Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11521 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11521 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8933/2019 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, in persona del liquidatore p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente –
e
RAGIONE_SOCIALE, in persona del procuratore speciale NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 749/18, depositata il 14 febbraio 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 4632/06, emesso il 14 giugno 2006, con cui il Tribunale di Napoli gli aveva intimato, in qualità di avente causa dalla Cassa per il Mezzogiorno, il pagamento della somma di Euro 845.015,55, oltre IVA e interessi da calcolarsi ai sensi degli artt. 35 e 36 del d.P.R. 16 aprile 1962, n. 1063 e interessi anatocistici, a titolo di revisione dei prezzi dovuta in virtù di un contratto di appalto stipulato il 30 ottobre 1979, avente ad oggetto la realizzazione del I lotto delle opere per l’approvvigionamento idrico dell’Area metropolitana di Napoli e dei Comuni ed agglomerati industriali delle Province di Napoli e Caserta.
A sostegno dell’opposizione, il Ministero riferì di avere estinto il credito con mandato di pagamento emesso il 24 luglio 1986 in favore della Banca Nazionale dell’Agricoltura, cui l’appaltatrice aveva conferito procura irrevocabile all’incasso, aggiungendo di avere provveduto anche al pagamento degl’interessi maturati per il ritardo nell’adempimento, con mandato emesso il 29 agosto 1986; eccepì inoltre la prescrizione del credito, chiedendo di essere autorizzato a chiamare in causa la Banca, ai fini dell’esercizio dell’azione di rivalsa.
Si costituì la convenuta, e resistette all’opposizione, chiedendone il rigetto.
Autorizzata la chiamata in causa, si costituì anche la Banca, che eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva e la prescrizione del credito.
1.1. Con sentenza del 9 luglio 2009, il Tribunale di Napoli accolse l’opposizione e revocò il decreto ingiuntivo.
L’impugnazione proposta dalla COGNOME è stata rigettata dalla Corte d’ap-
pello di Napoli, che con sentenza del 14 febbraio 2018 ha dichiarato assorbito l’appello incidentale condizionato proposto dalla Banca.
Premesso che con determinazione del 25 marzo 1986 la Cassa per il Mezzogiorno aveva riconosciuto la revisione dei prezzi in favore della Torno, la Corte ha rilevato che il 16 aprile 1986 era stato emesso il certificato finale per il pagamento del saldo revisionale, il 24 luglio 1986 il mandato di pagamento con disposizione di accreditamento presso la Banca, cui l’appaltatrice aveva conferito mandato irrevocabile all’incasso, accettato dalla committente, ed il 2 settembre 1986 il mandato di pagamento degl’interessi legali e moratori, cui avevano fatto riscontro, in data 28 ottobre e 15 dicembre 1986, due note ricognitive dell’avvenuto pagamento, recanti l’intestazione e il timbro dell’appaltatrice e la sottoscrizione del suo amministratore. Pur precisando che la prova del pagamento poteva essere fornita anche in via presuntiva, ha attribuito alle predette note natura di confessione stragiudiziale, riconoscendo alle stesse efficacia di piena prova, contestabile esclusivamente ai sensi dell’art. 2732 cod. civ., e ritenendo irrilevante la negazione dell’avvenuta sottoscrizione da parte del legale rappresentante della Torno, in considerazione del contenuto e delle caratteristiche formali ed esteriori di tali documenti. Ha aggiunto che, anche nel caso in cui l’amministratore avesse operato in carenza di potere o eccedendo i limiti del proprio potere rappresentativo, le note non sarebbero risultate invalide, ma al più inefficaci nei confronti della società, nei limiti previsti dagli artt. 2384 e 2384bis cod. civ., rilevando comunque che il loro contenuto trovava riscontro in una pluralità di elementi emersi dall’istruttoria, nonché nel comportamento tenuto dal liquidatore della Torno, che nel corso del libero interrogatorio aveva dichiarato di non essere a conoscenza dei fatti in questione, pur avendo avuto accesso alle scritture contabili della società.
La Corte ha ritenuto conseguentemente infondata anche la domanda di riconoscimento degl’interessi avanzata nel ricorso per decreto ingiuntivo, non accompagnata peraltro da specifiche deduzioni anche di natura contabile idonee a giustificare la richiesta di somme differenziali rispetto a quelle liquidate a titolo di accessori sul saldo revisionale, rigettando altresì la richiesta di ammissione di una c.t.u., in quanto avente una valenza esplorativa, e reputando
invece inammissibile, in quanto avanzata soltanto nel giudizio di opposizione, la domanda di riconoscimento del maggior danno di cui all’art. 1224 cod. civ.
Avverso la predetta sentenza la Torno ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. Hanno resistito con controricorsi il Ministero e la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., in qualità di avente causa della Banca Antonveneta S.p.a., a sua volta succeduta alla Banca Nazionale dell’Agricoltura.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 cod. civ., degli artt. 55, 63 e 67 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 e degli artt. 295, 296, 316, 421, 422, 432 e 653 del r.d. 23 maggio 1924, n. 827, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che la prova del pagamento potesse essere fornita attraverso la confessione stragiudiziale o in via presuntiva, senza tenere conto della natura pubblica della Cassa per il Mezzogiorno e dell’assoggettamento della stessa alla disciplina della contabilità di Stato, la quale subordina il pagamento al rilascio di quietanza scritta da parte del creditore. Premesso inoltre che la quietanza dev’essere conservata per dieci anni, a meno che il creditore non abbia fatto pervenire richieste di pagamento idonee ad interrompere la prescrizione, sostiene che, nonostante il tempo trascorso dalla maturazione del credito, gli uffici di tesoreria della Cassa per il Mezzogiorno avrebbero dovuto essere in grado di recuperare la quietanza, avendo essa ricorrente richiesto ripetutamente il pagamento della somma dovuta.
Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2733, secondo comma, e 2735, primo comma, cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver attribuito alle note prodotte natura di confessione stragiudiziale resa alla controparte, avente efficacia di piena prova, anziché natura di confessione stragiudiziale resa al terzo, valutabile liberamente, senza considerare che le stesse non erano state inviate al Ministero, ma alla Cassa per il Mezzogiorno, con la quale era stato stipulato il contratto, ed all’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, aventi personalità giuridica distinta da quella del Ministero.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2724 n. 3, 2725, 2726 e 2729 cod. civ., osservando che, nonostante la ritenuta operatività della confessione stragiudiziale, la sentenza impugnata ha fatto ricorso alla prova per presunzioni, inammissibile nel caso in esame, poiché il pagamento atteneva ad un contratto per il quale l’art. 16 del r.d. n. 2440 del 1923 richiedeva la forma scritta ad substantiam e doveva essere effettuato in favore della Banca cui essa ricorrente aveva conferito con atto pubblico procura irrevocabile all’incasso. Premesso inoltre che il Ministero non aveva dedotto e dimostrato di aver perduto senza sua colpa la quietanza né fornito un principio di prova scritta, non potendosi considerare tali le note prodotte in giudizio, di cui essa ricorrente aveva negato la sottoscrizione da parte dell’amministratore, sostiene che, nel ritenere irrilevante tale contestazione, la Corte territoriale ha fatto ricorso ancora una volta alle presunzioni.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116, 228, 230 e 232 cod. proc. civ. e degli artt. 2730 e 2733 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto provato il pagamento in virtù del comportamento tenuto dal liquidatore in sede di interrogatorio formale, senza considerare che la quietanza scritta richiesta dalle norme di contabilità di Stato non può essere sostituita da una confessione giudiziale, e che il liquidatore non aveva in alcun modo ammesso i fatti dedotti nei capi dell’interrogatorio.
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 119, comma quarto, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e degli artt. 1703, 1704, 1706, 1710, 1713, 1722, 1723, 2935 e 2946 cod. civ., sostenendo che, nel ritenere impraticabile l’esibizione da parte della Banca della documentazione relativa al pagamento, in considerazione del decorso del termine di cui all’art. 119, comma terzo, cit., la sentenza impugnata ha esteso ad essa ricorrente gli effetti della prescrizione eccepita dalla Banca nei confronti del Ministero, senza considerare che tale eccezione era riferibile unicamente al rapporto processuale e sostanziale tra il Ministero e la Banca, chiamata in causa ai fini sia dell’esibizione che della domanda di rivalsa proposta dall’Amministrazione. Premesso che, non avendo ricevuto il pagamento, essa ricorrente aveva il diritto di ottenere dalla Banca il rendiconto
previsto dal contratto di mandato, afferma che nei suoi confronti non poteva essere eccepita la prescrizione, non avendo mai cominciato a decorrere il relativo termine.
Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 11 disp. prel. cod. civ. e la falsa applicazione dell’art. 119, comma quarto, del d.lgs. n. 385 del 1993, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto applicabile quest’ultima disposizione, non entrata ancora in vigore alla data di conferimento del mandato all’incasso e non avente efficacia retroattiva.
Così riassunte le censure proposte dalla ricorrente, si osserva innanzitutto che, ai fini della prova del pagamento, la sentenza impugnata non si è avvalsa in alcun modo di presunzioni, ma ha richiamato il contenuto delle due note ricognitive trasmesse alla Cassa per il Mezzogiorno il 28 ottobre ed il 15 dicembre 1986, in cui la società attrice aveva dato atto dell’avvenuto pagamento degl’importi dovuti a titolo di revisione dei prezzi e d’interessi per ritardato pagamento, attribuendo alle stesse natura di confessione stragiudiziale, e non già di mero elemento indiziario, precisando pertanto che il fatto estintivo del credito azionato poteva essere contestato, ai sensi dell’art. 2732 cod. civ., soltanto fornendo la prova, mai dedotta dalla ricorrente, che la confessione era stata determinata da errore di fatto o da violenza, e ritenendo conseguentemente assorbito il primo motivo di gravame, con cui l’appellante aveva censurato la sentenza di primo grado, per aver fatto ricorso alla prova presuntiva.
Nell’ambito di tale ragionamento, totalmente incentrato sulla natura confessoria delle due note prodotte in giudizio, il riferimento al contesto fattuale in cui le stesse s’inserivano (la determinazione di riconoscimento del saldo revisionale, l’emissione del relativo certificato di pagamento e del mandato, il mandato irrevocabile all’incasso conferito dalla creditrice alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, l’accettazione dello stesso da parte della debitrice, la comunicazione dell’avvenuta liquidazione degl’interessi legali e moratori e l’emissione del relativo mandato di pagamento), così come quelli al consistente ritardo nella proposizione della domanda giudiziale e al contegno tenuto dal liquidatore della Torno nel corso del libero interrogatorio, non solo non assume una valenza inferenziale, ma non riveste neppure un ruolo autonomo,
tale da consentire di ravvisare una ratio decidendi alternativa, svolgendo piuttosto una funzione interpretativa e complementare, nel senso che contribuisce a chiarire il significato delle dichiarazioni confessorie rilasciate dalla ricorrente e ad avvalorare le conclusioni raggiunte sulla base delle stesse.
Ciò posto, vanno dichiarati inammissibili, per difetto di pertinenza, il primo motivo, nella parte concernente l’ammissibilità della prova per presunzioni dei pagamenti effettuati dalla Pubblica Amministrazione, e il terzo, riguardante i limiti di ammissibilità della medesima prova nei casi in cui la legge richiede la forma scritta ad substantiam : si tratta infatti di censure che, muovendo dall’assunto dell’avvenuta utilizzazione della prova per presunzioni, non attingono la ratio decidendi della sentenza impugnata, fondata piuttosto sulla confessione dell’avvenuta ricezione del pagamento da parte della società ricorrente.
Il primo motivo, nella parte riguardante l’ammissibilità della confessione ai fini della prova dei pagamenti effettuati dalla Pubblica Amministrazione, è invece infondato, così come il quarto, da esaminarsi congiuntamente, in quanto avente il medesimo oggetto.
Non può essere infatti esteso a tale mezzo di prova il principio, desumibile a contrario dalla giurisprudenza di legittimità in tema di pagamenti degli enti previdenziali, secondo cui gli artt. 55 e 63 del r.d. n. 2440 del 1923, nel testo (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) anteriore alle modificazioni introdotte dall’art. 30, comma primo, del d.l. 21 giugno 2922, n. 73, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2022, n. 122, prevedendo che il pagamento delle somme dovute dagli enti pubblici soggetti alla disciplina della contabilità di Stato (tra i quali non possono essere annoverati gli enti previdenziali) abbia luogo attraverso l’emissione di assegni tratti sull’istituto incaricato del servizio di tesoreria e da consegnarsi al creditore contro il rilascio di ricevuta o di ordinativi da estinguersi mediante commutazione in quietanza, escludono che la relativa prova possa essere fornita per testimoni o per presunzioni, occorrendo invece la produzione in giudizio della ricevuta o della quietanza (cfr. Cass., Sez. I, 30/01/2025, n. 4318; Cass., Sez. VI, 31/ 08/2021, n. 23599; Cass., Sez. lav., 27/11/2014, n. 25251). Indubbiamente, tale esigenza trova fondamento, analogamente al requisito della forma scritta
previsto dagli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440 del 1923 per la stipulazione dei contratti della Pubblica Amministrazione, nella natura pubblica del soggetto debitore e nell’assoggettamento della sua attività ai controlli funzionali all’attuazione del principio di buon andamento ed alla tutela delle risorse pubbliche, che, comportando la sottoposizione dei pagamenti a verifiche amministrative e contabili, impongono all’ente di conservarne quietanza, escludendo quindi la possibilità di ritenerlo liberato, in difetto della produzione della quietanza o dell’allegazione di specifiche ragioni che ne giustifichino la mancanza (cfr. Cass., Sez. lav., 24/01/2007, n. 1587; 18/01/2007, n. 1105). La mera necessità che il pagamento risulti da una dichiarazione scritta del creditore, attestante l’avvenuta ricezione della somma dovuta, non consente tuttavia di ritenere che il rispetto di tale forma sia prescritta a pena di nullità, come accade invece per la stipulazione del contratto: per quest’ultima, infatti, l’osservanza del requisito formale attiene al momento formativo dell’accordo, risultando essenziale ai fini della costituzione del vincolo contrattuale, mentre per il pagamento, che attiene alla fase esecutiva dell’accordo già formato, la forma scritta risponde esclusivamente ad una finalità di documentazione, sicché la sua mancanza non impedisce l’estinzione dell’obbligazione, assumendo rilievo soltanto ai fini della relativa prova (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/1971, n. 1966). Non essendo la forma scritta richiesta ad substantiam , non può trovare applicazione neppure il principio, costantemente ribadito da questa Corte in riferimento al contratto, secondo cui, ove la legge richieda la predetta forma a pena di nullità, alla mancata produzione in giudizio del documento recante la manifestazione della volontà negoziale non può supplire la confessione della controparte (sia essa resa in giudizio, spontaneamente o provocata mediante interrogatorio formale, o in via stragiudiziale), né il deposito di una scrittura che la contenga (cfr. Cass., Sez. I, 25/01/2022, n. 2091; 6/ 12/2007, n. 25435; Cass., Sez. II, 21/02/ 2017, n. 4431; 7/10/1982, n. 5148).
Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto provato il pagamento delle somme richieste con il ricorso per decreto ingiuntivo, in virtù della produzione in giudizio delle due note trasmesse dalla creditrice alla Cassa per il Mezzogiorno, recanti la confessione dell’avvenuto
incasso degl’importi dovuti a titolo di saldo revisionale e d’interessi per ritardato pagamento.
10. Non è meritevole di accoglimento neppure il secondo motivo, riguardante l’efficacia attribuita alle dichiarazioni confessorie, pur dovendosi procedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha attribuito alle stesse valore di piena prova, senza considerare che esse non erano rivolte al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ma alla Cassa per il Mezzogiorno, originaria titolare del rapporto di appalto, della quale il Ministero convenuto non poteva considerarsi successore a titolo universale.
Ai sensi dell’art. 2735, primo comma, cod. civ., la confessione stragiudiziale ha la stessa efficacia di quella giudiziale, se fatta alla controparte o a chi la rappresenta, mentre nel caso in cui sia fatta a un terzo è liberamente apprezzabile da parte del giudice. Alla controparte va poi equiparato, ai fini della opponibilità della confessione, il successore universale, il quale subentra nella medesima situazione del suo dante causa e in tutti i suoi rapporti giuridici attivi e passivi (cfr. Cass., Sez. III, 5/02/2008, n. 2664; Cass., Sez. II, 26/11/ 1997, n. 11851), mentre, avuto riguardo all’autonomia della posizione del successore a titolo particolare, la confessione del suo dante causa è liberamente valutabile da parte del giudice, anche se resa in giudizio (cfr. Cass., Sez. II, 1/04/2003, n. 4904).
Ciò posto, si osserva che il d.lgs. 3 aprile 1993, n. 96, nel disporre la cessazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, a far data dal 15 aprile 1993, e nel disciplinare il trasferimento delle competenze del Dipartimento per gl’interventi straordinari nel Mezzogiorno e dell’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, soppressi dall’art. 2 della legge 19 dicembre 1992, n. 488, prevedeva, all’art. 19, la nomina di un commissario liquidatore, cui demandava la liquidazione dei rapporti giuridici già facenti capo agli stessi e definiti alla predetta data e la definizione dei rapporti pendenti indicati come indilazionabili dalle Amministrazioni competenti, nonché il compimento delle operazioni di trasferimento delle attività, delle funzioni e dei beni strumentali. L’Agenzia era a sua volta succeduta nei rapporti giuridici e finanziari già facenti capo alla Cassa per il Mezzogiorno ai sensi dell’art. 17,
comma nono, della legge 1° marzo 1986, n. 64, il quale, facendo riferimento ai rapporti esistenti nella gestione liquidatoria e nella gestione commissariale, richiamava l’art. 2 del d.P.R. 6 agosto 1984, che, nel disporre la soppressione della Cassa, aveva a sua volta previsto la nomina di un commissario liquidatore, ai fini dell’accertamento della consistenza del suo patrimonio e della sua situazione finanziaria.
In tema di soppressione di enti pubblici, questa Corte ha costantemente affermato che la successione si attua in modo diverso a seconda che la legge o l’atto amministrativo che hanno disposto la soppressione abbiano considerato il permanere delle finalità dell’ente soppresso ed il loro trasferimento ad altro ente, unitamente al passaggio, sia pure parziale delle strutture e del complesso delle posizioni giuridiche già facenti capo al primo ente, ovvero abbiano disposto la soppressione «previa liquidazione»: nel primo caso deve infatti ritenersi che la successione si attui in universum jus , con la conseguenza che tutti i rapporti giuridici che facevano capo all’ente soppresso passano all’ente subentrante, mentre nel secondo caso, difettando la contemplazione del permanere degli scopi dell’ente soppresso, non avrebbe senso una successione a titolo universale nelle strutture organizzative che fosse attuata ai soli fini del loro scioglimento, e deve pertanto ritenersi che la successione avvenga a titolo particolare, limitata ai soli beni che residuino alla procedura di liquidazione, con la conseguenza che l’ente liquidatore non si sostituisce nella titolarità della sfera giuridica originaria (cfr. Cass., Sez. lav., 27/04/ 2016, n. 8377; Cass., Sez. I, 31/10/2008, n. 26310; Cass., Sez. III, 18/01/ 2002, n. 535). Conformemente tale principio, deve ritenersi che, anche a voler ravvisare nel trasferimento dei rapporti giuridici della Cassa per il Mezzogiorno in favore dell’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno una successione a titolo universale, non può affermarsi altrettanto per il trasferimento dei rapporti già facenti capo all’Agenzia in favore del Ministero: sebbene, infatti, alla soppressione di entrambi gli enti abbia fatto seguito lo svolgimento di una procedura di liquidazione, volta alla definizione dei rapporti pendenti e affidata ad un apposito commissario, soltanto nel primo caso è stato previsto il permanere delle finalità dell’ente soppresso ed il loro trasferimento ad altro ente, essendo stata disposta, con gli artt. 1 e 4
della legge n. 64 del 1986, l’attribuzione all’Agenzia delle funzioni già spettanti alla Cassa, mentre nel secondo caso il d.lgs. n. 96 del 1993 ha previsto la cessazione dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, con l’attribuzione delle funzioni del relativo Ministero a quello del tesoro, del bilancio e della programmazione economica (artt. 1, comma primo, e 3), e l’istituzione di un sistema d’interventi ordinario nelle aree depresse del territorio nazionale (artt. 1, comma secondo, e 2).
Non essendo configurabile una successione a titolo universale tra l’Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno e il Ministero convenuto, il quale è succeduto a titolo particolare nel debito derivante dal contratto di appalto stipulato dalla Cassa per il Mezzogiorno con la società attrice, ai sensi del comma quinto dell’art. 9bis del d.lgs. n. 96 del 1993, introdotto dall’art. 7 del d.l. 8 febbraio 1995, n. 32, convertito in legge 7 aprile 1995, n. 104, le note trasmesse dalla creditrice alla Cassa non avrebbero potuto essere inquadrate nella fattispecie della confessione stragiudiziale resa alla controparte, trattandosi piuttosto, come si è detto in precedenza, di confessioni stragiudiziali rese al terzo, e quindi non aventi efficacia di piena prova nei confronti del Ministero, ma liberamente valutabili da parte del giudice.
L’errata qualificazione giuridica adottata dalla sentenza impugnata non ha peraltro impedito alla Corte d’appello di procedere ad un corretto apprezzamento delle predette note, del cui contenuto essa non si è limitata a prendere atto, per desumerne senz’altro la prova del pagamento, avendolo invece posto in relazione con altri elementi di fatto emersi dall’istruttoria, e ritenuti idonei a fornire adeguati riscontri, dalla cui valutazione ha tratto il convincimento dell’avvenuta estinzione dell’obbligazione fatta valere dalla ricorrente.
Tale valutazione non può ritenersi inficiata dalle censure proposte dalla ricorrente, la quale, nel contestare l’ammissibilità della confessione giudiziale ai fini della prova dei pagamenti delle Pubbliche Amministrazioni, non tiene conto della già segnalata efficacia non costitutiva della forma prescritta dagli artt. 55 e 63 del r.d. n. 2440 del 1923 e della natura stragiudiziale espressamente riconosciuta dalla sentenza impugnata alla confessione contenuta nelle note prodotte in giudizio, nonché della circostanza, emergente dalla sentenza impugnata, che l’interrogatorio svoltosi nel corso del giudizio non aveva ca-
rattere formale, ma libero, sicché non mirava a provocare la confessione giudiziale, ma ad acquisire elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini della decisione (cfr. Cass., Sez. II, 29/12/2014, n. 27407; Cass., Sez. lav., 22/07/2010, n. 17239; Cass., Sez. III, 28/02/2008, n. 5290). Nel sostenere che il liquidatore della società non aveva in alcun modo ammesso i fatti dedotti dalla controparte, la ricorrente censura poi la valutazione compiuta dalla Corte d’appello in ordine alla condotta tenuta dal suo legale rappresentante in sede d’interrogatorio libero, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, spettando in via esclusiva al giudice di merito, in quanto attinente al merito della controversia.
11. E’ poi inammissibile il quinto motivo, riflettente l’ammissibilità della richiesta di esibizione della documentazione bancaria relativa al pagamento.
La tesi sostenuta dalla ricorrente, secondo cui il decorso del termine decennale di cui all’art. 119, comma quarto, del d.lgs. n. 385 del 1993 non era ad essa opponibile, trattandosi di un termine di prescrizione, la cui intervenuta scadenza era stata eccepita dalla Banca esclusivamente nei confronti del Ministero, non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, nel rigettare la predetta richiesta, non ha affatto dichiarato prescritto il diritto ad ottenere copia della documentazione in questione, ma ne ha ritenuto «impraticabile» l’esibizione da parte della Banca, dando atto dell’«impossibilità pratica» per la stessa di produrre in giudizio le quietanze liberatorie, in conseguenza dell’intervenuta scadenza del termine.
La norma in esame non prevede infatti un termine di prescrizione, ma si limita ad individuare il limite di tempo entro il quale la banca ha l’obbligo di conservare la documentazione inerente alle singole operazioni poste in essere dal cliente, della quale quest’ultimo, colui che gli sia succeduto a qualunque titolo o colui che sia subentrato nell’amministrazione dei suoi beni ha il diritto di ottenere copia a proprie spese, entro un congruo termine e comunque non oltre novanta giorni dalla relativa richiesta. Tale diritto sorge indubbiamente dal contratto, ma, come già precisato da questa Corte, si concretizza soltanto a seguito della proposizione della relativa richiesta, in mancanza della quale non diviene neppure attuale l’obbligazione della banca, il cui inadempimento scatta soltanto a seguito dell’esercizio, da parte di uno dei soggetti indicati,
della facoltà normativamente contemplata, ed a condizione che sia spirato inutilmente il termine entro il quale la richiesta dev’essere soddisfatta (cfr. Cass., Sez. I, 29/11/2022, n. 35039). Trattandosi di «un diritto potestativo, che, fintanto che non venga esercitato, rimane confinato nel mondo del possibile giuridico», non è neppure ipotizzabile, prima che venga avanzata la relativa richiesta, la decorrenza di un termine prescrizionale, ma solo il venir meno dell’obbligo della banca di conservare la documentazione, la cui cessazione dev’essere accertata calcolando a ritroso il decennio previsto, con decorrenza dalla data della richiesta, e verificando quali operazioni vi siano incluse, tra quelle cui la stessa si riferisce.
L’applicazione di tale criterio alla fattispecie in esame consente di ritenere senz’altro condivisibile la statuizione adottata dalla Corte di merito, la quale, indipendentemente dal riferimento ad una mera impossibilità pratica dell’esibizione, anziché alla cessazione dell’obbligo giuridico della Banca di conservare la documentazione richiesta, ha correttamente rilevato l’intervenuta scadenza del termine di cui all’art. 119, comma quarto, cit.: tale scadenza trova d’altronde conferma nella ricostruzione dei fatti emergente dalla sentenza impugnata, da cui risulta che il ricorso per decreto ingiuntivo che ha dato origine al presente giudizio fu depositato il 2 maggio 2006, e quindi ad oltre dieci anni di distanza dall’effettuazione dei pagamenti dedotti, risalenti rispettivamente al 5 agosto ed al 16 settembre 1986.
12. E’ infine infondato il sesto motivo, avente ad oggetto l’inapplicabilità dell’art. 119, comma quarto, del d.lgs. n. 385 del 1993, in quanto non avente efficacia retroattiva, e non riferibile pertanto al mandato all’incasso conferito dalla ricorrente alla Banca, anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo.
In tema di rapporti bancari, questa Corte ha infatti affermato che il termine decennale entro il quale la banca è tenuta alla conservazione della documentazione relativa alle operazioni bancarie, ai sensi dell’art. 119, comma quarto, cit., costituisce espressione di un principio di carattere generale, applicabile anche ai contratti conclusi anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 385 del 1993 e, ancor prima, della legge 17 febbraio 1992, n. 154: sia l’esistenza dell’obbligo di conservazione e di rilascio della copia che l’ap-
plicazione del termine decennale si desumono dalla lettura della normativa codicistica (art. 2220 cod. civ.) e di quella speciale in materia bancaria, come fornita dalla giurisprudenza di legittimità, non essendovi spazio per un’interpretazione delle stesse che affermi la sussistenza dell’obbligo ed escluda al tempo stesso l’applicazione del termine, e risultando il cliente ampiamente tutelato dalla possibilità di esercitare il diritto di ottenere quella documentazione entro un lasso di tempo notevolmente ampio, in funzione del quale è costruito essenzialmente l’obbligo di conservazione della banca (cfr. Cass., Sez. I, 29/11/2022, n. 35039).
Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, in favore della Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., ed in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito, in favore del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 18/12/2024