241 del 1990; conclusione condivisa dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; Consiglio di Stato, sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 542).
4.1. Il motivo è infondato in tutte le sue diverse articolazioni.
4.2. Con riferimento alla prima delle censure elevate dal ricorso, relativa alla perentorietà del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, questa Corte ha di recente ribadito che, in tema di sanzioni amministrative, il procedimento preordinato alla loro irrogazione sfugge all’ambito di applicazione della legge n. 241 del 1990 in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge n. 689 del 1981 (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 31239 del 03/11/2021, Rv. 662708 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4363 del 04/03/2015, Rv. 635014 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9517 del 18/04/2018, Rv. 648151 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 9591 del 27/04/2006, Rv. 588536 -01). Tale affermazione trova la sua giustificazione nel rilievo per cui nel corso del procedimento amministrativo che conduce all’irrogazione della sanzione, non sussiste (se non all’art. 14, in tema di contestazione differita, nella specie non
rilevante) alcuna altra disposizione cogente in ordine al rispetto di termini endo-procedimentali desumibile dalla lex generalis n. 689 del 1981, salvo il regime prescrizionale stabilito nell’art. 28 della stessa legge e salva la prevalenza di leggi speciali di pari grado (Cass. n. 9517 del 2018, in motiv.; Cass. n. 19512 del 2020, in motiv.) che, però, nella materia delle sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, non è dato rinvenire, trattandosi del termine per la conclusione del procedimento (pari duecento giorni) stabilito non da una norma di legge, ma da un regolamento interno (e cioè l’art. 4, comma 2, del Regolamento Consob n. 18750, come modificato dalla delibera Consob n. 19158 del 29 maggio 2015), di per sé inidoneo a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981 (Sez. 2, Sentenza n. 4363 del 04/03/2015, Rv. 635014 – 01).
4.2.1. In sintesi: la perentorietà di un termine di conclusione di un procedimento sanzionatorio risulta incompatibile con i procedimenti regolati dalla legge n. 689 del 1981, la quale costituisce un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell’interesse dell’incolpato, il rispetto di un termine (Cass. n. 9591 del 2006, cit.; conf. da: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8763 del 13/04/2010, Rv. 612656 – 01; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21797 del 11/10/2006, Rv. 593137 -01) non adattabile alle complessità del caso concreto. In quest’ottica, non ha pregio quanto argomentato nel ricorso (p. 21, penultimo capoverso), ove si afferma l’avvenuto mutamento del sistema sanzionatorio operato dall’art. 24 della legge n. 262 del 2005, che avrebbe innovato la disciplina previgente sostanzialmente appuntata sulla legge n 689 del 1981, legge generale sulle sanzioni amministrative. Il richiamo contenuto nell’art. 24, comma 3, legge n.
262 del 2005 (che così recita: 3. «Le Autorità di cui al comma 1 disciplinano con propri regolamenti l’applicazione dei principi di cui al presente articolo, indicando altresì i casi di necessità e di urgenza o le ragioni di riservatezza per cui è ammesso derogarvi») rinvia – per quel che rileva in questa sede – al regolamento emanato da Consob per l’applicazione dei principi contenuti soprattutto nel comma 1 dell’art. 24 (ove si esprime l’esigenza di rispettare effettivamente il principio del contraddittorio nel corso del procedimento amministrativo che conduce all’irrogazione della sanzione), con ciò effettivamente rimettendo ad un procedimento sanzionatorio specifico una materia altrettanto di settore qual è quella finanziaria. Tuttavia, da tale rinvio non è consentito dedurre la perentorietà dei termini di conclusione di un procedimento definito mediante regolamento, che comunque trova il suo riferimento normativo nella legge n. 689 del 1981, dedicata alla disciplina-quadro delle sanzioni amministrative.
Del resto, a prescindere dal sopracitato rinvio a disposizioni regolamentari operato dal comma terzo dell’art. 24, neanche può rilevarsi il superamento del sistema sanzionatorio a cura della legge n. 262 del 2005, nonché della legge n. 241 del 1990: la prima contiene un sistema organico di disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, e l’unica parte (Titolo V) dedicata alle modifiche in materia di sanzioni penali e amministrative riguarda la disciplina sostanziale, non già il procedimento di irrogazione delle sanzioni. Per ciò che attiene la seconda, è opportuno precisare che questa Corte, con sentenza delle Sezioni Unite n. 9591 del 2006 citata in sentenza (p. 12, 4° capoverso), scrutinando un motivo di ricorso in cui si deduceva violazione e falsa applicazione della legge n. 241 del 1990, art. 2, con riferimento ai termini di conclusione del procedimento amministrativo sanzionatorio, ha inteso chiarire il rapporto tra la legge
del 1990 n. 241 e la legge n 689 del 1981: mentre la prima riguarda i procedimenti amministrativi in genere, la seconda quelli finalizzati all’irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare che richiede distinta disciplina e che -sottolinea la Corte – non tollera soprattutto la praticabilità dell’innesto dell’art. 2, comma 3, legge n. 241 del 1990, che stabilisce il termine entro il quale il procedimento amministrativo (non sanzionatorio) deve essere concluso, sia nella versione originaria sia nella nuova versione modificata dalla legge n. 35 del 2005.
4.2.2. Di conseguenza, non assume alcuna rilevanza il termine di duecento giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4, comma 2, del Regolamento Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013, attesa l’inidoneità di un regolamento interno a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981. La norma regolamentare che pone un termine alla conclusione del procedimento sanzionatorio non pertiene, infatti, al nucleo irriducibile di garanzie del contraddittorio endo-procedimentale, che è rappresentato dalla contestazione dell’addebito e dalla valutazione delle controdeduzioni dell’interessato (cfr. Cass. n. 4521/2022), ma ha esclusivamente una funzione sollecitatoria e ordinatoria dell’attività degli uffici delle Autorità di vigilanza, potendosi qualificare – secondo uno schema concettuale risalente, ma ancora utilmente richiamabile a fini descrittivi – come «norma di azione» e non come «norma di relazione» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17670 del 2022).
4.3. Passando, ora, a scrutinare la seconda doglianza riguardante il carattere vincolato o meno nel provvedimento sanzionatorio, questa Corte ha avuto modo di precisare che l’eventuale inosservanza del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio non comporta l’illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizi che non
influiscono sul diritto di difesa, in relazione a provvedimenti vincolati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1065 del 20/01/2014, Rv. 629025 -01: principio bensì affermato in un momento in cui il procedimento sanzionatorio era assoggettato a diversa disciplina, ma che ha comunque trovato conferma con riferimento al regime successivo alla novella di quella legge n. 262 del 2005). Nella materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in tema di intermediazione finanziaria, vige, del resto, il principio, ripetutamente affermato da questa Corte (Cass. n. 9517 del 2018; Cass. n. 12503 del 2018; Cass. n. 13433 del 2016: orientamento, peraltro, originariamente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte a distanza di pochi anni dall’entrata in vigore della legge n. 262 del 2005, quindi nel contesto normativo rinnovato al quale i ricorrenti si appellano; nella pronuncia citata dalla Corte veneziana e contestata in ricorso, riconosciuta la natura processuale dell’art. 21octies , comma 2, le Sezioni Unite dell’epoca ne avevano dedotto la sua applicabilità con effetto retroattivo a tutti i procedimenti in corso, anche se introdotti successivamente alla sua emanazione e in quell’occasione avevano affermato l’irrilevanza di tutti i lamentati vizi procedimentali in relazione al preteso mancato rispetto dei termini di cui al regolamento Consob attuativo della legge n. 241 del 1990: Cass. Sez. U, Sentenza n. 20929 del 30/09/2009, Rv. 610510 -01, punto 6.2)), secondo cui, per effetto dell’entrata in vigore dell’art. 21octies , comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (introdotto dall’art. 14, legge 11 febbraio 2005, n. 15, vigente ratione temporis, che così recitava: «Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato…»), gli
eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dall’art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, che si svolge innanzi alla Consob, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto. In effetti, diversamente da quanto argomentato nelle pronunce del Consiglio di Stato richiamate in ricorso, tenendo conto della separazione tra funzioni istruttorie e decisorie, l’Amministrazione che procede alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie a valle del procedimento istruttorio non esercita un potere amministrativo in senso proprio e con effetti costitutivi, ma adempie semplicemente al dovere istituzionale di provvedere alla riscossione di un credito già sorto per effetto della riscontrata violazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1602 del 26/01/2021, Rv. 660155 – 01, in motiv., punto 2.5).
4.3.1. In definitiva, deve ribadirsi che l’eventuale inosservanza del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio non comporta l ‘ illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizi che non influiscono sul diritto di difesa, in relazione a provvedimenti vincolati.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., dell’art. 190 del T.U.F., come modificato dall’art. 5, comma 4, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, e dell’art. 6 del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, per inosservanza del principio della retroattività in mitius della disciplina delle sanzioni afflittive, come definito e riconosciuto dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione E uropea ‘(CDFUE’) , art. 49, comma 1 (nonché dalla giurisprudenza della CGUE), e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (‘CEDU’) , art. 7, comma 1; nonché per inosservanza del principio di retroattività delle modifiche alle sanzioni amministrative di origine comunitaria. La sentenza viene censurata nella parte in cui rigetta le argomentazioni rassegnate dai ricorrenti in
ordine all’applicabilità del diverso e più favorevole regime sanzionatorio introdotto dall’art. 5 del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, recante attuazione della direttiva 2013/36/UE (sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento). Il menzionato art. 5, comma 4, ha modificato l’articolo 190 del T.U.F. prevedendo che la sanzione amministrativa per l’inosservanza dell’art. 21 si applichi solo agli enti, non anche ai relativi esponenti aziendali. Pertanto, a giudizio dei ricorrenti, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 – per il quale le modifiche apportate alla Parte V del T.U.F non trovano applicazione alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia – deve interpretarsi nel senso che tale norma intertemporale si riferisce esclusivamente alle modifiche procedurali, non anche a quelle attinenti alla disciplina sostanziale delle fattispecie; ovvero i ricorrenti ne chiedono la disapplicazione alla luce del diritto europeo, per il quale il principio del favor rei e della retroattività della lex mitior costituisce regola immanente, che trova applicazione alle sanzioni amministrative comminate per il tramite di regolamenti o direttive; infine, ne chiedono l’applicazione retroattiva in mitius , in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata. In via subordinata, i ricorrenti chiedono il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, affinché chiarisca se il principio della retroattività in mitius della disciplina delle sanzioni amministrative previste nel diritto dell’unione europea osti all’adozione e all’applicazione di una normativa nazionale (art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015) che esclude l’estensione del principio della retroattività in mitius di disposizioni sanzionatorie amministrative, pure dalla medesima introdotte proprio in attuazione del diritto dell’unione. In alternativa, i ricorrenti chiedono la rimessione alla Corte costituzionale del disposto di cui al più volte
citato art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015, ovvero della legge di delega al governo con riferimento alle modifiche del sistema sanzionatorio del T.U.F. (art. 3, comma 1, lettera m), legge 7 ottobre 2014, n. 154), affinché ne accerti l’illegittimità costituzionale.
5.1. Il motivo è infondato. Escluso il riconoscimento di alcun vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative, neanche può dirsi sussistente un principio di inderogabilità assoluta della retroattività in mitius anche in materia di sanzioni afflittive non penali, contrariamente a quanto affermato in ricorso (p. 35, 2° capoverso alla lett. d). Sul punto, è sufficiente rimettersi a quanto chiarito dalla Corte costituzionale, secondo la quale rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità «punitiva», il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU. Mentre, infatti, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011). La giurisprudenza costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio derogabile della retroattività della lex mitior in materia penale un duplice, e concorrente, fondamento. L’uno – di matrice domestica riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost. L’altro – di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost. – riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia ; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia ; Corte EDU, sentenza 24 gennaio 2012, NOME COGNOME c. Romania ; Corte EDU, sentenza 12 gennaio 2016, COGNOME RAGIONE_SOCIALE c. Andorra ; Corte EDU, sentenza 12 luglio 2016, Ruban c. Ucraina ), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e l’art. 49, par. 1, della CDFUE (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019). Inoltre, con sentenza n. 193 del 2016, la Corte costituzionale ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata «amministrativa» dal diritto interno) come «convenzionalmente penale», alla luce dei criteri Engel». La stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di precisare che la retroattività in mitius della legge penale, così come delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo, è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in
particolare enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, par. 1, terzo periodo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (‘ CDFUE ‘) . Ciò ha indotto la Consulta a concludere che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo . Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al trasgressore deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (Corte cost., sentenza n. 393 del 2006).
5.2. Appare, a questo punto, chiaro che le censure elevate dal mezzo di gravame in esame devono essere convogliate verso la questione dirimente relativa alla natura afflittiva o meno della fattispecie sanzionatoria di cui all’art. 190 T.U.F. A tal proposito, si richiama l’orientamento costante di questa Corte, che ha escluso la natura penale delle sanzioni ex art. 190 T.U.F. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17574 del 2022; Cass. Sez. 2, n. 8855 del 05/04/2017; Rv. 643735 – 01; Cass. Sez. 2, n. 23945 del 2019, con richiami) Secondo la giurisprudenza comunitaria – per stabilire la sussistenza di un’accusa di natura penale, occorre impiegare tre criteri: la qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale, la natura nonché il grado di severità della «sanzione». Sebbene i suddetti criteri (c.d. Engel) siano alternativi e non cumulativi e per quanto debba aversi riguardo alla misura della sanzione edittale e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta – va tuttavia considerato che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in
termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione punitiva si inserisce. Avendo riguardo alle sanzioni comminate nel caso di specie ai ricorrenti, può escludersi la loro natura penale per la qualificazione giuridica (illecito amministrativo) attribuita chiaramente dal legislatore; natura (assenza di un divieto generale di generale applicabilità, essendo la norma indirizzata ad una platea ristretta di possibili destinatari – i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche, nonché assenza di finalità retributive, trattandosi di illeciti derivanti da trasgressioni di norme che impongono obblighi comportamentali riferiti all’organizzazione dei servizi finanziari: v. infra , punto 6.2.1.), e grado di severità (assenza della connotazione dell’afflittività economica). Sotto il profilo dell’afflittività, è opportuno precisare che, secondo la formulazione applicabile ratione temporis , l’ importo delle sanzioni era compreso nella forbice edittale da euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila (sì che le sanzioni concretamente inflitte ai ricorrenti non hanno superato i 16.000,00 euro); la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può comunque essere svolta in termini totalmente astratti e assoluti , ma dev’essere necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce e al bene giuridico tutelato: deve considerarsi, da un lato , che nell’ordinamento sezionale del credito e della finanza sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che possono ascendere a molti milioni di euro; dall’altro lato la tutela dei consumatori degli investitori e del mercato finanziario e del risparmio.
5.3. Esclusa, dunque, la natura afflittiva delle sanzioni irrogate, richiamata la ricostruzione nel quadro normativo internazionale e domestico di cui sopra, in virtù del quale il principio di retroattività della
lex mitior anche delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo non è assoluto, ma può essere ragionevolmente derogato dal legislatore, si devono rigettare entrambe le istanze di rimessione pregiudiziale alla CGUE e della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015 (nonché delle norme contenute nella legge di delega). Riprende vigore l’orientamento di questa Corte in virtù del quale in materia di illecito amministrativo il principio di legalità e irretroattività comporta l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, in base al principio tempus regit actum (ex multis di recente: Cass. Sez. 2, n. 6295 del 02.03.2023; Cass. Sez. 2, n. 16322 del 18.06.2019).
Deve, infine, disattendersi la richiesta dei ricorrenti di disapplicare l’art. 6 di cui si discute, poiché anche nel caso in cui fosse ravvisabile un conflitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU (situazione comunque esclusa con riferimento alla fattispecie sanzionatoria qui in esame), il rinvio alla Convenzione operato dall’art. 6, par. 3, TUE, non impone al giudice nazionale di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa, atteso che, in tale evenienza, il rimedio è costituito dal giudizio di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l’art. 117 Cost. (Cass. Sez. L, Sentenza n. 2286 del 30/01/2018, Rv. 647390 -02; Cass. n. 4049 del 2013, sulla scorta di Cass. S.U. n. 9595 del 2012; Corte Cost. nn. 80 e 303 del 2011 n 349 del 2007 nonché più di recente n 210 del 2013; CGUE, 24.4.2012, C-571/10, Kamberaj ; nello stesso senso, CGUE, 26.2.2013, C-617/10, NOME ).
Con il quinto motivo si deduce nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ., per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. e/o violazione e falsa
applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., degli artt. 2729 e 2697 cod. civ. e dell’art. 195 T.U.F., degli artt. 2381 e 2392 cod. civ., nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a) e d) del T.U.F. I ricorrenti si dolgono del fatto che il giudice non abbia fornito alcun chiaro elemento di fatto e di diritto che permetta di comprendere quali siano stati i comportamenti, commissivi ovvero omissivi, ritenuti effettivamente loro imputabili, e quali sarebbero le disposizioni di rango primario e regolamentare che, per gli effetti, sarebbero state violate da ciascuno dei ricorrenti. Più precisamente, non vi è la prova dell’esistenza degli elementi di fatto integranti la violazione contestata: si parla, cioè, di un complesso di comportamenti, omissivi o commissivi, prescindendo dall’individuazione di singoli e specifici comportamenti eziologicamente imputabili. Né indica la Corte d’Appello un punto di riferimento, cioé una specifica disposizione normativa. Si paventa, in tal modo, una responsabilità oggettiva in capo agli esponenti aziendali, se non una presunzione assoluta di responsabilità. In questa prospettiva la Corte territoriale non ha verificato in termini positivi, e in spregio al disposto di cui all’art. 2697 cod. civ., quali fossero le condotte sottese alle ipotesi di violazione formulate da Consob, e che le stesse risultassero in concreto provate ed imputabili a ciascuno degli esponenti aziendali. Più in dettaglio: con una prima censura i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale non abbia esaminato partitamente il ruolo ricoperto da ciascuno dei ricorrenti nell’organizzazione societaria aziendale al fine di individuare in modo puntuale le pretese responsabilità. La Corte ha anche ritenuto provate le violazioni procedurali retrodatandole al 2012, basandosi esclusivamente sulle allegazioni Consob e non fornendo alcuna motivazione, secondo una prospettiva di prognosi postuma. Ne è prova il fatto che la Corte territoriale ha ritenuto di confermare il
provvedimento sanzionatorio anche nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME cessati dalla carica in data 27 Aprile 2012, senza nemmeno indicare e verificare quali fossero le condotte attive/omissive accertate dalla Consob. Con una seconda censura si rimprovera alla Corte distrettuale di aver sanzionato COGNOME e COGNOME entrati in carica il 29 aprile nel 2015: dalla lettura della sentenza non è dato comprendere quale sarebbe, e quando avrebbe avuto luogo, il preteso comportamento attivo o omissivo di ciascuno dei ricorrenti da cui originerebbe la responsabilità per le ipotesi di violazione, e che sarebbe stato puntualmente accertato da Consob e dalla Corte territoriale.
6.1. Il motivo è infondato in tutte le prospettazioni. Non coglie nel segno il mezzo di gravame laddove intravede nell’applicazione delle norme di legge e regolamentari, a cura di Consob e della Corte d’appello di Venezia, un’inversione dell’onere della prova e addirittura lo spettro della responsabilità oggettiva di amministratori e sindaci sanzionati.
6.1.1. Occorre, a tal proposito, fare una breve premessa sistematica: al procedimento ex art. 195 T.U.F. (costruito sulla falsariga dello statuto generale rappresentato dalla legge del 24 novembre 1981, n. 689), trova applicazione l’art. 6, comma 11, del d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, (che ha abrogato e sostituito il precedente art. 23, comma 12, legge n 689 del 1981), in virtù del quale: «11. Il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente»; ciò presuppone l’ applicazione dell’art. 2697 cod. civ., norma generale che individua nell’Autorità sanzionante il soggetto gravato dell’onere di dimostrare la responsabilità del trasgressore: all’Amministrazione, che viene a rivestire – dal punto di vista sostanziale – la posizione di attrice (ricoprendo, invece, sotto quello formale, il ruolo di convenuta
opposta), incombe l’obbligo di fornire la prova adeguata della fondatezza della sua pretesa. All’opponente, al contrario, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla legittimità formale del procedimento amministrativo sanzionatoti espletato, o sull’esclusione della sua responsabilità relativamente alla commissione dell’illecito, spetta provare le circostanze negative contrapposte a quelle allegate dall’Amministrazione ( ex plurimis : Cass. 30.05.2022 n. 17394; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 1921 del 24/01/2019, Rv. 652384 -02; Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 4898 del 11/03/2015, Rv. 635012 -01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5122 del 03/03/2011, Rv. 617175 -01; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1948 del 10/02/2003, Rv. 560351 – 01). L’art. 195 citato postula lo svolgimento del procedimento di opposizione secondo il principio dispositivo, ex art. 115 cod. proc. civ., essendo vincolato il giudice ai mezzi tipici e alle iniziative istruttorie delle parti.
6.1.2. Tanto premesso, quanto alla corretta individuazione dei fatti costitutivi e dei fatti modificativo-estintivo-impeditivi, questa Corte ha precisato che in presenza di una norma di comando che imponga un facere, la condotta omissiva del responsabile è dimostrabile da parte dell’autorità mediante presunzioni: l’onere di provare la condotta attiva dovuta grava sul responsabile, il quale può provare la sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile il comportamento attivo ( ex multis : Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1529 del 22/01/2018, Rv. 647782 -02; conf.: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6037 del 29/03/2016, Rv. 639053 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 20934 del 30/09/2009, Rv. 610514 -01, che richiama la nota sentenza di queste delle sezioni unite del 30/10/2001 n. 13533 resa nella diversa materia dei rapporti contrattuali; Cass. 22.08.2006, n. 18235; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5239 del 28/02/2008, Rv. 602219 -01; Cass 24/06/2004, n. 11751), in ossequio al principio di vicinanza della prova, a mente del quale il
relativo onere va posto a carico del soggetto nella cui sfera di controllo si è prodotto l’inadempimento stesso.
6.2. Il principio della presunzione di colpa deve essere inteso, nel caso di illecito omissivo, non già come immotivata e irragionevole inversione dell’onere della prova, ma nel senso che una volta integrata e provata la fattispecie tipica dell’illecito il trasgressore viene gravato dell’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Del resto, l’art. 190 T.U.F. contempla una serie assai ampia di illeciti cosiddetti di «mera trasgressione», ossia una serie di fattispecie (richiamate in delibera impugnata e poste alla base delle violazioni contestate) a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni incentrate sulla mera condotta secondo un criterio di agire o di omettere doveroso. Orbene: è innegabile come negli illeciti di mera trasgressione la loro stessa morfologia renda impossibile individuare, sul piano funzionale, i singoli comportamenti riferibili ai singoli soggetti sui quali grava l’obbligo di osservanza delle norme procedimentali; il che consente, anzi impone al giudice del merito di limitarsi a individuare l’autore imputabile dell’inosservanza secondo un giudizio di colpevolezza «normativo», ancorato cioè a parametri di legge o regolamentari esterni ed estranei al dato psicologico, con limitazione dell’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della suitas della condotta inosservante.
6.2.1. Le disposizioni contestate agli odierni ricorrenti (in sintesi, v. punto 1.1. in parte narrativa) integrano illeciti omissivi di pericolo, in quanto si sono concretizzati nell’inosservanza di una serie di regole di condotta, e la loro consumazione si è protratta fino a che è proseguita tale inosservanza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9126 del 07/04/2017, Rv. 643548 – 01). La pronuncia impugnata è conforme alla costante giurisprudenza di codesta Corte in tema di ripartizione dell’onere della
prova della responsabilità del trasgressore sopra richiamata. In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni ( ex multis, di recente: Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892 01); mentre per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio: ex multis , di recente: Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01). Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Venezia ha ravvisato condotte omissive in capo ai ricorrenti (v. sentenza, pp. 13-16):
con riferimento alla contestazione della violazione i. ), si è trattato dell’inosservanza degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza , sanciti dagli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F., 15 Reg. Congiunto, che impongono ad intermediari di dotarsi di procedure idonee ad assicurare il corretto svolgimento dei servizi di investimento; artt. 21, comma 1, lett. a) T.U.F., artt. 41 e 42 del Reg. Intermediari, che disciplinano la valutazione di appropriatezza degli investimenti). La Corte ha rilevato l’incapacità del questionario predisposto dalla banca di appurare le effettive caratteristiche di esperienza e conoscenza degli investitori, nonché l’assenza di un’opportuna classificazione dei fattori di rischio;
con riferimento alla contestazione della violazione ii. ), si è trattato dell’inosservanza degli obblighi di informazione, sanciti dagli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F., 15 Reg. Congiunto, 31 Reg. Intermediari, che
disciplinano l’obbligo di fornire ai clienti informazioni sugli strumenti finanziari, ivi inclusi i rischi ad essi connessi; artt. 52, comma 1, lett. b), punto b1) e 56 Reg. Intermediari, che disciplinano rispettivamente le condizioni alle quali possono essere percepiti incentivi e gli obblighi di rendicontazione nei confronti della clientela. Osserva la Corte che mancava l’indicazione della corrispondenza fra il valore nominale e il valore di mercato delle obbligazioni emessa dal Banco delle Tre Venezie nelle rendicontazioni periodiche fornite dall’intermediario. La Corte confuta anche le tesi dei ricorrenti riguardo alla presenza di specifici warning in merito al rischio emittente, al rischio di interesse e al rischio di liquidità: a suo giudizio il modulo informativo MIFID e il modulo d’ordine non recavano indicazioni sui rischi conseguenti alla sottoscrizione dei prodotti obbligazionari, bensì generici riferimenti al rischio emittente e al rischio liquidità della macro categoria dei titoli di debito, e addirittura degli strumenti finanziari in astratto considerati;
– con riferimento alla contestazione della violazione iii. ), si è trattato dell’inosservanza della disciplina dei conflitti di interesse, rinvenibile nell’art. 21, comma 1bis , lett. a) e b), del T.U.F. e negli artt. 23-26, 37-40 Reg. Congiunto. Rileva la Corte distrettuale la totale mancanza, nella policy adottata dalla banca nel 2008 e mai più successivamente aggiornata, dei requisiti richiesti dalla normativa di settore: in particolare, la previa identificazione dei conflitti di interesse la gestione di essi e la successiva registrazione.
6.2.2. Alla luce di questi rilievi, la Corte distrettuale ha fatto, dunque, buon governo degli oneri di prova: una volta integrata e provata la fattispecie tipica dell’illecito, è il trasgressore ad essere gravato dall’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Sì che, accertate le violazioni di ordine procedurale, al rispetto delle quali invece erano tenuti ricorrenti, la Corte d’Appello ha
contestualmente rilevato l’ insussistenza della prova liberatoria a carico dei trasgressori.
6.3. Quanto all’ulteriore doglianza, riguardante la posizione di alcuni degli esponenti aziendali temporalmente non coinvolti secondo la prospettazione del mezzo di gravame, correttamente la sentenza ha osservato che gli illeciti omissivi imputabili a tutti gli esponenti aziendali, consistenti nella mancata denuncia e/o cura delle carenze procedurali innanzi richiamate, sono perdurati per un lungo periodo di tempo. A giudizio della Corte d’Appello, la condotta antigiuridica consistita nell’inosservanza delle reg ole di comportamento si è protratta a partire dal 2012 per il tutto il periodo in cui la società ha svolto la propria attività. In effetti, trattandosi di illeciti omissivi a carattere permanente, la Corte distrettuale correttamente ha ritenuto irrilevante sia la durata della carica di alcuni amministratori, sia il fatto che le violazioni suddette rimontino al 2012. Questo Collegio condivide l’opinione espressa dai giudici di merito per cui la circostanza che la concreta verifica delle singole operazioni sia stata prevalentemente concentrata nel periodo 2014-2015 nulla toglie al fatto che le violazioni procedurali fossero preesistenti e perdurassero nel tempo (v. sentenza, p. 15).
In definitiva il Collegio rigetta il ricorso, con l’eccezione della questione preliminare relativa alla sanzione irrogata nei confronti di NOME COGNOME liquida le spese secondo soccombenza come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara cessata la materia del contendere in relazione alla sanzione amministrativa irrogata nei confronti di NOME COGNOME
rigetta il ricorso e condanna gli altri ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in €4.000,00 per compensi, oltre a €200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda