Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10916 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 10916 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/04/2025
SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 15272/2020) proposto da:
COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio digitale eletto presso l’indirizzo PEC del difensore;
-controricorrente –
R.G.N. 15272/20 U.P. 8/4/2025
Vendita -Azioni -Pagamento prezzo
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 3726/2019, pubblicata il 19 settembre 2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8 aprile 2025 dal Consigliere relatore NOME COGNOME
viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M. ex art. 378, primo comma, c.p.c., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica;
lette le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.;
sentiti , in sede di discussione orale all’udienza pubblica, l’Avv. NOME COGNOME per la ricorrente e l’Avv. NOME COGNOMEper delega dell’Avv. NOME COGNOME per il controricorrente.
FATTI DI CAUSA
1. -Con atto di citazione notificato il 26 luglio 2007, COGNOME NOME conveniva, davanti al Tribunale di Padova, COGNOME NOME, al fine di sentire pronunciare la condanna della convenuta acquirente al pagamento del corrispettivo stabilito nella misura di euro 271.139,87 per la vendita in data 8 febbraio 1995, a cura del padre COGNOME NOME NOMECOGNOME quale rappresentante dell’attore in virtù di procura generale a questi rilasciata, di 35.000 azioni dell’allora Banca Popolare Veneta.
Si costituiva in giudizio COGNOME NOME, la quale contestava la fondatezza, in fatto e diritto, della domanda avversaria, chiedendo la sospensione della causa ex art. 295
c.p.c., in attesa della definizione di altro giudizio pendente davanti al Tribunale di Treviso, con cui COGNOME NOME aveva proposto azione di rendimento del conto nei confronti del padre, anche con riguardo al corrispettivo ricevuto per la cessione delle azioni alla sorella.
All’uopo, esponeva che, in realtà, le azioni erano state acquistate dal padre, in pari misura in favore di entrambi i figli, con il proprio peculio e solo formalmente erano state intestate ai due figli, per cui vi era carenza di legittimazione attiva del fratello a pretendere il pagamento del corrispettivo, quale proprietario delle azioni, eccependo, in ogni caso, la prescrizione del diritto fatto valere.
Nel corso del giudizio era espletata consulenza tecnica d’ufficio.
Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 2736/2014, depositata il 10 settembre 2014, accoglieva la spiegata domanda e, per l’effetto, condannava COGNOME NOME al pagamento, in favore di COGNOME NOME, della somma di euro 271.139,87, oltre interessi, per il titolo dedotto in causa.
2. -Con atto di citazione notificato il 9 marzo 2015, COGNOME NOME proponeva appello avverso la pronuncia di primo grado, lamentando: 1) l’erroneo rigetto dell’istanza di sospensione del giudizio, stante il rapporto di pregiudizialità tra le due cause, aventi entrambe ad oggetto la totalità delle azioni vendute all’appellante; 2) l’erroneo rigetto dell’eccezione di prescrizione, in mancanza di alcuna prova dell’avvenuta ricezione della missiva asseritamente interruttiva del decorso del termine prescrizionale, missiva in ogni caso predisposta da un soggetto
diverso dal titolare del diritto, in considerazione altresì del fatto che la notifica con effetti retroattivi avrebbe comunque fatto salvi i diritti acquistati dai terzi; 3) la mancata considerazione del legittimo affidamento insorto circa l’abbandono del diritto, con la conseguenza che la pretesa di ottenere l’adempimento in limine della maturazione della prescrizione avrebbe costituito un comportamento contrario a buona fede; 4) l’errata applicazione delle norme sulla distribuzione dell’onere probatorio e sulle presunzioni, poiché sarebbe stato l’originario attore a dover provare il proprio titolo e non già la convenuta il carattere fittizio delle intestazioni mobiliari effettuate dal padre, come peraltro desumibile dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio; 5) l’erronea dichiarazione della decadenza dai mezzi istruttori, alla stregua del ritenuto tacito abbandono, conseguente alla richiesta congiunta di fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni.
Resisteva all’impugnazione COGNOME NOMECOGNOME il quale concludeva per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.
Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Venezia, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava l’appello e, per l’effetto, confermava integralmente la pronuncia impugnata.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a ) che la questione relativa alla titolarità dei ‘fissati bollati’ oggetto della compravendita, posta a fondamento del diritto di credito fatto valere in giudizio, era stata oggetto di cognizione anche nel giudizio di rendiconto, benché nel presente giudizio COGNOME
NOME ne avesse chiesto l’accertamento, solo in via incidentale, al fine di far dichiarare l’invalidità e l’inefficacia del contratto di compravendita nei soli confronti di COGNOME NOME; b ) che, precisamente, nel giudizio di rendiconto intrapreso dal COGNOME nei confronti del padre, quest’ultimo aveva chiesto l’accertamento dell’intestazione fittizia dei ‘fissati bollati’ al figlio e, quindi, della proprietà delle azioni, avendo provveduto al loro acquisto con il proprio peculio; c ) che non vi era, dunque, alcun rapporto di pregiudizialità tra le due azioni, che innanzitutto pendevano tra parti diverse, sicché la parte rimasta estranea avrebbe sempre potuto eccepire l’inopponibilità nei propri confronti della relativa decisione; d ) che la circostanza che nel giudizio di rendiconto la parte convenuta fosse deceduta e a questi fosse succeduta la figlia non assumeva rilevanza, in quanto la stessa era comunque subentrata quale erede; e ) che, quanto all’eccezione di prescrizione, risultava depositata in atti la lettera raccomandata a/r ricevuta dall’appellante il 17 gennaio 2005, con cui il legale di COGNOME NOME aveva espressamente dichiarato l’intenzione del proprio cliente di far valere il proprio diritto di credito per la vendita delle azioni, sicché detta missiva aveva valore di interruzione della prescrizione; f ) che era inconferente la circostanza che nella lettera fosse anche contenuta un’intimazione di pagamento, con la concessione di un termine di sei mesi per l’adempimento, con scadenza s uccessiva al termine di prescrizione, trattandosi di un’ulteriore manifestazione di volontà del rappresentante del COGNOME, del tutto distinta e funzionalmente diversa dalla precedente, volta ad interrompere la prescrizione; g ) che, inoltre, l’atto interruttivo proveniva dal legale
del COGNOME, soggetto legato da un rapporto di mandato difensivo con il proprio cliente, senza che fosse necessaria la procura scritta prevista solo per lo svolgimento di attività giudiziale; h ) che l’appellato aveva pur sempre legittimamente esercitato il proprio diritto di credito, seppure in epoca prossima alla prescrizione, senza compiere alcun atto da cui potesse evincersi la sua volontà di dismettere il proprio diritto, non potendo considerarsi tale il semplice passaggio del tempo, di per sé di valenza neutra; i ) che, anche quanto all’asserita violazione del principio sulla distribuzione dell’onere della prova, parte appellata aveva offerto piena prova del titolo posto a fondamento della propria pretesa creditoria, attraverso la produzione del contratto di cessione delle azioni, perfettamente valido ed efficace, cui conseguiva l’obbligo di parte appellante di corrispondere il relativo prezzo, mentre quest’ultima, contestando la titolarità delle azioni in capo al fratello, in ragione dell’asserita intestazione fittizia operata dal padre in favore di entrambi i figli, per effetto dell’acquisto attingendo ai propri fondi personali, e chiedendo quindi la declaratoria di invalidità e inefficacia del contratto, avrebbe dovuto fornire la prova del fatto dedotto, avente efficacia estintiva del diritto di credito sorto con la stipula del contratto, prova che non poteva essere desunta dalla vicenda dei titoli così come ricostruita dal consulente tecnico d’ufficio, il quale aveva concluso affermando che non era stato in grado di rilevare quale fosse stata la provenienza del peculio utilizzato per l’acquisto dei titoli; l ) che, a prescindere dalla fondatezza del motivo di gravame relativo alla declaratoria di decadenza della prova per testimoni dedotta, i capitoli articolati in sede di
precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado non erano ammissibili, per essere le circostanze capitolate inconferenti rispetto all’acquisto in questione, generiche oppure attinenti a diversi rapporti tra l’appellante e il padre.
-Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattordici motivi, COGNOME NOME
Ha resistito, con controricorso, l’intimato COGNOME NOME.
Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe.
All’esito, le parti hanno depositato memorie illustrative, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 34 e 295 c.p.c. nonché dell’art. 2909 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che tra il presente giudizio, instaurato davanti al Tribunale di Padova da COGNOME NOME contro la sorella COGNOME NOME, e quello a suo tempo promosso davanti al Tribunale di Treviso dallo stesso COGNOME NOME contro il padre non sussistesse alcun rapporto di pregiudizialità, tale da condurre alla necessaria sospensione del procedimento pregiudicato.
Osserva l’istante che il giudizio pregiudiziale aveva ad oggetto il rendimento del conto della gestione espletata dal padre delle parti sulla scorta della stessa procura generale utilizzata per la vendita delle azioni documentata nel ‘fissato bollato’ del 1995,
sicché in tale azione di rendiconto nella causa trevigiana sorgeva da subito il problema di verificare se l’intestazione delle azioni oggetto del ‘fissato bollato’ fosse effettiva o meno, come richiesto dallo stesso convenuto e come poi accertato dal Tribunale nella propria pronuncia.
Deduce, per l’effetto, la ricorrente che il rapporto di pregiudizialità-dipendenza idoneo ad imporre la sospensione del giudizio non avrebbe postulato due accertamenti identici, domandati entrambi con efficacia di giudicato (altrimenti vi sarebbe stata una situazione di litispendenza), mentre, sul piano soggettivo, non avrebbe avuto alcun rilievo il fatto che originariamente la causa di rendiconto fosse stata azionata contro il padre, nel momento in cui a chiedere l’applicazione del giudicato era stata la parte che avrebbe potuto al contrario eccepire l’inopponibilità, che peraltro era subentrata al padre, all’esito del suo decesso, nel procedimento pregiudicante.
Ne discende, secondo l’istante, che -a fronte dell’accertamento nel giudizio di rendiconto, su impulso del convenuto, della mera apparenza e comunque dell’invalidità dell’intestazione (meramente fiduciaria) dei titoli azionari in capo a COGNOME NOME, in quanto acquistati dal padre con proprio peculio -tale accertamento avrebbe fatto stato anche nel giudizio di condanna al pagamento del prezzo, sulla scorta di una vendita ( recte del negozio documentato con il ‘fissato bollato’ dell’8 febbraio 1995) di 35.000 azioni effettuata dal rappresentante del venditore, sempre in forza della predetta intestazione fittizia, tanto più che -essendo COGNOME NOME subentrata al padre deceduto, quale erede, nelle more del giudizio pregiudicante –
nessun dubbio poteva esservi sul fatto che le due cause pendessero tra le stesse parti.
1.1. -Il motivo è infondato.
Si premette che entrambe le parti danno atto che l’esito ( recte il rigetto) del giudizio di rendiconto promosso verso il rappresentante (mandatario per la gestione dei titoli) è nelle more divenuto giudicato, in ragione della pronuncia dell’ordinanza di questa Corte n. 36389/2023, depositata il 29 dicembre 2023 (prodotta ai sensi dell’art. 372 c.p.c. dalla ricorrente ed evocata anche dal controricorrente), che ha respinto il ricorso di legittimità avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 3060/2019, depositata il 22 luglio 2019, che -a sua volta -aveva confermato la pronuncia del Tribunale di Treviso n. 2934/2014, depositata il 19 dicembre 2014.
Tale rigetto è stato supportato dall’accertamento del fatto estintivo, rappresentato dalla verifica dell’intestazione meramente fittizia dei titoli azionari in favore di COGNOME NOME, compresi quelli oggetto della vendita dell’8 febbraio 1995, alla stregua della gestione dei titoli a cura del padre rappresentante COGNOME NOME NOME, che li aveva acquistati con il proprio denaro e intestati in via fiduciaria ai figli, provvedendo altresì al perfezionamento dell’atto di vendita in discussione quale rappresentante dell’intestatario COGNOME NOME.
Ora, i presupposti della pregiudizialità-dipendenza in senso tecnico sono stati esclusi dalla Corte d’appello sulla scorta del rilievo che nel giudizio in tesi dipendente la richiesta di accertamento della natura fittizia dell’intestazione dei titoli in favore dell’apparente venditore fosse stata spiegata in via
meramente incidentale, oltre che della non coincidenza soggettiva delle parti dei due giudizi, anche in conseguenza del decesso -nel primo giudizio -del convenuto COGNOME NOME, cui era subentrata, quale erede, COGNOME NOME (sulla scorta della discriminazione della posizione di quest’ultima quale erede nel giudizio in tesi pregiudiziale e quale parte in proprio nel giudizio dipendente).
È stato altresì rilevato che nel giudizio azionato davanti al Tribunale di Treviso nessuna domanda riconvenzionale di accertamento dell’intestazione apparente dei titoli è stata avanzata, avendo assunto tale fatto la valenza di mera eccezione.
Ne consegue che il fatto estintivo che ha giustificato il rigetto dell’azione di rendiconto (ossia l’intestazione fittizia dei titoli) non ha una potenziale incidenza sulla spettanza del diritto del venditore (che ha perfezionato l’atto traslativo delle azioni a mezzo del proprio rappresentante) a pretendere il corrispettivo dell’atto traslativo.
E ciò perché l’accertamento incidentale nel primo giudizio -sull’intestazione fittizia non ha forza di giudicato, in difetto di un’espressa domanda sul punto ex art. 34 c.p.c.
Le questioni pregiudiziali in senso tecnico concernono, dunque, circostanze distinte ed indipendenti dal fatto costitutivo, del quale, tuttavia, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dar luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite, solo in presenza di espressa domanda di parte di soluzione della questione stessa (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14578 del
12/07/2005; Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 06/03/2001; Sez. 3, Sentenza n. 462 del 19/01/1999; Sez. L, Sentenza n. 4229 del 13/04/1995; Sez. L, Sentenza n. 2645 del 07/03/1995).
Domanda che nella fattispecie è mancata.
E questo pur essendovi l’identità soggettiva delle parti dei due giudizi all’esito del decesso nel primo giudizio -di COGNOME NOMECOGNOME
2. -Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 34, 39, 112 e 295 c.p.c. nonché dell’art. 2909 c.c., per avere la Corte territoriale escluso anche la continenza di cause, benché il thema decidendum della causa trevigiana si presentasse più ampio e tale da ricomprendere in sé quello della causa patavina: nel primo procedimento, infatti, si sarebbe dibattuto della proprietà sostanziale o meno in capo a COGNOME NOME di diversi titoli azionari, tra cui anche quelli ceduti alla sorella con il contratto di vendita in discussione.
2.1. -Il mezzo di critica è infondato.
Ebbene, ai sensi dell’art. 39, secondo comma, c.p.c., la continenza di cause ricorre non solo quando due cause siano caratterizzate da identità di soggetti (identità non esclusa, peraltro, dalla circostanza che in uno dei due giudizi sia presente anche un soggetto diverso) e di titolo e da una differenza quantitativa dell’oggetto (continenza in senso stretto), ma anche quando fra le cause sussista un rapporto di interdipendenza, come nel caso in cui sono prospettate, con riferimento ad un unico rapporto negoziale, domande contrapposte o in relazione di alternatività e caratterizzate da una coincidenza soltanto parziale
delle causae petendi , nonché quando le questioni dedotte con la domanda anteriormente proposta costituiscano il necessario presupposto (alla stregua della sussistenza di un nesso di pregiudizialità logico-giuridica) per la definizione del giudizio successivo (continenza per specularità), come nell’ipotesi in cui le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti derivanti dallo stesso rapporto e il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 11888 del 05/05/2023; Sez. 6-3, Ordinanza n. 19460 del 03/08/2017; Sez. 6-2, Ordinanza n. 13161 del 25/07/2012; Sez. U, Ordinanza n. 20599 del 01/10/2007; Sez. 2, Sentenza n. 5243 del 30/07/1983).
Tali presupposti non sussistevano nella fattispecie, secondo quanto prospettato dalla sentenza impugnata, avendo il primo giudizio ad oggetto una domanda di rendiconto della gestione dei titoli e il secondo una domanda di condanna al pagamento del corrispettivo conseguente alla vendita di alcuni di essi.
Non sussisteva, dunque, né l’identità delle causae petendi e degli oggetti delle pretese, né la definizione di questioni comuni involte dai petita immediati e mediati delle domande avanzate.
3. -Con il terzo motivo la ricorrente sostiene, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 337, secondo comma, c.p.c. nonché dell’art. 2909 c.c., per avere la Corte d’appello omesso di conformarsi alla sentenza del Tribunale di Treviso n. 2934/2014, benché fosse stata invocata l’autorità di tale pronuncia, né sospeso il giudizio, in attesa che tale pronuncia passasse in giudicato.
Pronuncia, come confermata in appello, che avrebbe escluso la proprietà sostanziale delle azioni in capo a COGNOME NOME.
3.1. -Il motivo è infondato.
Sul punto si osserva che, salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica, che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non è doverosa, bensì facoltativa ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., come si desume dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8885 del 29/03/2023; Sez. L, Ordinanza n. 80 del 04/01/2019; Sez. 6-1, Ordinanza n. 26251 del 03/11/2017).
Nella fattispecie, per quanto anzidetto, fra i due giudizi non sussisteva alcun rapporto di pregiudizialità.
4. -Il quarto motivo investe, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 2943 c.c., per avere la Corte distrettuale reputato che la missiva inviata dal legale di COGNOME NOME il 13 gennaio 2005 valesse come atto interruttivo della prescrizione, nonostante essa non fosse qualificabile come tale, non provenisse da soggetto legittimato e risultasse inefficace in ragione della maturata Verwirkung .
Segnatamente, attraverso tale missiva, il legale del COGNOME in suo nome e conto, lamentava il mancato accredito
a proprio favore dell’importo di vecchie lire 525.000.000, pari ad euro 271.139,87, di cui al corrispettivo pattuito nel contratto di borsa dell’8 febbraio 1995 del quale era stato già chiesto il rendimento dei conti al suo ex procuratore generale nonché genitore di entrambe le parti -, intimando il pagamento dell’importo dedotto, maggiorato di interessi, e stabilendo il termine di adempimento di sei mesi dalla data di ricevimento della missiva, fermi restando gli effetti interruttivi della prescrizione con la costituzione immediata in mora.
Obietta, per l’effetto, l’istante che la missiva citata non avrebbe avuto effetti interruttivi, in quanto non avrebbe contenuto alcuna intimazione di pagamento, giacché la volontà diretta a costituire in mora il destinatario sarebbe stata accompagnata e svuotata dalla concessione di un termine di sei mesi per l’adempimento, decorsi i quali il credito sarebbe stato da considerarsi ormai estinto per prescrizione.
La volontà di costituzione in mora sarebbe stata, dunque, giuridicamente incompatibile con la concessione di un termine per l’adempimento.
4.1. -Il motivo è infondato.
Al riguardo, l’atto di interruzione della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943, quarto comma, c.c., non deve necessariamente consistere in una richiesta o intimazione, essendo sufficiente una dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti l’intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 24913 del 18/08/2022; Sez. L, Sentenza n. 1166 del 18/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 15766 del 12/07/2006).
Nel caso in disputa la sentenza impugnata ha chiarito che nella missiva si chiedeva l’immediato pagamento della somma dovuta a titolo di corrispettivo e che il termine di adempimento rilevava ad altri effetti (quale termine di tolleranza prima di intraprendere le azioni ritenute idonee per recuperare il dovuto).
Sicché, a fronte dell’immediata costituzione in mora, la previsione di un termine rappresentava una mera concessione rilasciata all’acquirente, atta a consentire di procurarsi la provvista, prima che fossero intraprese le vie legali.
5. -Con il quinto motivo la ricorrente contesta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1392 e 1399 c.c., per avere la Corte del gravame disatteso l’eccezione di prescrizione, nonostante la comunicazione con cui si intimava il pagamento non provenisse dal creditore, né da un soggetto munito di poteri di rappresentanza, ma semplicemente dal suo legale.
E ciò senza che, a fronte della forma scritta richiesta per la costituzione in mora, la procura rivestisse la stessa forma per relationem .
E quand’anche si fosse ritenuto che per la procura ai fini della costituzione in mora bastasse la forma libera, nella fattispecie tale conferimento non sarebbe stato provato.
5.1. -Il motivo è infondato.
Orbene, ai fini dell’interruzione della prescrizione, l’intimazione scritta ad adempiere quale atto in senso stretto -può essere validamente effettuata non solo da un legale che si dichiari incaricato dalla parte, ma anche da un mandatario o da un incaricato, alla sola condizione che il beneficiario ne intenda
approfittare, e senza che occorra il rilascio in forma scritta di una procura per la costituzione in mora, potendo questa risultare anche solo da un comportamento univoco e concludente idoneo a rappresentare che l’atto è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti (Cass. Sez. L, Sentenza n. 2965 del 03/02/2017; Sez. 2, Sentenza n. 20345 del 09/10/2015; Sez. L, Sentenza n. 7097 del 09/05/2012; Sez. L, Sentenza n. 3873 del 22/02/2006).
La prova presuntiva del conferimento della procura è stata desunta dal fatto che lo stesso legale ha poi patrocinato la causa intrapresa dall’intimante (e non già come ratifica dell’operato del rappresentante senza potere).
6. -Con il sesto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., per avere la Corte d’appello escluso che il diritto di COGNOME NOME quand’anche fosse stato ritenuto inizialmente esistente, si fosse estinto, in base all’istituto di discendenza tedesca della Verwirkung , ben prima del 13 gennaio 2005, in ragione del comportamento dell’appellato, che avrebbe fatto insorgere una legittima aspettativa di rinuncia al diritto di credito verso l’appellante.
Divisa l’istante che il COGNOME non sarebbe rimasto semplicemente inerte nell’esercizio del diritto, ma avrebbe giustificato un affidamento della sorella nella rinuncia, alla stregua della sua intestazione solo formale delle azioni, dell’attivazione del giudizio di rendiconto nei soli confronti del padre, della restituzione, a cura della COGNOME, già nel 2003, in favore del padre, del valore delle azioni intestate.
D’altronde l’esercizio del diritto fin quasi alle soglie della prescrizione avrebbe implicato la violazione del divieto di venire contra factum proprium , con la conseguenza che la contrarietà di detta condotta a buona fede avrebbe escluso la spettanza del diritto.
6.1. -La censura è infondata.
Ed invero l’inerzia del creditore nell’escutere il debitore anche se per un fatto a lui imputabile e per un tempo tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato -non è sufficiente ad integrare un contegno concludente da cui desumere univocamente la tacita volontà di rinunciare al diritto, né rappresenta un caso di abuso del diritto, perché il semplice ritardo di una parte nell’esercizio delle proprie prerogative può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo ad alcun interesse del suo titolare, si traduce in un danno per la controparte (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7201 del 18/03/2025; Sez. 3, Ordinanza n. 11219 del 26/04/2024; Sez. L, Ordinanza n. 1888 del 28/01/2020; Sez. 1, Sentenza n. 23382 del 15/10/2013).
Nella fattispecie la sentenza impugnata ha rilevato che COGNOME NOME aveva legittimamente esercitato il proprio diritto di credito, seppure in epoca prossima alla prescrizione, senza compiere alcun atto da cui potesse evincersi la sua volontà di dismettere il diritto, non potendo considerarsi tale il semplice passaggio del tempo, di per sé di valenza neutra.
I contegni indicati dalla ricorrente, in parte, non sono ascrivibili al titolare del diritto e, in parte, non sono significativi di una volontà dismissiva.
Così l’intestazione formale delle azioni è stata sempre contestata dal COGNOME, mentre l’attivazione del giudizio di rendiconto verso il solo padre era giustificata dal fatto che quest’ultimo era il rappresentante cui era stata rimessa la gestione dei titoli. In ultimo, la restituzione del valore delle azioni intestate al padre costituisce un comportamento imputabile alla sola COGNOME NOME, nient’affatto lesivo della sfera giuridico -patrimoniale del fratello, che non avrebbe avuto alcun interesse ad opporsi.
Ne deriva che non vi era alcun contegno significativo, anche in termini omissivi, posto in essere da COGNOME NOME che lasciasse presagire la sua volontà abdicativa a rivendicare il corrispettivo della cessione onerosa dei titoli azionari in favore della sorella COGNOME NOME facendo insorgere in quest’ultima l’affidamento sulla rinuncia alla pretesa creditoria.
La mera delibazione in ordine all’attivazione del diritto creditorio poco prima che maturasse la prescrizione, senza che prima vi fossero stati ‘segni’ tangibili dell’intenzione dismissiva, non ha, dunque, determinato alcuna perdita del credito, atteso che era nelle facoltà del creditore stabilire il momento in cui azionare la richiesta di pagamento, entro il termine di prescrizione, senza che tale decisione abbia arrecato alcun nocumento specifico alla controparte.
7. -Il settimo motivo concerne, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per la
soluzione della controversia, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte di merito tralasciato di considerare la mancanza di titolarità effettiva delle azioni in capo a COGNOME NOME, il mancato coinvolgimento della sorella nella lite con il padre, sfociata nel 2003 nella causa davanti al Tribunale di Treviso, la mancata reazione all’intestazione del valore delle azioni, da parte della sorella, in favore del padre, quali contegni significativi della rinuncia al diritto.
7.1. -Il motivo è infondato.
Per quanto anzidetto, scrutinando il precedente motivo, tali fatti non sono decisivi, sicché nessuna omissione rilevante si è perfezionata.
8. -L’ottavo motivo riguarda, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., per avere la Corte territoriale, con motivazione omessa o difettosa o contraddittoria, ritenuto che COGNOME NOME avesse offerto piena prova del titolo posto a fondamento della propria pretesa creditoria e che fosse COGNOME NOME, avendo contestato la titolarità delle quote in capo al fratello, assumendo che si fosse trattato di intestazione fittizia operata dal padre in favore di entrambi i figli, in ragione dell’acquisto di tali quote con denaro del padre, a dover fornire la prova del fatto dedotto, avente efficacia estintiva del diritto di credito sorto con la stipula del contratto.
9. -Con il nono motivo la ricorrente rileva, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte distrettuale addebitato l’onere della prova dell’intestazione fittizia delle azioni a
COGNOME NOME, benché non si trattasse di fatto estintivo o impeditivo, essendo piuttosto l’intestazione effettiva delle azioni un fatto costitutivo della pretesa vantata da COGNOME NOME ai fini di giustificare la spettanza del suo credito.
9.1. -I due motivi -che possono essere affrontati congiuntamente, in quanto connessi -sono infondati.
Infatti, COGNOME NOME ha fondato la sua pretesa di pagamento del prezzo sul contratto di vendita delle azioni intercorso tra i germani, di cui all’atto dell’8 febbraio 1995 (‘fissato bollato’), per il prezzo di vecchie lire 525.000.000.
A fronte dell’allegazione di detto titolo, ai fini di giustificare l’esperimento dell’azione creditoria, sarebbe stato onere dell’acquirente COGNOME NOME dimostrare il fatto impeditivo dell’intestazione fittizia delle azioni in capo all’alienante.
Ebbene, in tema di onere della prova, chi vuol far valere un diritto in giudizio deve soltanto provare i fatti che ne costituiscono il fondamento e non anche l’inesistenza di condizioni negative, cioè di fatti idonei ad impedire il sorgere ed il perdurare del vantato diritto. Pertanto, chi agisce per il pagamento del prezzo della compravendita di un bene adempie al suo onere probatorio con la precisa dimostrazione del rapporto da cui deriva il suo credito, mentre incombe alla controparte che la deduce la prova di una successiva causa estintiva, impeditiva o modificativa (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5127 del 26/07/1983; Sez. 2, Sentenza n. 2277 del 09/04/1980; Sez. 3, Sentenza n. 91 del 10/01/1975).
Con la conseguenza che non risulta perpetrata alcuna violazione del principio di distribuzione dell’onere probatorio.
10. -Con il decimo motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., dell’omesso esame di fatti decisivi per la soluzione della controversia, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte del gravame negato che fosse stata offerta la prova dell’intestazione fittizia delle azioni in capo a COGNOME NOME, tralasciando di considerare: – la sentenza di prime cure del Tribunale di Treviso n. 2934/2014, che nell’azione di rendiconto aveva accertato tale intestazione meramente formale; – la missiva della Banca Antoniana Popolare Veneta, indirizzata a COGNOME NOME NOME, da cui emergeva che il deposito titoli era stato acceso il 6 maggio 1987 ed estinto l’11 maggio 1995, mentre le compravendite dei titoli erano state sempre ‘appoggiate’ sul conto intestato a quest’ultimo; -i documenti depositati in primo grado, volti a comprovare che le azioni già acquistate da COGNOME NOME erano state alienate al padre il 23 maggio 2005 per euro 1.590.095,00; l’intestazione in favore dei figli di un identico numero di azioni, fino al trasferimento contestato; l’intestazione di azioni per un ingente valore, nonostante COGNOME NOME, all’epoca, fosse uno studente.
11. -Con l’undicesimo motivo la ricorrente evidenzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di fatti decisivi per la soluzione della controversia, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d’appello trascurato di porre l’attenzione sull’individuazione dell’effettivo dominus dell’affare, anziché del titolare formale dei titoli azionati.
12. -Con il dodicesimo motivo la ricorrente delinea, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., per avere la Corte lagunare valutato in modo macroscopicamente errato il materiale probatorio in atti, poiché, se non in via diretta, quantomeno in via indiretta si sarebbe potuto desumere che l’effettivo intestatario delle azioni oggetto dell’atto di trasferimento fosse il padre delle parti.
Segnatamente sarebbero emerse presunzioni gravi, precise e concordanti, come quelle fondate sul ritrasferimento delle azioni dalla COGNOME al padre e sul sintonico incremento delle azioni intestate in capo ai figli, sino al 1995, nonché sulla movimentazione per 15 anni di numerosi titoli intestati al figlio, privo di redditi e di fonti proprie di sostentamento a quel tempo, a cura di COGNOME NOME NOME, da cui si sarebbe potuto desumere che vero titolare delle azioni fosse il padre.
13. -Con il tredicesimo motivo la ricorrente assume, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., con motivazione omessa o comunque difettosa, per avere la Corte d’appello dopo aver rilevato che la consulenza tecnica d’ufficio non aveva consentito di accertare la provenienza delle somme utilizzate per l’acquisto dei titoli affermato che le altre circostanze dedotte da COGNOME NOME non avevano trovato fondamento probatorio, motivazione, questa, del tutto tautologica, in quanto priva di alcun richiamo ai documenti prodotti, ai fatti non contestati tra le parti e ai meccanismi presuntivi articolati su tali fatti.
13.1. -I motivi che precedono -i quali possono essere scrutinati congiuntamente, in quanto avvinti da evidenti ragioni di connessione logica e giuridica -sono inammissibili.
In proposito, la Corte ha sostenuto che la prova dell’intestazione fittizia non poteva essere desunta dalla vicenda dei titoli così come ricostruita dal consulente tecnico d’ufficio, il quale aveva concluso affermando che non era stato in grado di rilevare quale fosse stata la provenienza del ‘peculio’ utilizzato per l’acquisto dei titoli. Né le altre circostanze emergenti dai documenti in atti avevano dato contezza di tale provenienza.
Pertanto, nei termini anzidetti le censure articolate mirano, sotto l’apparente veste di omesso esame di fatti decisivi o di violazione di legge, ad una rivalutazione delle circostanze in fatto che hanno indotto la Corte distrettuale a negare che vi fosse in atti la prova dell’intestazione fittizia delle azioni in capo a COGNOME NOMECOGNOME quale fatto impeditivo della pretesa azionata (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 32505 del 22/11/2023; Sez. 1, Ordinanza n. 5987 del 04/03/2021; Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Sez. 6-5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) e, come tali, sono inammissibili.
Inoltre, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente
apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6774 del 01/03/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021; Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020; Sez. 6-1, Ordinanza n. 1229 del 17/01/2019).
D’altronde, il potere del giudice di valutazione della prova non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell’art. 116 c.p.c., quale apprezzamento riferito ad un astratto e generale parametro non prudente della prova, posto che l’utilizzo del pronome ‘suo’ è estrinsecazione dello specifico prudente apprezzamento del giudice della causa, a garanzia dell’autonomia del giudizio in ordine ai fatti relativi, salvo il limite che ‘la legge disponga altrimenti’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 34786 del 17/11/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 20553 del 19/07/2021; Sez. 3, Sentenza n. 15276 del 01/06/2021; Sez. 65, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).
In difetto di elementi significativi (che non possono rintracciarsi nella documentazione cui fa riferimento la ricorrente, la quale si limita ad attestare che la gestione dei titoli era stata rimessa al padre, quale rappresentante dei figli intestatari), non vi erano le condizioni per il ricorso al ragionamento inferenziale.
14. -Il quattordicesimo motivo attiene, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., alla violazione e falsa applicazione degli artt. 2721 c.c., 116 e 245 c.p.c., per avere la Corte del gravame confermato il rigetto della prova testimoniale richiesta in primo grado da COGNOME NOME in ragione dell’inconferenza dei capitoli circostanziati rispetto all’acquisto dei
titoli, della loro genericità o della loro attinenza a diversi rapporti tra l’appellante e il padre, mentre, in realtà, i capitoli debitamente illustrati avrebbero avuto diretta incidenza sulla dimostrazione della natura fittizia delle intestazioni delle azioni in favore di COGNOME NOME
14.1. -Il motivo è inammissibile.
E ciò perché la sentenza d’appello ha disatteso la richiesta di ammissione della prova testimoniale già articolata nel giudizio di primo grado utilizzando due argomentazioni: a prescindere dalla fondatezza del motivo di gravame relativo alla declaratoria di decadenza della prova per testimoni dedotta, comunque, i capitoli evocati in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di primo grado non erano ammissibili, per essere le circostanze capitolate inconferenti rispetto all’acquisto in questione, generiche oppure attinenti a diversi rapporti tra l’appellante e il padre.
Senonché nel giudizio di primo grado, prima che il giudice delibasse sull’ammissione delle prove articolate, le parti avevano richiesto congiuntamente la precisazione delle conclusioni e, in sede di precisazione delle conclusioni, si erano richiamate genericamente ai mezzi di prova sviluppati nelle rispettive memorie.
In conseguenza, il Tribunale ha dichiarato la decadenza dall’ammissione delle prove genericamente evocate in sede di precisazione delle conclusioni, alla stregua dell’orientamento nomofilattico a mente del quale le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto,
ritenere abbandonate e non riproponibili con l’impugnazione; tale presunzione può, tuttavia, ritenersi superata qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 10767 del 04/04/2022; Sez. 2, Sentenza n. 33103 del 10/11/2021; Sez. 1, Ordinanza n. 4487 del 19/02/2021; Sez. 6-3, Ordinanza n. 3229 del 05/02/2019).
Senonché il fatto che le parti avessero richiesto congiuntamente la precisazione delle conclusioni ha avvalorato, secondo la ricostruzione del Tribunale, la presunzione di rinuncia alle prove genericamente richiamate in sede di precisazione delle conclusioni (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 10797 del 04/05/2018; Sez. 1, Sentenza n. 18540 del 02/08/2013; Sez. 2, Sentenza n. 12241 del 19/08/2002; Sez. L, Sentenza n. 550 del 24/01/1981).
Orbene, avverso tale ultima ratio decidendi -come richiamata dalla sentenza d’appello non vi è stata alcuna censura, essendosi la doglianza incentrata sulla sola ulteriore argomentazione rafforzativa, secondo cui gli articoli di prova erano comunque inammissibili, in quanto generici e inconferenti.
Ebbene, la sentenza del giudice di merito, la quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, il
quale sussiste nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi , né contiene, quanto alla causa petendi alternativa o subordinata, un mero obiter dictum , insuscettibile di trasformarsi nel giudicato. Detta sentenza, invece, configura una pronuncia basata su due distinte rationes decidendi , ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, con il conseguente onere del ricorrente di impugnarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione -e, nella specie, di inammissibilità del motivo di ricorso -(Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 16422 del 12/06/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 11404 del 29/04/2024; Sez. 1, Ordinanza n. 9293 del 08/04/2024; Sez. 3, Ordinanza n. 3402 del 06/02/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 18046 del 23/06/2023; Sez. 1, Ordinanza n. 17182 del 14/08/2020; Sez. 3, Sentenza n. 10815 del 18/04/2019; Sez. 3, Sentenza n. 21490 del 07/11/2005; Sez. L, Sentenza n. 3236 del 28/05/1985).
15. -In conseguenza delle considerazioni esposte, il ricorso deve essere respinto.
Le spese e compensi di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla refusione, in favore del controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 10.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda