Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12801 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12801 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 25694-2022 proposto da:
NOMECOGNOME elettivamente domiciliata in ROMA alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso, nonché COGNOME NOMECOGNOME quale amministratrice di sostegno di NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
– ricorrenti –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1651/2022 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/7/2022;
lette le memorie dei controricorrenti;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
NOME COGNOME e NOME COGNOME, quest’ultimo nella qualità di amministratore di sostegno di NOME COGNOME hanno proposto ricorso articolato in sette motivi avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che ha rigettato il gravame degli stessi avverso la sentenza del Tribunale di Rimini n. 749/2018, con la quale il giudice di primo grado ha dichiarato la nullità del preliminare di datio in solutum, stipulato in data 30.11.2011, con il quale NOME COGNOME si impegnava a trasferire in favore di NOME COGNOME il complesso immobiliare sito in Foligno, nonché del collegato mandato alla stipulazione del contratto definitivo; ha statuito, altresì, che il residuo credito in favore del medesimo ammontava a Euro 306.650,44; ha rigettato ogni altra domanda attorea nei confronti del COGNOME, nonché la domanda di nullità ed inefficacia dell’ipoteca iscritta a favore della Cassa di Risparmio di Forlì e della Romagna (oggi Intesa San Paolo S.p.a.); ha condannato le attrici alle spese di lite in favore dell’Istituto bancario, ha posto a carico di parte attrice e del convenuto le spese di ctu e compensato le spese di lite tra questi ultimi.
Avverso la pronuncia del Tribunale hanno proposto appello NOME COGNOME e NOME COGNOME nell’indicata qualità, cui hanno resistito NOME COGNOME e Intesa San Paolo Spa.
In ordine al primo motivo le parti appellanti lamentavano la nullità delle donazioni effettuate da NOME COGNOME in favore del COGNOME, realizzate tramite la dazione in assegni della complessiva somma di Euro 338.687,67, detta nullità, da rilevarsi documentalmente, era fondata sul vizio di forma, ossia sulla mancanza di atto pubblico.
In relazione al secondo motivo lamentavano la nullità del contratto stipulato in data 30/11/2011 e delle pattuizioni in esso contenute, nonché la relativa ricognizione di debito con la quale il de cuius NOME COGNOME aveva riconosciuto la propria posizione debitoria nei confronti del genero COGNOME a fronte di prestiti pregressi ricevuti, confutati dagli appellanti tramite copiosa documentazione versata nel giudizio di secondo grado in quanto sopraggiunta rispetto al procedimento dinanzi al Tribunale.
In relazione al terzo motivo, parte appellante denunciava la evidente sproporzione tra il valore effettivo dei trasferimenti operati dal de cuius in favore del COGNOME ed il debito asseritamente riconosciuto, nonché l’inattendibilità della CTU, ritenuta lacunosa ed insufficiente, perché viziata da errori che hanno determinato una valutazione discostatasi dal reale valore del complesso immobiliare ceduto dal COGNOME al COGNOME.
Con il quarto motivo gli appellanti eccepivano la nullità dei contratti stipulati per violazione dell’art. 58 Legge notarile, che impone l’utilizzo della lingua italiana nella redazione degli atti, in riferimento alla locuzione ‘datio in solutum’, spesso ivi ricorrente.
Con il quinto motivo, in relazione alla domanda di rescissione per lesione degli atti de quibus -ritenuta prescritta dal giudice di prime cure -contestavano il non riconoscimento dell’approfittamento da parte del COGNOME.
Con il sesto motivo, sempre in relazione alla asserita nullità dei contratti stipulati, gli appellanti si dolevano della contraddittorietà della sentenza laddove non rilevava la mancanza degli elementi essenziali del contratto ex art. 1395 c.c.
Con il settimo motivo deducevano che gli atti negoziali impugnati per violazione del divieto di patto commissorio, non avevano quale causa l’estinzione del presunto debito del Peciola, bensì la sola garanzia dell’adempimento, realizzando con ciò le fattispecie previste dagli artt. 1963 e 2744 c.c.
Si costituiva l’appellato che, con appello incidentale, formulava due motivi: il primo in relazione alla restituzione di una somma riferita a canoni di locazione asseritamente mai incassati; il secondo in riferimento alla lamentata compensazione totale delle spese del primo grado.
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 20/06/2022 nel procedimento recante numero R.G. 3445/2018, ha rigettato il gravame, ritenendo infondati i primi sei motivi e inammissibile il settimo motivo dell’appello principale, regolando di conseguenza anche le spese di lite. Ha, inoltre, accolto, in via incidentale, uno dei due motivi spiegati dall’appellato COGNOME ritenendo inammissibile l’altro.
Per quanto rileva in questa sede, la Corte d’Appello rigettava le domande degli appellanti rilevando l’infondatezza dei motivi e accoglieva l’appello incidentale del COGNOME, rideterminando la ripartizione delle spese di lite di primo grado.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello hanno proposto ricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME quest’ultimo quale amministratore di sostegno di NOME COGNOME (cui nelle more è subentrata l’avvocato NOME COGNOME), sulla base di sette motivi.
NOME COGNOME ed Intesa San Paolo S.p.A. hanno resistito con controricorso, ed hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 352 c.p.c. in relazione all’art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4, c.p.c.
Lamentano i ricorrenti, riferendosi alla ‘sentenza nella sua interezza’ , che la Corte d’appello in assenza di motivazione avrebbe aderito acriticamente alle statuizioni del giudice di prime cure sposandone le deduzioni e le argomentazioni senza, quindi, porre in essere un ‘autonomo e rinnovato giudizio’ .
Con il secondo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 132, 2° comma, n. 4, c.p.c. e degli artt. 112 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4, c.p.c., per apparente motivazione, se non carenza della stessa, rilevata ‘ in più parti’ del provvedimento, nel quale risulterebbe emergere una mera riproduzione di stralci della sentenza di primo grado e della perizia del consulente tecnico d’ufficio, anziché una autonoma e puntuale analisi ragionata e argomentativa di tutti i motivi di doglianza e delle censure esplicitate dagli appellanti.
I primi due motivi di ricorso, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono in parte inammissibili ed in parte manifestamente infondati.
Appaiono sicuramente inammissibili per la violazione del disposto di cui all’art. 366, n. 6, c.p.c., nella parte in cui denunciano la pretesa apparenza della motivazione, e la conseguente nullità della sentenza, per avere la stessa omesso di fornire una adeguata risposta alle censure mosse con i singoli motivi di appello, avendo esaurito il giudice di appello il proprio dovere motivazionale mediante l’acritica adesione alle motivazioni del giudice di primo grado.
In tal senso però rileva il principio affermato dalle Sezioni Unite, a mente del quale in tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata ” per relationem ” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali (Cass. S.U. n. 7074/2017).
Nella parte in fatto, i ricorrenti si limitano a richiamare le conclusioni dell’atto di appello, senza alcuna specifica illustrazione delle ragioni che sorreggevano i singoli mezzi di gravame, e nello sviluppo del motivo si limitano a riprodurre la parte motiva della sentenza impugnata, senza però né richiamare il contenuto delle motivazioni del giudice di primo grado né il contenuto delle censure singolarmente sviluppate in relazione ad ogni singolo motivo di appello, e ciò sebbene, in merito a numerosi dei motivi di gravame esaminati la Corte distrettuale abbia sottolineato come il motivo di appello non si confrontava adeguatamente né contestava specificamente le argomentazioni spese dal Tribunale
(così quanto al primo motivo, per il profilo relativo alla mancata impugnativa per errore degli atti di trasferimento, o ancora, in relazione al settimo motivo di appello, quanto alla impossibilità di configurare la violazione del divieto del patto commissorio per gli atti di trasferimento espressamente qualificati come datio in solutum ).
I motivi sono altresì manifestamente infondati.
Non ignora il Collegio come la giurisprudenza di questa Corte abbia in più occasioni affermato che la sentenza di appello è nulla per difetto di motivazione se è completamente priva dell’illustrazione delle censure sollevate dall’appellante rispetto alla decisione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto a disattenderle, limitandosi a richiamare per relationem la sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, così da impedire l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento della decisione (così Cass. n. 9830/2024, nonché Cass. n. 24452/2018, con specifico riferimento al giudizio tributario).
E’ stata quindi considerata nulla la sentenza di appello motivata ” per relationem ” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (così ex multis Cass. n. 22022/2017; Cass. n. 27112/2018).
Ma la mera adesione alle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado non può costituire di per sé causa di nullità della
sentenza di appello, come invece sembra voler sostenere parte ricorrente, che più volte richiama la violazione della regola secondo cui il giudizio di appello costituisce una ‘ revisio prioris instantiae ‘, sol perché non siano state accolte le tesi difensive dell’appellante.
In tal senso occorre ricordare che, sempre secondo questa Corte, non è nulla per difetto di motivazione la sentenza di appello che, pur in mancanza di un esplicito richiamo alla sentenza di primo grado, svolga, seppure solo per punti, i medesimi passaggi logicoargomentativi ed indichi i medesimi elementi di prova valorizzati dal primo giudice, pur non avendo provveduto ad una loro compiuta analisi, atteso che la sentenza impugnata viene ad integrarsi con quella di appello dando luogo ad un unico impianto argomentativo (così Cass. n. 16504/2019). Pertanto la sentenza di appello che si rifaccia alla motivazione della statuizione impugnata non è nulla, qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, atteso che il giudice del gravame può aderire a quella motivazione senza necessità, ove la condivida, di ripeterne tutti gli argomenti o di rinvenirne altri (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva riportato le conclusioni della consulenza tecnica espletata, aderendo ad esse; Cass. n. 10937/2016, in esplicita adesione a quanto affermato da Cass. S.U. n. 642/2015, secondo cui la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari, senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni
costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato).
Una volta richiamati tali principi, deve però escludersi che la sentenza gravata abbia offerto una motivazione meramente riproduttiva di quella di primo grado, senza dare alcun conto delle critiche mosse con i singoli motivi di appello, emergendo piuttosto che la stessa abbia analiticamente richiamato, sebbene per sintesi, il contenuto dei singoli motivi di appello, e riportando, anche in questo caso con motivazione sintetica, ma in ogni caso ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8054/2014), le ragioni per le quali reputava di condividere l’esito cui era pervenuto il Tribunale, ovvero evidenziando le ragioni per le quali le censure mosse dagli appellanti non potevano sortire l’effetto auspicato, anche in ragione di deficit argomentativi che palesavano l’inconferenza di alcuni motivi di appello per l’assenza di una specifica critica rispetto agli argomenti spesi dal giudice di prime cure (si veda al riguardo quanto sopra esposto).
Quanto poi al motivo che investe più direttamente l’adesione del giudice di appello alle valutazioni della CTU estimativa avente ad oggetto i beni trasferiti dal COGNOME al COGNOME, è pur vero che è stata reputata nulla, ai sensi dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., la sentenza del giudice di secondo grado che, sollecitato con il gravame a controllare la decisione di prime cure, che si era limitata a condividere le conclusioni di una CTU, senza
considerare la consulenza di parte, abbia proceduto all’esame dell’appello assumendo come premessa programmatica i principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione in tema di limiti del sindacato di legittimità, dichiarando genericamente di condividere le conclusioni del CTU, senza tenere conto della permanente natura di ” revisio prioris instantiae ” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (così Cass. n. 8460/2020), ma la nullità ricorre solo se sia stata del tutto omessa la valutazione da parte del giudice di merito dei rilievi tecnici mossi alla C.T.U., e cioè laddove la motivazione, pur aderendo alle conclusioni rassegnate dal consulente d’ufficio, omette qualsivoglia menzione delle osservazioni a quelle svolte (cfr. ex multis Cass. n. 9925/2024).
Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha testualmente riprodotto il contenuto della CTU esperita in primo grado, specialmente nella parte in cui l’ausiliario d’ufficio ha analiticamente risposto alle osservazioni mosse dal perito di parte, ritenendo in definitiva di dover aderire alle valutazioni espresse dal perito nominato, atteso che nell’atto di appello si era semplicemente provveduto a riproporre le medesime critiche già oggetto di disamina da parte del CTU.
Se, in via generale, il giudice di merito che aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l’obbligo di motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, ove, invece, le censure all’elaborato peritale si rivelino non solo puntuali e specifiche, ma evidenzino anche la
totale assenza di giustificazioni delle conclusioni dell’elaborato, la sentenza che ometta di motivare la propria adesione acritica alle predette conclusioni risulta affetta da nullità (cfr. da ultimo Cass. n. 15804/2024); ma deve escludersi che ricorra la nullità nel caso in cui le critiche siano state sottoposte alla valutazione dell’ausiliario d’ufficio, il quale abbia fornito alle stesse delle risposte, con argomentazioni che a sua volta il giudice ritenga di condividere, trovando il convincimento di questi il proprio supporto argomentativo proprio nelle osservazioni di carattere tecnico con le quali sono state confutate le contrarie deduzioni dei periti di parte (cfr. in tal senso Cass. n. 23637/2016; Cass. n. 10688/2008).
4. Nel terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 769 e 782 c.c., in relazione all’art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4, c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello non ha ravvisato la sussistenza – per ‘mancata percezione delle prove e del loro contenuto’ -dell’ animus donandi del COGNOME in favore del COGNOME in relazione alla rilevante somma elargita, asseritamente priva di funzione solutoria, tramite assegni intestati a quest’ultimo e alla di lui moglie, NOME COGNOME (figlia del de cuius) , nonostante fosse stata depositata ampia documentazione sia da parte degli appellanti che dalla controparte. In ogni caso, si dolgono del fatto che, in conformità con l’ordinanza del Tribunale resa nel corso del procedimento, la Corte d’appello ha condiviso il rigetto delle istanze istruttorie che, invece, avrebbero rafforzato le ragioni degli appellanti in relazione alla sussistenza dell’ animus donandi. Il terzo motivo di ricorso è del pari infondato.
Il giudice di appello, conformemente a quanto ritenuto dal Tribunale, ha escluso che l’emissione di assegni da parte del Peciola in favore del controricorrente potesse essere qualificata come una donazione, peraltro nulla, in quanto priva della forma richiesta per legge, rigettando quindi la domanda avanzata sul punto dalle attrici, e finalizzata ad ottenere la ripetizione di quanto asseritamente donato al convenuto.
Le ragioni del rigetto risiedono nel fatto che le attrici, sebbene onerate della prova, non solo della dazione degli assegni, ma soprattutto che la stessa trovasse la sua spiegazione nell’intento di liberalità del loro dante causa, non erano state in grado di dimostrare l’esistenza dell’ animus donandi sotteso all’emissione degli assegni, e ciò anche in ragione del fatto che, in ragione dell’esistenza di plurimi rapporti economici fra le parti, il rilascio degli assegni ben poteva trovare la sua giustificazione in una diversa causale, che non era quindi necessariamente riconducibile alla donazione.
Ribadito che incombe su colui che ritenga sussistere una donazione dimostrare la presenza di tutti gli elementi che caratterizzano la liberalità, e quindi anche la presenza dell’ animus donandi , la sentenza impugnata è pervenuta al rigetto della domanda attorea alla luce di una complessiva valutazione del materiale probatorio, che è stato ritenuto inidoneo a dimostra in maniera univoca che le somme ricevute dal COGNOME tramite assegni costituissero una donazione del suocero.
Il motivo di ricorso, ancorché denunci formalmente una violazione di legge, si risolve però in un’inammissibile contestazione alla valutazione del materiale probatorio, come operata in maniera incensurabile in questa sede dal giudice di merito.
In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione; conf. Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).
La censura si risolve nella pretesa sottovalutazione di alcune emergenze documentali, ed in particolare di un memoriale redatto dallo stesso asserito donante, atto che provenendo dal dante causa delle attrici non può di per sé costituire prova a favore delle stesse.
La critica investe, quindi, il mancato esame di alcuni elementi di prova, e di riflesso assume, sul presupposto della necessità di dover addivenire ad una diversa ricostruzione dei fatti, la pretesa violazione delle norme in materia di donazione, violazione che a sua volta è ricollegata al diverso accertamento in fatto cui aspira parte ricorrente.
Trattasi di doglianze che non possono però avere seguito in questa sede, anche in ragione del limite alla critica in ordine alla valutazione delle prove (cfr. Cass. S.U. n. 8054/2014, circa l’impossibilità di poter denunciare ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., la preferenza accordata dal giudice di merito ad alcuni elementi di prova a discapito di altri), e tenuto conto del fatto che, avendo la sentenza d’appello confermato quella di primo grado, sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto, ex art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., è preclusa la deducibilità del vizio di cui al menzionato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Il quarto ed articolato motivo, in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, c.p.c., denuncia sotto vari aspetti la violazione e falsa applicazione, di una serie di norme quali gli artt. 112, 115 e 116, 183, 189, 342, 345 e 352 c.p.c., nonché l’art. 1988 c.c.
Gli odierni ricorrenti lamentano che il giudice di secondo grado abbia erroneamente rigettato la domanda di nullità della datio in solutum del 30/11/2011 e della relativa ricognizione di debito a firma del COGNOME, ritenendoli giustificati dalla sussistenza dei
pregressi debiti in capo al medesimo nei confronti del COGNOME e non abbia consentito agli allora appellanti di dimostrare le proprie tesi a contrario in quanto ha dichiarato: la non opponibilità della sentenza del Tribunale di Spoleto datata 12/01/2021 resa nelle more nel giudizio intercorso tra le sorelle, nonché figlie del de cuius , NOME ed NOME COGNOME perché priva di rilevanza probatoria; l’inammissibilità di documenti prodotti ex art. 345 c.p.c.; l’inammissibilità delle istanze istruttorie, non riproposte in sede di comparsa conclusionale in primo grado, ovvero non riproposte in appello.
Lamentano, inoltre, la mancata valutazione della ricognizione di debito sul piano sostanziale: se pur vero che essa è un atto unilaterale a forma libera, ha rilievo di astrazione della causa debendi sul piano processuale consentendo a chi se ne vuole avvalere di essere dispensato dall’onere probatorio in riferimento all’esistenza di un rapporto giuridico sottostante, ma non ha valenza sul piano sostanziale, pertanto, doveva essere consentito alle parti di fornire la prova della inesistenza dell’atto ricognitivo.
Il motivo è infondato.
Alla luce di quanto esposto in relazione al terzo motivo di ricorso, deve escludersi che ricorra la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., atteso che anche in questo caso la censura si risolve in una sollecitazione ad un diverso apprezzamento, in questo caso, delle prove documentali, così come del pari è esclusa la lamentata violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte d’Appello offerto risposta a tutti i singoli motivi di appello principale a suo tempo proposti.
Quanto al punto sub 1) del motivo, che investe la mancata valutazione della sentenza del Tribunale di Spoleto, emessa tra le
germane COGNOME in disparte il rilievo che la stessa non risulta passata in giudicato, è incensurabile l’affermazione della Corte d’Appello che ha sottolineato come si trattasse di res inter alios acta , come tale insuscettibile di avere efficacia vincolante nei rapporti che invece coinvolgono il COGNOME con il dante causa delle ricorrenti. La sua omessa considerazione si risolve anche in questo caso nell’omessa valutazione di un elemento probatorio, in quanto reputato recessivo rispetto ad altre fonti di prova, il che esclude che la sentenza possa ritenersi per ciò solo affetta da vizio di motivazione.
Quanto alla dedotta violazione dell’art. 345, co. 3, c.p.c. di cui al punto sub 2), il motivo confonde in maniera evidente tra la data delle memorie depositate nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale di Spoleto e la diversa data dei documenti alle quali le prime fanno riferimento, il che preclude che la posteriorità delle prime rispetto al giudizio di primo grado possa costituire un lasciapassare per l’ingresso in appello di documenti preesistenti, ed in violazione dei limiti posti dalla novella del 2012 all’ingresso di nuove prove in appello. Né può sostenersi che solo perché richiamati in atti processuali successivi, debba reputarsi che dei documenti contestualmente prodotti ne fosse stata impedita la conoscenza alla parte, giustificando quindi la ricorrenza di una causa non imputabile, come richiesto dalla norma di rito.
Ciò vale anche per il riconoscimento del debito asseritamente sottoscritto da COGNOME NOME nei confronti dei genitori, recante la data del 21 ottobre 2009, in quanto, trattandosi di documento di data anteriore al maturare delle preclusioni istruttorie in primo grado, era specifico onere della parte allegare le ragioni che le avevano impedito in precedenza la produzione, anche
eventualmente dimostrando che si trattava di documento del quale non aveva la disponibilità per causa alla stessa non imputabile, come appunto specificato nella giurisprudenza di questa Corte che la stessa parte ricorrente mostra di ben conoscere.
Quanto agli estratti conto bancari di COGNOME NOME, vale qui osservare che gli stessi avrebbero documentato operazioni che vedevano coinvolto anche il genitore, così che le stesse ricorrenti, in quanto eredi di quest’ultimo ben avrebbero potuto offrire ex latere del preteso creditore, la prova delle operazioni bancarie che avrebbero comprovato la qualità di creditore del congiunto.
Quanto al punto sub 3), concernente la mancata ammissione delle richieste istruttorie già avanzate in primo grado, ma non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, a fronte della loro mancata ammissione, ritiene il Collegio che la doglianza non possa essere accolta.
Questa Corte ha anche di recente ribadito (Cass. n. 10767/2022) che le istanze istruttorie rigettate dal giudice del merito devono essere riproposte con la precisazione delle conclusioni in modo specifico e non soltanto con il generico richiamo agli atti difensivi precedenti, dovendosi, in difetto, ritenere abbandonate e non riproponibili con l’impugnazione; tale presunzione può, tuttavia, ritenersi superata qualora emerga una volontà inequivoca di insistere nella richiesta istruttoria in base ad una valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione tra la richiesta probatoria non esplicitamente riproposta con le conclusioni e la linea difensiva adottata nel processo; della valutazione compiuta il giudice è tenuto a dar conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione (In applicazione
del principio, la S.C. ha cassato la pronuncia della Corte d’appello che si era limitata a rilevare la mancanza di una specifica riproposizione delle istanze probatorie con le conclusioni, trascurando di considerare che l’istanza di ammissione delle prove orali era già stata reiterata dall’istante con la richiesta, successiva al rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni, di revoca o di modifica dei provvedimenti istruttori del giudice di primo grado).
Cass. n. 4487/2021 ha altresì precisato che quando la causa viene trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie avanzate dalle parti, il solo fatto che la parte non abbia, nel precisare le conclusioni, reiterato le dette istanze istruttorie, non consente al decidente di ritenerle abbandonate, ove la volontà in tal senso non risulti in modo inequivoco.
Può quindi reputarsi che un primo discrimen necessario al fine di ravvisare nella mancata riproposizione delle istanze istruttorie una presunzione di rinuncia alle stesse, sia l’esistenza o meno di un esplicito provvedimento di diniego dei mezzi di prova da parte dell’istruttore, sebbene adottato con provvedimento sempre suscettibile di rivisitazione al momento della decisione.
In tal senso appare utile il richiamo a Cass. n. 33103/2021, che nel riepilogare i precedenti in materia, ha precisato che nel caso in cui il giudice di primo grado non accolga alcune richieste istruttorie, la parte che le ha formulate ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, in modo specifico, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, devono ritenersi abbandonate e non più riproponibili in sede di impugnazione; tale presunzione può essere
ritenuta, tuttavia, superata dal giudice di merito, qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi.
In tale precedente, moderando il rigore di alcune precedenti affermazioni (cfr. Cass. n. 5741/2019; Cass. n. 19352/2017; Cass. n. 16290/2016; Cass. n. 2093/2013, sebbene non del tutto pertinente, in quanto riferito alla mancata reiterazione delle domande ed eccezioni, e non anche alle richieste istruttorie, per le quali è invece possibile una delibazione negativa, ancorché non definitiva da parte del giudice), è stato quindi confermato che in generale deve ritenersi che la mancata riproposizione delle richieste istruttorie generi una presunzione di abbandono, a fronte di un provvedimento di diniego dell’istruttore, a meno che dalla valutazione complessiva della condotta della parte, non possa escludersi l’operatività di detta presunzione giudiziale, per l’esistenza di un diverso contegno, comunque confermativo della volontà di tenere ferme le deduzioni istruttorie e di sollecitare, sebbene implicitamente, una rivalutazione della prima deliberazione espressa sul punto.
La soluzione che impone, a fronte di un provvedimento di diniego dei mezzi istruttori, di dover sollecitare una rivalutazione non appare poi di per sé in contrasto con l’art. 111 Cost., ed in particolare con il principio alla durata ragionevole del processo, in quanto proprio la delibazione, sia pure provvisoria, del giudice sulle istanze istruttorie, in assenza di una reazione, non necessariamente esplicita della parte, consente di ritenere che vi
sia stata una sostanziale acquiescenza sulla stessa, e pone la questione al di fuori del tema ancora sottoposto alla decisione del giudice, assicurando quindi uno sfoltimento delle questioni da affrontare, con un indubbio appagamento dell’esigenza di economia e con un risparmio delle risorse decisorie del giudice, che, a voler diversamente opinare, sarebbe egualmente tenuto a dare risposta alle richieste istruttorie, sebbene già offerta in precedenza, ed ancorché la parte non mostri di dolersi delle ragioni poste a fondamento del diniego di ammissione dele prove. Tornando alla vicenda in esame, la sentenza di appello ha sottolineato che le varie richieste istruttorie, non ammesse dal Tribunale nel corso della fase istruttoria, non risultavano reiterate nel foglio di precisazione delle conclusioni depositato da parte attrice in data 24 gennaio 2018, nel quale l’unica richiesta era quella relativa ad un ordine di esibizione, che la sentenza ha osservato non essere stato reiterato in appello, essendo comunque irrilevante alla luce del quadro probatorio che aveva condotto al rigetto del primo motivo di appello.
Nella fattispecie, proprio la specificità delle richieste istruttorie reiterate in sede di precisazione delle conclusioni, porta a reputare che l’interesse delle attrici si fosse focalizzato solo su queste ultime e che per quelle invece non richiamate possa correttamente ravvisarsi una presunzione di implicita rinuncia.
In relazione al punto sub 4), le censure appaiono parimenti immeritevoli di accoglimento, in quanto il ragionamento di parte ricorrente è evidentemente correlato al fatto che in appello non si sia dato ingresso alle altre prove oggetto dei punti che precedono, di modo che la dedotta violazione dell’art. 1988 c.c. appare anche in questo caso conseguenziale ad una pretesa diversa
ricostruzione in fatto dei rapporti tra il COGNOME ed il COGNOME, diversa ricostruzione, che a dire delle ricorrenti, avrebbe consentito di ritenere raggiunta una prova idonea a vincere gli effetti dell’astrazione processuale prodotti dalla ricognizione del debito del loro dante causa.
Per il resto il motivo si risolve, come detto, in un’inammissibile sollecitazione ad una rivalutazione delle risultanze probatorie, al di fuori dei limiti consentiti in sede di legittimità.
Con il quinto motivo, in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, c.p.c., lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi la Corte d’appello pronunciata, o per averlo fatto in maniera lacunosa, sulla lamentata sproporzione tra i beni trasferiti al COGNOME e i debiti riconosciuti dal COGNOME.
Il quinto motivo di ricorso è manifestamente infondato, avendo la Corte d’Appello offerto risposta al motivo di appello che investiva la correttezza della stima in merito al valore dei beni oggetto della datio in solutum in favore del convenuto, il che denota con evidenza come non ricorra la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c.
Con il sesto motivo, in relazione all’art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4, c.p.c. denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte d’appello confermato la prescrizione dell’azione di rescissione per lesione, non pronunciandosi sulla pretesa circostanza interruttiva del termine prescrizionale addotta dagli appellanti, nella specie di un atto di opposizione all’archiviazione del 13/07/2018 nel procedimento penale dinanzi al Tribunale di Perugia pendente per gli stessi fatti relativi agli atti di cessione ‘ datio in solutum’.
Il sesto motivo è del pari destituito di fondamento.
In disparte l’impossibilità di annettere ad un atto diverso dalla domanda giudiziale l’effetto interruttivo della prescrizione dell’azione di rescissione (cfr. Cass. n. 6974/2017, secondo cui, in tema di rescissione del contratto, l’interruzione della prescrizione consegue esclusivamente alla proposizione della relativa domanda giudiziale e non anche ad un atto stragiudiziale di costituzione in mora, atteso che la corrispondente azione costituisce l’esercizio di un diritto potestativo rispetto al quale l’altra parte ha una posizione di mera soggezione), la critica all’affermazione circa l’irrilevanza penale dei fatti di causa, sostenuta da parte ricorrente al fine di fruire del più ampio termine di prescrizione dettato dall’art. 2947 c.c., attinge anche in questo caso una valutazione riservata al giudice di merito, senza che possa assumere carattere risolutivo il fatto che la richiesta di archiviazione nei confronti del COGNOME, e relativa al trasferimento dei beni da parte del COGNOME in suo favore, sia stata fatta oggetto di opposizione, non potendo tale atto di parte determinare di per sé la rilevanza penale dei fatti.
La conferma della maturata prescrizione dell’azione di rescissione giustifica anche la conclusione in punto di assorbimento circa le censure che concernevano l’esistenza di uno stato di bisogno in capo ai cedenti e l’approfittamento da parte del cessionario.
Del pari manifestamente infondata è la critica alla sentenza impugnata quanto all’applicazione dell’art. 1395 c.c., in quanto non si confronta con l’effettivo contenuto della sentenza impugnata che, lungi dal trattare i vari atti dispositivi posti in essere dal Peciola ‘a compartimenti stagni’, ha invece sottolineato come già il Tribunale, con affermazione non censurata, avesse reputato che i vari atti di disposizione fossero
avvinti del nesso del collegamento negoziale, così che anche il mandato a trattare con se stesso, in virtù del quale il COGNOME si era reso acquirente di alcuni beni del Peciola, si inseriva in tale complessiva operazione.
Ha perciò ritenuto che la specificazione dei limiti all’attività del rappresentante, richiesta a fini di validità dall’art. 1395 c.c., fosse desumibile dal fatto che le stesse parti, nell’ambito di tale complessa operazione, avessero predeterminato il valore dei beni da trasferire in un importo di € 500.000,00, che si rifletteva anche sul contenuto del contratto che il COGNOME era autorizzato a concludere con se stesso.
La censura dei ricorrenti ignora del tutto le argomentazioni della Corte d’appello e si limita a denunciare un inesistente travisamento dei fatti. Analoghe considerazioni valgono quanto alla parte del motivo che attinge l’affermazione secondo cui gli atti di trasferimento concreterebbero una valida datio in solutum aliena dalla nullità prevista per il patto commissorio, e ciò in quanto si trattava di atti posti in essere non già con finalità di garanzia, ma al fine di assicurare l’adempimento dell’obbligazione contratta dal COGNOME.
Le ricorrenti, omettendo di formulare una specifica critica al ragionamento del giudice di appello, comune a quello del Tribunale, assumendo che il punto era stato interessato da un motivo di appello, non si avvedono che il solo fatto di attingere una decisione del giudice di primo grado non esime però dal dovere essere la critica formulata, come imposto dall’art. 342 c.p.c., in termini di specificità, al fine di contrapporre alle ragioni del giudice di primo grado quelle della parte.
Il motivo in parte qua difetta anche di specificità, ex art. 366, n. 6, c.p.c., in quanto si limita a sostenere che vi sarebbe la violazione dell’art. 342 c.p.c., omettendo però di riportare, ancorché per sintesi, quali fossero le argomentazioni con le quali si intendeva contestare sul punto la correttezza della soluzione offerta dal Tribunale.
8. Con il settimo motivo, in relazione all’art. 360, 1° comma, nn. 3 e 4, c.p.c., i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 92 e 116, 2° comma c.p.c. e dell’art. 8 del D. Lgs. n. 28/2010 per avere accolto il motivo incidentalmente proposto dall’appellato COGNOME in materia di condanna alle spese, rideterminando queste ultime in base al principio della ‘prevalente soccombenza degli appellanti’ anziché della soccombenza reciproca che, se applicato, avrebbe confermato quanto stabilito dal giudice di primo grado relativamente alla compensazione totale delle spese processuali, decisione, questa, scaturita da un corretto bilanciamento tra domande proposte e contrapposte tra i contendenti e il loro accoglimento e/o rigetto. Il settimo motivo è infondato.
Quanto alla critica che investe l’accoglimento dell’appello incidentale del COGNOME sul capo relativo alle spese di lite, diversamente da quanto sostenuto in ricorso e come si ricava dalla lettura delle conclusioni dell’atto di citazione, riportate nello stesso ricorso, le attrici avevano avanzato richieste, consistenti nella declaratoria di nullità di pretese donazioni di denaro, nonché di vari atti di trasferimento di immobili e diritti di credito e di concessioni di garanzie, con la condanna alla riconsegna delle res oggetto degli atti asseritamente invalidi, il che permette di affermare che fossero state avanzate plurime domande, sebbene
connesse per essere correlate ad una unitaria vicenda scaturente dalla situazione di difficoltà economica nella quale era venuto a versare il Peciola.
In ragione dell’accoglimento solo di alcune delle domande originariamente proposte, e precisamente di quella di nullità del preliminare di datio in solutum e di ripetizione di alcune somme indebitamente trattenute dal COGNOME, deve reputarsi che effettivamente ricorra una situazione di soccombenza reciproca, e non invece, come sostenuto da parte ricorrente, il parziale accoglimento dell’unica domanda (sul punto si veda Cass. n. 26043/2020).
In presenza di siffatta situazione, resta incensurabile in sede di legittimità la decisione discrezionalmente affidata al giudice di merito di individuare sia la parte cui debba imputarsi la prevalente soccombenza, sia la percentuale entro la quale operare la compensazione, ponendo la residua parte delle spese a carico di colui che è stato reputato essere prevalentemente soccombente.
Infine, del pari priva di fondamento è la dedotta violazione dell’art. 8 del D. Lgs. n. 28/2010, atteso che la norma, nella versione applicabile ratione temporis, al comma 5 prevede che il giudice possa desumere argomenti di prova per effetto della mancata partecipazione al procedimento di mediazione, ma trattasi anche in questo caso di potere discrezionalmente rimesso al giudice di merito, come tale non sindacabile in questa sede.
Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento in favore delle parti controricorrenti delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
10. Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro al pagamento, in favore delle parti controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ognuna in complessivi € 10.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore somma pari al contributo unificato corrisposto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda