Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7934 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7934 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12200 R.G. anno 2020 proposto da:
COGNOME NOME , rappresentata e difesa dall’avAVV_NOTAIO NOME COGNOME e e dall’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avAVV_NOTAIO NOME COGNOME;
contro
ricorrente
nonché contro
COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’avAVV_NOTAIO NOME COGNOME;
contro
ricorrente
avverso la sentenza n. 5703/2019 depositata il 20 settembre 2019 della Corte di appello di Roma.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 gennaio 2024
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE ha proposto, avanti al Tribunale di Roma, una domanda basata su di una convenzione parasociale conclusa con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, la quale prevedeva l’ obbligazione solidale dei medesimi quanto al rilievo dell’intera partecipazione detenuta dall’attrice nella società RAGIONE_SOCIALE, di cui erano soci, e al l’acquisto di un correlato prestito obbligazionario convertibile sottoscritto da RAGIONE_SOCIALE. Quest’ultima ha in particolare domandato che fosse trasferita a RAGIONE_SOCIALE, ultima cessionaria delle partecipazioni di COGNOME e COGNOME in RAGIONE_SOCIALE, l’intera quota azionaria da essa detenuta in quest’ultima società e il prestito obbligazionario convertibile: ciò, dietro il corrispettivo delle somme di euro 134.685,61 e di euro 203.594,93; in via subordinata, ha proposto una domanda risarcitoria: domanda basata sul mancato acquisto della partecipazione azionaria e del prestito obbligazionario convertibile di cui si è detto.
Il Tribunale ha accolto le domande risarcitorie per gli importi sopraindicati.
In sede di gravame la Corte di appello di Roma ha riformato la sentenza impugnata con riguardo a una domanda di regresso spiegata da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME: domanda che è stata accolta per l’importo di euro 104.398,18. Ha confermato per il resto la sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione, con tre motivi, NOME COGNOME; resistono con controricorso RAGIONE_SOCIALE, incorporante RAGIONE_SOCIALE, e NOME COGNOME. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Il primo motivo del ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 2265 e 2744 c.c.. Sostiene la ricorrente che la norma contenuta nell’art. 7 della convenzione parasociale sia stata redatta in violazione del divieto del patto leonino e del patto commissorio. La detta previsione consentirebbe, infatti, a uno dei soci, di sottrarre il proprio conferimento al rischio derivante dalla gestione dell’attività sociale, accordandogli il diritto di recedere dalla posizione contrattuale recuperando il maggiore importo tra il valore del conferimento e il valore attuale dei titoli azionari o obbligazionari convertiti al momento dello scioglimento del vincolo contrattuale. Inoltre, in violazione dell’art. 2744 c.c. , il patto parasociale contemplerebbe l’immediata intestazione delle azioni al finanziatore e la contestuale concessione a quest’ultimo dell’opzione di vendita.
Il mezzo di censura è infondato.
La doglianza investe il giudizio di liceità del patto parasociale avente ad oggetto l’opzione put .
E’ ricordato nella sentenza impugnata che, in forza dell’art. 7 dell’accordo intercorso i soci di RAGIONE_SOCIALE si erano impegnati a rilevare, con vincolo di solidarietà e a semplice richiesta di RAGIONE_SOCIALE, nel termine indicato, l’intera partecipazione detenuta dalla stessa nella società, inclusa quella riveniente dalla eventuale conversione del prestito obbligazionario a un prezzo azionario predeterminato.
La Corte di merito ha evidenziato come la detenzione del pacchetto di partecipazione del socio finanziatore fosse temporanea e finalizzata al perseguimento degli obiettivi di ispirazione pubblicistica resi evidenti dallo statuto e dalla legge istitutiva di RAGIONE_SOCIALE; ha così rilevato che la componente causale del patto rispondeva «ad interessi meritevoli di tutela che, oltre ad essere del tutto coerenti con quelli societari, la ragione ultima della istituzione delle finanziarie regionali, il cui apporto di denaro in prevalenza pubblico è statutariamente volto a sostenere le imprese che non potrebbero
reperire sul mercato finanza».
Ciò posto, l’assunto dell’illiceità, per contrarietà al divieto del patto leonino, della c.d. opzione put si scontra con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui è lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l’altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put ) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società (Cass. 4 luglio 2018, n. 17498; in senso conforme: Cass. 21 ottobre 2019, n. 26774, non massimata in CED ; Cass. 7 ottobre 2021, n. 27227). Da tale giurisprudenza il Collegio non trova ragione di discostarsi.
La deduzione della nullità dell’opzione put in quanto elusiva della prohibitio dettata dall’ art. 2744 c.c. mostra, poi, di non misurarsi con la pronuncia impugnata, la quale, sul punto, ha rilevato non potersi dibattere di violazione del patto commissorio ove il diritto di riscatto sia attribuito al venditore, non già all’acquirente . La censura è pertanto inammissibile, in quanto l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare non solo le norme di legge di cui intende lamentare la violazione e di esaminarne il contenuto precettivo, ma di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745).
Va aggiunto che se è pur vero, come deduce la ricorrente, che il
divieto di patto commissorio si estende a qualsiasi negozio che venga utilizzato per conseguire il risultato concreto vietato dall’ordinamento, un problema di compatibilità dell’opzione put col divieto di patto commissorio può porsi in una prospettiva per così dire rovesciata rispetto a quella comunemente assunta per valutare la conciliabilità della stessa col divieto del patto leonino. Tale prospettiva è segnata dalla concreta presenza di una volontà negoziale diretta a impiegare il patto parasociale per accordare al socio finanziatore una garanzia atipica, consistente nel con solidamento dell’effetto dell’acquisto della partecipazione azionaria: volontà che potrebbe ipotizzarsi muovendo dalla considerazione che al titolare dell’opzione put è sostanzialmente accordato il diritto di valersi, ma anche di non valersi, del diritto di uscita. Un profilo fattuale coerente con questa impostazione non è stato però nemmeno allegato nella presente sede, ove il tema della compatibilità dell’opzione put col divieto di cui all’art. 2744 c.c. risulta declinato in termini del tutto astratti.
2. – Il secondo mezzo prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 Cost., 112 c.p.c., 1292, 1293, 1294, 1298 e 1299 c.c., nonché la nullità della sentenza o del procedimento per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Si deduce, in sintesi, che la Corte di appello avrebbe dovuto statuire sul vincolo di solidarietà tra i condebitori: essa si era invece limitata a riconoscere in favore della ricorrente il diritto di regresso nei limiti della quota di titolarità del socio COGNOME.
Il motivo è inammissibile.
Non si comprende quale interesse abbia oggi la ricorrente a una pronuncia su lla natura solidale dell’obbligazione da essa contratta, visto che la pronuncia impugnata reca in motivazione una espressa enunciazione in tal senso (pag. 14) e, del resto, lo stesso accoglimento della domanda di regresso, che è fondata sulla regola del riparto interno del debito (art. 1298 c.c.), presuppone, a monte, la solidarietà del
vincolo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La ricorrente pare in realtà dolersi pure della mancata pronuncia di una condanna solidale nei confronti di essa COGNOME e di COGNOME (pag. 14 del ricorso). E’ però evidentemente escluso che la Corte di appello avesse il potere di emettere una tale statuizione in assenza della corrispondente domanda da parte del soggetto che aveva agito in giudizio. Che una domanda siffatta fosse stata proposta non risulta poi dedotto nel motivo di ricorso, né risulta dalla sentenza impugnata. La sentenza si è quindi conformata alla volontà della parte creditrice, la quale aveva la facoltà di rivolgersi a ciascuno dei condebitori solidali per esigere l’intero (art. 1292 c.c.).
3. – Col terzo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. , nonché la nullità della sentenza o del procedimento per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La censura verte sul rilievo per cui, pur avendo la sentenza impugnata confermato l’integrale pagamento, da parte della ricorrente, della somma di euro 40.000,00 nel corso del giudizio di gravame in favore di RAGIONE_SOCIALE, avrebbe poi omesso di rendere, in dispositivo, una statuizione conseguente e mancato di decurtare detto importo dall’ammontare oggetto della condanna.
Il motivo merita accoglimento.
Secondo una giurisprudenza risalente di questa Corte, intervenuto il rigetto dell’appello, il titolo esecutivo è costituito solo dalla sentenza di primo grado, la cui inefficacia nella parte relativa al pagamento parziale eseguito nel corso del giudizio di secondo grado è deducibile, eventualmente, in sede di esecuzione (Cass. 4 giugno 1998, n. 5510; Cass. 23 novembre 1994, n. 9925): in questa prospettiva non sarebbe configurabile un obbligo, da parte del giudice di appello, di procedere alla riforma della pronuncia di primo grado nel caso in cui il gravame vada respinto e, in pendenza dell’appello , il soccombente abbia corrisposto una parte della somma pretesa e riconosciuta dovuta.
Una tale soluzione non si accorda, però, col principio, che si rinviene nella giurisprudenza più recente di questa Corte, secondo cui la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce totalmente a quella di primo grado (Cass. 10 gennaio 2017, n. 352; Cass. 10 ottobre 2003, n. 15185); in ragione di tale portata sostitutiva si è rilevato che l’esecuzione avviata dopo la pronuncia di appello deve intraprendersi sulla base di detta decisione quale titolo esecutivo da notificare prima o congiuntamente al precetto ai fini della validità di quest’ultimo, anche quando il dispositivo della sentenza di gravame contenga esclusivamente il rigetto dell’appello e l’integrale conferma della sentenza di primo grado (Cass. 13 novembre 2018, n. 29021) . E’ da credere, in conseguenza, che in un procedimento esecutivo che fosse intrapreso sulla base della decisione di appello non possa opporsi ex art. 615 c.p.c. il pagamento parziale intervenuto prima della detta pronuncia ed eccepito dalla parte interessata: e ciò per il principio, di carattere generale, secondo cui nel giudizio di opposizione all’esecuzione iniziata in base ad un titolo esecutivo giudiziale, non possono essere sollevate eccezioni anteriori alla formazione del titolo stesso, le quali si sarebbero dovute far valere unicamente nel procedimento conclusosi con il titolo posto in esecuzione (per tutte: Cass. 24 luglio 2012, n. 12911; Cass. 18 aprile 2006, n. 8928).
La parte condannata al pagamento di una somma ha quindi un sicuro interesse a che il giudice di appello dia atto del pagamento intervenuto in pendenza del giudizio di gravame, onde impedire che si formi, in proprio danno, un titolo esecutivo giudiziale, non opponibile ex art. 615 c.p.c., per un importo superiore rispetto a quello di cui egli è realmente ancora debitore.
Come si desume dalla sentenza impugnata, l’odierna istante aveva opposto in sede di appello il pagamento della somma di euro 40.000,00 e la Corte di appello ne aveva dato atto con la pronuncia ex art. 351 c.p.c. , di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di
primo grado.
Ciò posto, il motivo è fondato, in quanto sul punto del pagamento parziale la pronuncia impugnata reca un contrasto tra la motivazione, ove si dà atto di quel pagamento, riconosciuto da RAGIONE_SOCIALE (cfr. pag. 6 della sentenza) e il dispositivo, che recando conferma della sentenza di primo grado, salvo che per il tema del regresso, di fatto lo ignora.
4 . -La sentenza è dunque cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Roma, che giudicherà in