Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8903 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 8903 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/04/2025
R.G.N. 9856/2020
P.U. 13/03/2025
CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 9856/2020) proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale rilasciata in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e con elezione di domicilio digitale all’indirizzo pec: EMAIL;
–
ricorrente – contro
CRIVELLARI COGNOME;
– intimato – avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 3403/2019, pubblicata il 28 agosto 2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13 marzo 2025 dal Consigliere relatore NOME COGNOME
udito il P.G., in persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME il quale ha chiesto dichiararsi inammissibili o infondati i primi
tre motivi del ricorso, accogliere il quarto ed il sesto, con assorbimento dei restanti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La sig.ra NOME COGNOME citava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Padova, il sig. COGNOME deducendo che:
-aveva concluso con quest’ultimo, nell’ottobre 2003, un contratto preliminare di compravendita immobiliare, con pattuizione di stipula del contratto definitivo entro il 30 maggio 2004 e la dazione di una caparra confirmatoria per un importo di euro 4.225,00, con l’impegno ad acquistare al prezzo di euro 54.225,00 la proprietà di un locale terraneo ad uso negozio (della superficie di circa 78 mq), con annessa e contigua area destinata a ‘retronegozio (di circa 20 mq), da ricavarsi a seguito della suddivisione del restante locale mediante l’edificazione di una parete divisoria in natura;
-che il promittente venditore si era reso inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte a causa dello stato di degrado delle pareti e dei pavimenti di detto immobile, risultati complessivamente difformi da quanto in precedenza constatato, oltre che per la minore superficie del retronegozio residuata dopo la suddivisione, evidenziandosi che il COGNOME non si era nemmeno adoperato né per il ripristino dello stato di agibilità né per la cancellazione dei pesi gravanti sull’immobile.
L’attrice precisava, inoltre, che – ben dopo la scadenza del termine pattuito per la stipula del definitivo – il COGNOME aveva liberato l’immobile dalle formalità pregiudizievoli e che, pur senza dar seguito al ripristino dell’immobile, l’aveva più volte convocata dinanzi al notaio, ai cui inviti non aveva inteso aderire, sulla scorta dei menzionati inadempimenti del promittente venditore, il quale – permanendo la contrapposizione tra le parti – le comunicava, nel settembre 2005, la sua intenzione di risolvere il
contratto preliminare, con diritto alla ritenzione della somma ricevuta a titolo di caparra (rappresentando, altresì, che lo stesso COGNOME aveva poi venduto a terzi, nel gennaio 2006, il fabbricato nel quale insisteva il locale già costituente oggetto del preliminare stipulato tra le parti).
Sulla base di tale complessiva premessa in fatto, la COGNOME NOME chiedeva all’adito Tribunale di dichiarare la risoluzione del suddetto contratto preliminare per inadempimento del promittente venditore RAGIONE_SOCIALE Rudi, con condanna dello stesso al pagamento del doppio della caparra.
Si costituiva in giudizio il convenuto, il quale instava per il rigetto della domanda dell’attrice e proponeva, a sua volta, domanda riconvenzionale diretta all’ottenimento della risoluzione del preliminare per inadempimento della promissaria acquirente, con condanna della stessa anche al risarcimento del danno per la parte eccedente la caparra ricevuta, corrispondente alla differenza di prezzo tra quanto pattuito con la conclusione del preliminare risolto ed il minor corrispettivo conseguito dalla successiva vendita.
Il Tribunale di Padova, con sentenza n. 3240/2014, rigettava la domanda principale ed accoglieva integralmente quella riconvenzionale, ravvisando la non essenzialità del termine concordato per la stipula del contratto definitivo, che lo stato di degrado era preesistente alla conclusione del preliminare e che, perciò, fosse noto alla COGNOME, le cui doglianze attinenti alla superficie dell’immobile dedotto in causa non potevano avere alcuna rilevanza, trattandosi di vendita a corpo.
2. Decidendo sull’appello formulato dall’attrice soccombente COGNOME NOME, resistito dall’appellato COGNOME la Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 3403/2019, accoglieva solo in parte il gravame, ovvero limitatamente alla condanna di essa appellante al pagamento, in favore del COGNOME, della somma di euro 11.000,00 (riconosciuta dal
Tribunale a titolo di risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1385, ultimo comma, c.c.), ordinandone la restituzione in favore dell’appellante, confermando nel resto l’impugnata pronuncia e compensando le spese del grado nella misura di un quarto, con condanna dell’appellante al pagamento dei residui tre quarti.
La Corte veneta, con la richiamata sentenza, condivideva tutte le argomentazioni addotte a sostegno della pronuncia di primo grado, salvo che per il profilo relativo alla contestata erroneità di detta decisione, in uno al correlato vizio motivazionale, nella parte in cui il Tribunale aveva riconosciuto il maggior danno scaturito dall’inadempimento della promissaria acquirente per averlo commisurato -in modo ingiustificato -alla differenza tra il prezzo pattuito nel preliminare tra la COGNOME e il COGNOME e quello realizzato da quest’ultimo in virtù della vendita dello stesso immobile effettuata poi in favore di terzi.
Avverso la citata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a dodici motivi, l’appellante COGNOME GiovannaCOGNOME
L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Sia il P .G. che la ricorrente hanno anche depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato – ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la nullità della sentenza impugnata in relazione all’art. 132 n. 4 c.p.c., per motivazione apparente, perplessa ed obiettivamente incomprensibile, nonché viziata da illogicità manifesta, nella parte in cui ha negato la perentorietà del termine per la stipula del contratto definitivo.
In particolare, con tale doglianza, la COGNOME ha inteso confutare la motivazione della decisione della Corte di appello laddove aveva negato
la risoluzione del preliminare del 27 ottobre 2003 per inadempimento del COGNOME, escludendo la perentorietà del termine fissato la conclusione del contratto definitivo senza tuttavia spiegare, da un lato, per quale motivo la clausola che lo stabiliva configurasse una clausola di stile, anziché prevedere propriamente un termine essenziale e, dall’altro, per quale ragione l’avere il promittente venditore adempiuto le obbligazioni prodromiche alla stipula del definitivo a suo carico, prima della diffida ad adempiere inviata ad essa ricorrente, avrebbe impedito di qualificare il termine come essenziale anche per la promissaria acquirente.
Con la seconda censura la ricorrente ha dedotto -con riguardo all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218 e 1453 c.c., con riferimento alla mancata rilevazione della messa in mora (avvenuta con racc. a.r. del 24 maggio 2004) del promittentevenditore da parte della stessa, quale promissaria acquirente.
Con la terza doglianza la ricorrente ha lamentato -in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -l’omesso esame di elementi istruttori, il mancato esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tre le parti, con riguardo alla ritenuta insussistenza della natura essenziale del termine nonostante il suo espresso riconoscimento da parte del promittente-venditore (con racc. a.r. del 19/5/2004).
Con il quarto mezzo la ricorrente ha prospettato -ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. -la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1453, 1460 e 2697 c.c., sostenendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto la sua domanda di risoluzione, escludendo l’inadempimento del promittente -venditore per i vizi manifestatisi sui muri dell’immobile oggetto del preliminare dopo la sua sottoscrizione in quanto non provati da essa ricorrente (quale promissaria-acquirente), mentre si sarebbe dovuto ritenere che
incombeva al COGNOME (quale promittentevenditore) l’onere di provarne l’inesistenza.
Con il quinto mezzo la ricorrente ha dedotto -in ordine all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -il mancato esame di elementi istruttori, nonché l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di appello tenuto conto di risultanze probatorie che, ove considerate, avrebbero imposto di concludere, da un lato, per la comparsa dei vizi denunciati da essa ricorrente sui muri del negozio oggetto del preliminare dopo la sua sottoscrizione in data 27 ottobre 2003 e prima della scadenza del termine del 30 maggio 2004 fissato per la stipula del rogito notarile e, dall’altro, che nell’ottobre 2003, quando il preliminare venne sottoscritto, il negozio al piano terra oggetto del preliminare era sano ed asciutto, mentre -a tutto voler concedere -in condizioni non ottimali era soltanto l’appartamento al primo piano, mai visionato da essa promissaria acquirente, conosciute solo dal COGNOME.
Con il sesto motivo la ricorrente ha denunciato -avuto riguardo all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. -la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., poiché la presunzione posta dalla Corte veneta a fondamento del suo convincimento che l’immobile promesso in vendita dal Crivellari in suo favore fosse rimasto pressoché identico tra l’avvenuta sottoscrizione del preliminare e la data fissata per la stipula del contratto definitivo, come pure nei mesi successivi, si fondava su fatti privi dei caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dal citato art. 2729 c.c.
Con la settima censura la ricorrente ha lamentato -con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di appello mancato di considerare fatti che, ove presi in esame, l’avrebbero potuta e
dovuta condurre alla conclusione che tra la data di sottoscrizione del preliminare e quella stabilita per la stipula del contratto definitivo, a causa dell’incuria del COGNOME nella gestione del suo immobile, dopo l’evento delle copiose nevicate cadute nel mese di gennaio e febbraio 2004, un’enorme quantità di acqua era penetrata dal solaio del negozio al piano terra attraverso l’appartamento sovrastante, con conseguente comparsa sui muri dell’immobile promesso in vendita ad essa ricorrente di vizi tali da renderlo inidoneo all’uso, da cui si sarebbe dovuto desumere l’inadempimento del promittente -venditore rispetto alle obbligazioni dallo stesso assunte.
Con l’ottava doglianza la ricorrente ha prospettato in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la nullità della sentenza impugnata per irriducibile contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione per avere la sentenza impugnata escluso, da un lato, qualsiasi mutamento dello stato di fatto dell’immobile oggetto del preliminare tra la data della sua sottoscrizione (27 ottobre 2003) e quella fissata per la stipula del contratto definitivo (30 maggio 2004), come pure nei mesi successivi, mentre, dall’altro, ha finito per affermare esattamente il contrario e cioè che, a causa dell’incuria del promittente -venditore, tra il mese di ottobre 2003 e l’inizio del 2006, quando ebbe ad alienare il compendio immobiliare di sua proprietà ad altri acquirenti in stato dichiarato fatiscente, il suo valore si era notevolmente ridotto, essendo il COGNOME riuscito ad ottenere per l’intero edificio l’asserito prezzo di euro 39.000,00 a fronte di quello di euro 54.425,00, pattuito con il preliminare per il solo negozio al piano terra compromesso in vendita.
Con il nono motivo la ricorrente ha denunciato -con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. -la nullità della sentenza impugnata in relazione all’art. 132, n. 4, c.p.c., per avere la Corte di appello escluso
l’inadempimento del COGNOME nonostante i vizi comparsi sui muri del negozio oggetto del preliminare dopo la sua conclusione senza indicare in nessun modo le dichiarazioni testimoniali raccolte al riguardo, ritenute del tutto vaghe.
Con il decimo mezzo la ricorrente ha dedotto -in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. -la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1538 c.c., per avere il giudice di appello negato l’inadempimento del Crivellari nonostante la difformità di consistenza del locale c.d. ‘retronegozio’ in misura superiore ad un ventesimo rispetto a quanto previsto nel preliminare.
Con l’undicesimo motivo la ricorrente la lamentato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. -la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1385 e 1453 c.c., per essere stata revocata la condanna a suo carico (disposta con la sentenza di primo grado) e in favore del COGNOME della sola somma di euro 11.000,00, mentre il promittente-venditore avrebbe dovuto essere condannato a restituire ad essa COGNOME anche la caparra confirmatoria di euro 4.225,00 per il complessivo importo di euro 15.225,00.
Con il dodicesimo ed ultimo motivo la ricorrente ha dedotto -con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 336 c.p.c., avuto riguardo all’omessa statuizione sulle spese di lite di primo grado, per avere la Corte di appello erroneamente condannato essa COGNOME a rifondere integralmente al Crivellari le spese giudiziali, nonostante la sua riforma, in accoglimento dell’appello, nella parte in cui era stato revocato, in favore di essa ricorrente, il pagamento dell’importo di euro 11.000,00 a titolo di risarcimento del danno asseritamente subito dal promittente-venditore.
13. I primi tre motivi – esaminabili congiuntamente, in quanto connessi sono manifestamente infondati, poiché la motivazione della sentenza impugnata risponde ai requisiti stabiliti dall’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e poi, perché, essi si appuntano sulla confutazione dell’interpretazione – operata dalla Corte di appello in base ad un apprezzamento di merito adeguatamente svolto (cfr., per tutte, Cass. n. 10353/2020) – circa la non ritenuta natura essenziale del termine apposto al contratto preliminare, essendo la relativa previsione riconducibile, in effetti, ad una clausola di stile e ciò anche in base al comportamento adottato dalla promissaria acquirente (ovvero dell’odierna ricorrente) che non aveva mai sollecitato la controparte mettendola in mora al fine di rispettare detto termine, fermo restando che, allorquando il promittente venditore COGNOME ebbe ad inoltrare la diffida ad adempiere, le formalità pregiudizievoli erano state cancellate ed il manufatto esterno era stato rimosso.
Peraltro, con riferimento specifico al terzo motivo, opera la preclusione ‘da doppia conforme’ ai sensi del previgente art. 348 -ter, ultimo comma, c.p.c. (‘ratione temporis’ applicabile), non essendo stata indicata dalla ricorrente una diversità del percorso motivazionale sul punto da parte dei due giudici di merito.
14. Ad avviso del collegio è fondato, invece, il quarto motivo.
Va, invero, osservato che in effetti, a fronte dell’allegazione difensiva posta dalla COGNOME a sostegno della sua domanda di risoluzione del preliminare per inadempimento del COGNOME (quale promittente venditore), come anche a giustificazione del suo rifiuto di procedere alla conclusione del contratto definitivo ai sensi dell’art. 1460 c.c. -riguardante la manifestazione su muri oggetto del preliminare, dopo la sua sottoscrizione in data 27 ottobre 2003 e anteriormente alla scadenza
del termine prefissato per il 30 maggio 2004 per la stipula del definitivo, di vizi (riconducibili alla presenza di muffe e crepe e alla comparsa di fenomeni di umidità sulle pareti), tali da renderlo inidoneo e/o inagibile, avrebbe dovuto essere accollato al COGNOME l’onere della prova circa l’insussistenza di tali vizi, che – se non assolto – avrebbe potuto giustificare l’eventuale fondatezza della domanda di risoluzione della stessa COGNOME.
Pertanto, la circostanza – ravvisata dalla Corte di appello con riguardo alla non sufficiente concludenza delle prove offerte dalla promissaria acquirente tale da superare ‘la presunzione’ posta dal Tribunale a fondamento della sua decisione (circa l’accettabilità delle condizioni dell’immobile al momento della conclusione del preliminare e lo stato ‘grandemente degradato’ dello stesso all’atto della scadenza del termine per la stipula del definitivo) ha comportato un’inversione dell’onere della prova, così concretandosi la denunciata violazione degli artt. 1218, 1453, 1460 e – soprattutto – 2697 c.c. (cfr. Cass. n. 13395/2018 e Cass. n. 17313/2020).
Infatti, la Corte territoriale non ha tenuto conto del consolidato principio giurisprudenziale (a cominciare da Cass. SU n. 13533/2011, seguita da numerose altre, tra cui Cass. n. 20073/2004, Cass. n. 1743/2007, Cass. n. 15659/2011, Cass. n. 7530/2012, Cass. n. 6844/2017, Cass. n. 98/2019 e Cass. n. 3587/2021), al quale perciò dovrà uniformarsi il giudice di rinvio, secondo cui in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è
gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento delle sue obbligazioni.
Pertanto, avuto riguardo alla concreta fattispecie che viene qui in rilievo, a fronte dell’allegazione difensiva operata dalla COGNOME in ordine alla comparsa sui muri dell’immobile oggetto del preliminare -dopo la sua sottoscrizione in data 27 ottobre 2003 e prima della scadenza del termine del 30 maggio 2005 fissato per la stipula del contratto definitivo -di vizi tali da renderlo inagibile e comunque non fruibile secondo l’accordo delle parti, non era onere della stessa COGNOME provarne l’effettiva esistenza, ma incombeva al COGNOME (quale promittente venditore che aveva agito, in riconvenzionale, per la risoluzione del contratto preliminare) dimostrare il contrario, ovvero di avere esattamente adempiuto la sua obbligazione di trasferire alla promissaria acquirente l’immobile esente da vizi tale da renderlo idoneo all’uso.
In definitiva, deve essere dichiarata la fondatezza del quarto motivo, con derivante assorbimento di tutti i restanti e la conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione alla censura accolta, con rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, che, oltre ad uniformarsi all’enunciato principio di diritto, provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso, rigetta i primi tre e dichiara assorbiti i restanti.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione.
Così deciso nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della