Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24237 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24237 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/08/2025
Oggetto: Consob -Amministratore senza delega.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14282/2019 R.G. proposto da
NOME COGNOME COGNOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, rappresentati e difesi dal prof. avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME NOME COGNOME e domiciliata presso la propria sede in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia n. 88/2019, pubblicata il 15/1/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 Aprile 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con delibera n. 20033 del 14/06/2017, come modificata dalla delibera n. 20057 del 06/07/2017, la Consob, all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 195 d.lgs. n. 58 del 1998, applicò a NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nella loro qualità di componenti del Consiglio di Amministrazione di Veneto Banca s.p.a. per il periodo dal 01/06/2011 al 20/04/2014, la sanzione pecuniaria di complessivi euro 140.000,00 pro capite per la violazione delle seguenti norme:
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F. e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), del T.U.F. e degli artt. 39 e 40 dal Regolamento Consob n. 16190 dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-31/12/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di valutazione di adeguatezza delle operazioni;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. (periodo di riferimento: 18/12/2012-31/08/2015), per avere la Banca tenuto comportamenti irregolari, tra l’altro, nell’ambito dei trasferimenti tra privati delle azioni Veneto Banca e dei finanziamenti concessi ai clienti per l’acquisto delle azioni di propria emissione;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F., e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. e dell’art. 49, commi 1 e 3, del Regolamento Consob n. 16190 dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-10/2/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di gestione degli ordini dei clienti;
4) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), del T.U.F., e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-18/04/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate in materia di pricing delle azioni di propria emissione.
Il giudizio di opposizione, proposto da COGNOME Franco, COGNOME Francesco, COGNOME NOME, COGNOME Alessandro, COGNOME Leone, COGNOME NOME Quinto e NOME COGNOME, si concluse, nella resistenza della Consob, con la sentenza n. 88/2019, pubblicata il 15/1/2019, con la quale la Corte d’Appello di Venezia rideterminò l’ammontare della sanzione irrogata, liquidandola in euro 120.000,00.
Contro la predetta sentenza, COGNOME Franco, COGNOME Francesco, COGNOME NOMECOGNOME COGNOME Alessandro, COGNOME Leone e COGNOME NOME propongono ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Consob – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa si difende con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che :
Preliminarmente, preso atto dell’intervenuto decesso di NOME COGNOME e di NOME COGNOME deve dichiararsi nei loro confronti la cessazione della materia del contendere. La morte dell’autore della violazione, comportando l’estinzione dell’obbligo di pagare la sanzione pecunia irrogata dall’Amministrazione, la quale, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi, attesa la natura personale della responsabilità amministrativa, determina la cessazione della materia del contendere, senza alcuna regolamentazione delle spese di lite, poiché, non potendo trovare applicazione i principi della soccombenza e della causalità propri della c.d. soccombenza
virtuale, in quanto l’erede succede nel processo, ma non nel lato passivo del rapporto giuridico sanzionatorio che ne forma l’oggetto sostanziale, il carico delle spese resta regolato dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale ciascuna parte anticipa e sostiene le proprie (v. ex multis : Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 16747 del 24/05/2022, Rv. 664888 – 01).
2.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 210 cod. proc. civ. e dell’art. 94 disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello aveva rigettato l’istanza di esibizione, ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ., della corrispondenza intercorsa tra Consob e Banca d’Italia negli anni 2013 e 2014, con particolare riferimento alla lettera del 25/11/2013, trasmessa dalla Banca d’Italia alla Consob, la cui esistenza era emersa nel corso dell’audizione del dott. COGNOME alla Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario del 09/11/2017, comprovante il fatto che la Consob, essendo stata notiziata già nel novembre 2013 degli esiti dell’attività ispettiva della Banca d’Italia e dell’esistenza di alcune violazioni poste successivamente a fondamento del procedimento sanzionatorio in contestazione, era decaduta dal relativo potere rispetto alle violazioni accertate dalla Banca d’Italia per decorso del termine previsto dall’art. 4 del Regolamento sul procedimento sanzionatorio di Consob, sostenendo che detta istanza fosse stata formulata al fine di proporre una nuova domanda e non per provare fatti di causa e che i documenti richiesti non fossero indispensabili, né fossero stati specificamente individuati. Ad avviso dei ricorrenti, i giudici di merito non avevano, però, considerato che i documenti richiesti, il cui oggetto era stato adeguatamente determinato (corrispondenza tra Consob e Banca d’Italia tra il 2013 e il 2014 in relazione al soggetto vigilato Veneto Banca, accompagnata dal deposito di
almeno una missiva del 25/11/2013, riguardante tre delle condotte sanzionate con le violazioni n. 2, afferente al fenomeno delle c.d. azioni baciate, e n. 4, afferente alla mancanza di procedure idonee in materia di pricing delle azioni di propria emissione, non prodotta dall’Autorità di Vigilanza in seguito all’accesso agli atti nel corso del procedimento sanzionatorio), avrebbero consentito di dimostrare che la Consob era a conoscenza di alcune delle condotte sanzionate fin dal novembre 2013 e che, pertanto, la stessa era rimasta inerte nel periodo tra il 25/11/2013 e il 13/01/2015, data di inizio delle ispezioni che avevano condotto all’applicazione delle sanzioni impugnate.
La decisione assunta era scorretta anche con riguardo al giudizio di novità della questione, posto che la conoscenza dei fatti attestati nella documentazione richiesta avrebbe consentito ai ricorrenti di proporre un ulteriore motivo di nullità del provvedimento impugnato, motivo che non sarebbe stato possibile articolare senza l’acquisizione di tali prove che erano state taciute dalla Consob.
2.2 Il primo motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
Come noto, l’istanza di esibizione, ex art. 210 cod. proc. civ., che è subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118, 119 cod. proc. civ. e 94 disp. att. cod. proc. civ., costituisce uno strumento istruttorio residuale, che è soggetto al presupposto della indispensabilità dell’acquisizione del documento posseduto dall’altra parte o da un terzo e il cui possesso l’istante dimostri di non essere riuscito diversamente ad acquisire, sicché esso può essere utilizzato soltanto in caso di impossibilità di acquisire la prova dei fatti con altri mezzi e non per supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico dell’istante (Cass., Sez. L, 24/1/2014; Cass., Sez. 2, 3/11/2021, n. 31251).
L’emanazione di ordine di esibizione è discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata dal giudice di merito, in quanto, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalità esplorative – ravvisabili allorquando neppure la parte istante deduca elementi sull’effettiva esistenza del documento e del suo contenuto per verificarne la rilevanza nel giudizio -, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al suo potere discrezionale, senza che il mancato esercizio di tale potere sia vincolato ad un onere di motivazione, con la conseguenza che il provvedimento di rigetto dell’istanza non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte istante non abbia finalità esplorativa (Cass., Sez. 2, 8/10/2021, n. 27412; Cass., Sez. L, 25/10/2013, n. 24188; Cass., Sez. L, 23/2/2010, n. 4375; Cass., Sez. 2, 29/10/2010, n. 22196; Cass., Sez. 6-L, 16/11/2010, n. 23120).
Va peraltro detto che le deduzioni del ricorrente, in ordine all’indispensabilità dell’acquisizione della corrispondenza intercorsa tra la Banca d’Italia e la Consob, onde dimostrare l’intervenuta decadenza di quest’ultima dal potere sanzionatorio, non si confrontano con i principi affermati da questa Corte in ordine ai termini di accertamento.
Come osservato da Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855, ‘qualora, come nel caso in esame, il soggetto abilitato a riscontrare gli estremi della violazione sia diverso da quello incaricato della ricerca e della raccolta degli elementi di fatto, l’atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dal secondo non siano portati a conoscenza del primo, dovendo
escludersi che le attività svolte dai due diversi organi possano essere considerate unitariamente al fine di valutare la congruità del tempo necessario per l’accertamento delle irregolarità e, conseguentemente, la ragionevolezza di quello effettivamente impiegato dall’amministrazione. Da tanto deriva che, in tema di disciplina dell’attività di intermediazione finanziaria, essendo la vigilanza delle norme, la cui violazione è sanzionata come illecito amministrativo, affidata appunto alla Consob, e non alla Banca d’Italia (la quale non è legittimata ad avviare il procedimento sanzionatorio), il momento iniziale di decorrenza del termine per la contestazione non può essere fatto coincidere con il deposito presso la Banca d’Italia della relazione ispettiva redatta dal Servizio di Vigilanza della medesima Banca d’Italia ( ex multis : Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9456 del 19/05/2004, Rv. 572933 – 01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5395 del 09/03/2007, Rv. 596028 – 01; conf.: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25836 del 02/12/2011, Rv. 620363 – 01; Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 8687 del 03/05/2016, Rv. 639747 01; Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 9254 del 16/04/2018, Rv. 648081- 01; Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 21171 del 08/08/2019, Rv. 655194 – 01; Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 9022 del 30/03/2023, Rv. 667516 – 01).
Compete, peraltro, al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per l’accertamento, in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 26734, 13/12/2011, Rv. 620263), dovendosi tener conto, a tal fine, del tempo strettamente necessario affinché, al termine delle verifiche preliminari, la constatazione dei fatti avrebbe potuto essere tradotta in accertamento, senza ingiustificati ritardi derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati ai diversi organi (per tutte: Cass. Sez. Un., n. 5395 del 2007, cit.), avuto riguardo, oltre che alla
complessità della materia, alle particolarità del caso concreto, anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 21171 del 2019, cit.)’.
A tal proposito, ha proseguito Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855, è stato ulteriormente precisato che il termine per la contestazione all’interessato, stabilito, a pena di decadenza, dall’art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689, delle violazioni di norme in materia di intermediazione finanziaria, non decorre dal momento in cui il predetto documento è stato acquisito nella sua materialità, ma, dovendosi tener conto anche del tempo necessario per la valutazione dell’idoneità di tale fatto a integrare gli estremi (oggettivi e soggettivi) di comportamenti sanzionati come illeciti amministrativi, da, compimento dell’accertamento o dal momento in questo avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato dall’organo addetto alla vigilanza delle disposizioni che si assumono violate ( ex multis , di recente: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27702 del 29/10/2019, Rv. 655683 – 01).
Consegue da quanto detto l’inammissibilità della censura.
3.1 Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la mancanza assoluta di motivazione o, comunque, la motivazione apparente e, in via subordinata, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 190 T.U.F. e degli artt. 47, 49 e 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito rigettato i motivi che, ispirati alla reputata natura sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate, censuravano il provvedimento sanzionatorio 1) per la mancata applicazione del principio del favor rei in relazione alla più recente disciplina recata dagli artt. 190 e 195 T.U.F., come introdotta dal d.lgs. n. 72 del 2015, 2) per la mancata separazione tra funzioni istruttorie e decisorie in sede di procedimento amministrativo e 3) per la duplicazione di sanzioni in ordine al
medesimo fatto, per avere la Banca d’Italia già sanzionato con la delibera n. 424 del 5/8/2014 i ricorrenti per la determinazione del valore delle azioni di Veneto Banca non ispirata a principi di prudenza e non aderenza alla realtà aziendale, escludendo a priori la natura penale delle sanzioni ex art. 190 T.U.F. alla stregua del costante insegnamento della Corte di legittimità, senza esplicitare quali fosse le ragioni della decisione e senza considerare che le pronunce della Suprema Corte e della Corte costituzionale da essi richiamate non affermavano la non equiparabilità delle sanzioni ex art. 190 T.U.F. alle sanzioni di natura penale, così come configurate dalla Core Europea dei Diritti dell’Uomo, e che la natura sostanzialmente penale delle sanzioni andava valutata in concreto, specie alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 73 del 21/3/2019, con la conseguenza che la motivazione doveva dirsi inesistente o comunque apparente, oltre che contrastante con i principi affermati dalla giurisprudenza EDU e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di natura penale di una sanzione.
I ricorrenti hanno, infine, chiesto che, previa sospensione del giudizio, venisse sottoposta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea domanda pregiudiziale sulla questione, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 21/3/2019, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. 2 maggio 2015, n. 72, nella parte in cui escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 alle sanzioni previse dall’illecito disciplinato dall’art. 187 -bis del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, sulla base della natura punitiva delle stesse, evidenziando, quanto all’art. 190 del medesimo d.lgs. anteriore alla modifica: l’analogia delle sanzioni in questione, quanto a cornice edittale e interessi tutelati, ad altre considerate penali dalla CEDU; la valutazione, operata da questa Corte, delle predette sanzioni in correlazione con quelle relative alla manipolazione del mercato e
non singolarmente; le conseguenze derivanti dalla considerazione della natura penale delle sanzioni in questione in ordine al favor rei , al ne bis in idem e alla divisione di funzioni istruttorie e decisorie dell’organo giudicante; la competenza della CGUE sul punto; l’obbligo di questa Corte di proporre la questione pregiudiziale alla CGUE; l’assenza di giurisprudenza consolidata della CGUE sulla questione dell’art. 190 d.lgs. n. 58 del 1998.
3.2 Il secondo motivo è infondato.
Occorre innanzitutto ricordare come la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, debba essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio
convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Tale vizio non è ravvisabile nella specie, avendo i giudici adeguatamente spiegato i motivi per i quali le sanzioni irrogate non potevano considerarsi come aventi natura penale, ma amministrativa, citando al riguardo la sentenza di questa Corte n. 20689/2018, di cui hanno riportato la motivazione, facendola propria.
Invero, questa Corte ha più volte affermato che non è possibile l’equiparazione delle sanzioni amministrative in oggetto, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate per manipolazione del mercato ex art. 187 e ss. T.U.F. e che, di conseguenza, le stesse non hanno la natura sostanzialmente penale, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti (cfr. Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833; Cass. Sez. 1, 30/06/2016, n. 13433; Cass. Sez. 1, 02/03/2016, n. 4114; Cass. Sez. 2, 22-09-2017 n. 27837 e Cass. Sez. 2 24/02/2016, n. 3656, tutte in rapporto a Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, COGNOME e altri c. Italia).
Non si può condividere, pertanto, l’assunto della difesa del ricorrente secondo cui le suddette sanzioni devono essere considerate afflittive, e dunque, sostanzialmente penali.
Al riguardo si richiama integralmente quanto già affermato da Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154, sia in ordine alla natura amministrativa della sanzione relativa all’art. 190 T.U.F., sia all’insussistenza dei presupposti per disporre il sollecitato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul punto, condividendosi integralmente le relative argomentazioni.
In particolare, la suddetta pronuncia è partita dai principi affermati dalla Corte costituzionale, secondo cui rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità «punitiva», il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU, atteso che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011), con conseguente retroattività della lex mitior in materia penale, sia in ragione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., sia dell’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia; Corte EDU, sentenza 24 gennaio 2012, NOME COGNOME c. Romania; Corte EDU, sentenza 12 gennaio 2016, COGNOME c. Andorra; Corte EDU, sentenza 12 luglio 2016, Ruban c. Ucraina), sia di altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e
politici, e l’art. 49, par. 1, della CDFUE (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019).
E’ stato anche ricordato quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 193 del 2016, che ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata «amministrativa» dal diritto interno) come «convenzionalmente penale», alla luce dei criteri Engel», precisando che la retroattività in mitius della legge penale, così come delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo, è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampiamente riconoscimento nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione Europea, siccome enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, par. 1, terzo periodo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (‘CDFUE’).
Ciò ha indotto la Consulta a concludere, con la sentenza n. 393 del 2006, che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo . Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al trasgressore, deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal
fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (Corte cost.).
Con specifico riguardo alle sanzioni ex art. 190 T.U.F., di cui l’orientamento costante di questa Corte ha escluso la natura penale (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17574 del 2022; Cass. Sez. 2, n. 8855 del 05/04/2017; Rv. 643735 – 01; Cass. Sez. 2, n. 23945 del 2019, con richiami), Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154 ha analizzato i criteri, alternativi e non cumulativi, c.d. Engel, elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e dati dalla qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale e dalla natura e grado di severità della «sanzione», per poi escludere a sua volta – pur nella consapevolezza che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione punitiva si inserisce -, la natura penale delle sanzioni in esame, sia in ragione della qualificazione giuridica (illecito amministrativo) attribuita chiaramente dal legislatore; sia della natura (assenza di un divieto generale di generale applicabilità, essendo la norma indirizzata ad una platea ristretta di possibili destinatari -i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche -, nonché assenza di finalità retributive, trattandosi di illeciti derivanti da trasgressioni di norme che impongono obblighi comportamentali riferiti all’organizzazione dei servizi finanziari), sia del grado di severità (assenza della connotazione dell’afflittività economica).
Sotto quest’ultimo profilo, si è anche detto che, secondo la formulazione applicabile ratione temporis , valevole peraltro anche nel caso di specie, l’importo delle sanzioni è compreso nella forbice edittale da euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila e che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può comunque essere svolta in termini totalmente astratti e
assoluti, ma deve essere necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce e al bene giuridico tutelato, dovendo considerarsi, da un lato, che nell’ordinamento sezionale del credito e della finanza sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che possono ascendere a molti milioni di euro; dall’altro lato, la tutela dei consumatori degli investitori e del mercato finanziario e del risparmio.
In questi stessi termini si sono pronunciate, tra le tante, anche Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833, secondo cui la sanzione prevista da tali norme, non corredata da sanzioni accessorie, né da confisca, non ha un’afflittività ‘così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale’ (vedi anche Cass., Sez. 2, 10/8/2023, n. 24375) e Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855, secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. T.U.F.), non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle inflitte ai sensi dell’art. 187ter del T.U.F. per manipolazione del mercato, sicché non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, in particolare quanto alla violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti.
In ragione di quanto detto, la pronuncia in esame ha ritenuto di rigettare le istanze di rimessione pregiudiziale alla CGUE e della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015 (nonché delle norme contenute nella legge di delega), rigetto che, per gli stessi motivi sopra enunciati, deve essere ribadito anche in questa sede.
4.1 Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 11 legge n. 689 del 1981, con riguardo alla
valutazione dei criteri di quantificazione della sanzione, e l’omesso esame di un fatto decisivo relativo all’ammontare delle sanzioni comminate, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, diminuendo la sanzione tenuto conto dell’oggettiva gravità delle violazioni e delle sue ricadute nei rapporti con la clientela e dei parametri oggettivi (dati dall’indole delle norme violate, dalla frequenza, dalla diffusione e dalla natura comportamentale di parte delle violazioni) e soggettivi (dati dalla rimproverabilità a titolo di colpa delle condotte accertate, dalla natura della carica ricoperta e dalle condizioni economiche), avevano reso una motivazione sostanzialmente apparente, in quanto avevano comminato la medesima sanzione a tutti i ricorrenti nonostante le differenze di reddito degli stessi, né avevano considerato, ai sensi dell’art. 194 -bis T.U.F., l’assenza di vantaggi o la mancanza di perdite evitate, così da trascurare un fatto decisivo per il giudizio e da rimettersi alla quantificazione svolta dall’Autorità di Vigilanza, con ciò violando le previsioni normative sopra citate.
4.2 Il terzo motivo è inammissibile.
Va, infatti, evidenziato come, nella sentenza impugnata, non vi sia alcun richiamo alla questione giuridica prospettata nel motivo, che non risulta né descritta nella parte relativa allo svolgimento del processo, né trattata nella parte riguardante la decisione.
Ciò comporta che, implicando essa un accertamento di fatto, il ricorrente, nel proporla in sede di legittimità, avrebbe dovuto, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde consentire a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di
esaminare nel merito la censura stessa (Cass., Sez. 6-5, 13/12/2019, n. 32804; Cass., Sez. 6-1, 13/6/2018, n. 15430), non essendo consentita la prospettazione di nuove questioni di diritto o contestazioni che modifichino il thema decidendum e implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, anche ove si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., Sez. 2, 15/3/2022, n. 12877; Cass., Sez. 2, 06/06/2018, n. 14477), incombenze queste non assolte nel caso di specie.
Va, peraltro, osservato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel caso di contestazione della misura della sanzione, il giudice è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e a reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse (Cass., Sez. 2, 2/4/2015, n. 6778).
Non è, invece, tenuto a controllare la motivazione dell’ordinanzaingiunzione, dovendo determinare la sanzione entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dall’art. 11 della l. n. 689 del 1981 (Cass., Sez. 2, 15/06/2020, n. 11481; Cass., Sez. 2, 17/07/2024, n. 19716).
Nella specie, i giudici di merito hanno parametrato la sanzione, tenendo conto del fatto che il fattore tempo di permanenza nella carica non costituisse fattore nient’affatto attenuante della responsabilità degli opponenti, non potendosi disconoscere che la
loro carica era perdurata per un lasso di tempo oggettivamente rilevante e durante il quale era maturato tutto il contesto soggettivo e aziendale nel cui ambito si erano realizzate le violazioni contestate, considerando ulteriormente l’oggettiva gravità delle violazioni e la ricaduta delle stesse nei confronti della clientela e gli altri parametri oggettivi (indole delle norme violate, frequenza, diffusione, natura comportamentale di parte delle violazioni) e quelli soggettivi (rimproverabilità a titolo di colpa delle condotte accertate, natura della carica ricoperta, condizioni economiche).
E’ allora evidente come la censura, ancorché proposte in termini di violazione di legge, celi in realtà una sollecitazione alla rivisitazione nel merito della questione dell’entità della sanzione comminata, preclusa a questa Corte di legittimità, con conseguente sua inammissibilità.
In conclusione, va dichiarata cessata la materia del contendere con riguardo a COGNOME NOME e COGNOME FrancoCOGNOME in relazione ai quali nulla deve essere disposto sulle spese.
Dichiarata l’infondatezza dei primi due motivi e l’inammissibilità del terzo, rispetto alle restanti parti il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico dei ricorrenti.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, con eccezione di COGNOME Gian NOME e COGNOME Franco, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara cessata la materia del contendere con riguardo a COGNOME NOME e COGNOME NOME;
rigetta il ricorso proposto da COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Alessandro e COGNOME Leone e condanna i predetti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti, ad eccezione di COGNOME NOME e COGNOME Franco, del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda