Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8050 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8050 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 26/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19862/2022 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE e domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOMECOGNOME
–
ricorrente – contro
COGNOME NOME e COGNOME, rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE , con elezione di domicilio digitale all’indirizzo PECEMAIL
–
contro
ricorrenti –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ANCONA n. 615/2022, pubblicata il 17/05/2022.
Oggetto:
DONAZIONE
Ud.03/12/2024 CC
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3/12/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME NOME e NOME, in qualità di eredi di NOME, deceduto il 25.11.2014, citarono in giudizio dinanzi al Tribunale di Ancona Ratushnyak Olha, per chiedere la nullità della donazione effettuata dal de cuius alla convenuta in data 6.11.2014 per incapacità di intendere e di volere, con obbligo di restituzione dei beni oggetto della donazione e della somma di € 24.674,00.
Vertendo la controversia sulla validità di un contratto di donazione avente ad oggetto un diritto reale immobiliare, venne introdotto da parte attrice il procedimento di mediazione obbligatoria ex art. 51, comma 1-bis e 2, d. lgs. 28/10, come modificato con legge 69/13, che ebbe esito negativo in quanto le parti alla prima comparizione dichiararono di non voler dar corso alla mediazione.
Il Tribunale di Ancona accolse la domanda degli attori e, per l’effetto, annullò l’atto di donazione del 6/11/2014 , condannando la convenuta a restituire agli attori la somma di euro 21.174,00.
La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 615/2022, confermò la sentenza di primo grado.
Per quel che ancora rileva in questa sede, la Corte di merito rigettò l’eccezione di nullità del procedimento per il mancato esperimento del tentativo di mediazione, rilevando che il tentativo era stato svolto ma non aveva avuto buon esito per il rifiuto, opposto proprio dalla parte appellante, di non voler dar corso al procedimento, aggiungendo che l’obbligo di attivare la mediazione può trasformarsi in un obbligo di accordo.
La prova dell’incapacità di intendere e di volere del de cuius al momento della donazione si evinceva dalle condizioni generali del donante, che, nel mese antecedente alla morte, per le sue condizioni di salute, non era in grado di esprimere una volontà consapevole, come risultava dalle dichiarazioni dei testimoni. La Corte d’appello non condivise la categorica affermazione del CTU, che aveva accertato l’incapacità di intendere e di volere solo dal momento del ricovero, avvenuto in data 10.11.2016, mentre si era espresso in forma dubitativa per i giorni precedenti, sulla base di un’autonoma valutazione delle risultanze istruttorie.
COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello sulla base di cinque motivi.
COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno resistito con controricorso.
Il Consigliere Delegato, ritenendo che il ricorso fosse inammissibile, con provvedimento depositato l’1/6/2023 ha proposto la definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d. lgs. n. 149 del 2022.
7.1. Alla proposta di definizione anticipata, regolarmente comunicata alle parti, è seguita la richiesta di decisione avanzata da COGNOME COGNOME ex art. 380-bis, comma 2, cod. proc. civ..
In prossimità dell’adunanza camerale, le parti hanno depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 2-bis, 17, comma 5-ter, e 8 del d.lgs. n. 28/2010, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata rigettato l’eccezione di nullità della sentenza e dell’intero procedimento di primo grado per mancato
esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione disposto dal giudice con ordinanza del 24.6.2015, essendosi la procedura conclusa, dopo la fase informativa, con la mera dichiarazione delle parti di non voler dar corso alla mediazione. La ricorrente evidenzia che, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, dopo la fase informativa, si debba dar corso al procedimento di mediazione, ai fini della procedibilità della domanda.
1.1. Il motivo è infondato.
Anche recentemente, questa Corte (v. Cass. n. 8473/2019 e Cass. n. 18485/2024) ha affermato che per considerare espletato il procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal decreto legislativo n. 28 del 2010, quale condizione di procedibilità per le controversie nelle materie indicate dall’articolo 5, comma 1-bis, del medesimo decreto (come introdotto dal decreto legge n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98 del 2013), è sufficiente che una o entrambe le parti comunichino al termine del primo incontro davanti al mediatore la propria indisponibilità a procedere oltre.
Al riguardo, depongono nel senso che l’onere della parte che intenda agire in giudizio di dar corso alla mediazione obbligatoria possa ritenersi adempiuto con l’avvio della procedura di mediazione e con la comparizione al primo incontro davanti al mediatore, sia l’argomento letterale, ovvero il testo dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 28 del 2010, che l’argomento sistematico, e cioè la necessità di interpretare la presente ipotesi di giurisdizione condizionata in modo non estensivo, ovvero in modo da non rendere eccessivamente complesso o dilazionato l’accesso alla tutela giurisdizionale.
La manifestazione da parte di una o di entrambe le parti della volontà di non procedere ad alcun accordo è compatibile con la ratio della
legge istitutiva della mediazione obbligatoria, che obbliga le parti ad una occasione istituzionale di possibile accordo prima di adire l’Autorità Giudiziaria ma non le obbliga a percorrere necessariamente la via dell’accordo.
Una volta comparsi innanzi al mediatore, che fornisce le necessarie informazioni in merito alla funzione e alle modalità di svolgimento della mediazione, la parte può liberamente manifestare il suo parere negativo sulla possibilità di utilmente proseguire la procedura di mediazione (Cass. n. 8473/2019, cit.; Cass. n. 40035/2021; Cass. n. 18485/2024, cit.).
Peraltro, nel caso di specie, il rifiuto di proseguire nella mediazione proveniva da entrambe le parti.
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza desunto l’incapacità di intendere e di volere del donante da episodi confusionali assai modesti riferiti solo da alcuni testi, che si sarebbero dovuti collocare non al momento della donazione, ma al periodo successivo in cui la capacità del de cuius era grandemente scemata.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c. in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., perché la sentenza impugnata si sarebbe discostata dalle conclusioni del CTU, che non aveva accertato l’incapacità totale de de cuius al momento in cui aveva effettuato la donazione, ma avrebbe riferito di meri episodi confusionali risoltisi spontaneamente. In tale quadro complessivo, l’atto del donante sarebbe stato compiuto in un momento di lucido intervallo, anche alla luce della deposizione del notaio e del testimone al momento dell’atto, che av eva dichiarato che si trattava di un soggetto
consapevole dell’atto che stava compiendo. Pur trattandosi di deposizioni qualificate ed attendibili, la Corte d’appello ne av eva sminuito la portata, paventando un presunto interesse personale del notaio, volto a sostenere la validità dell’atto di disposizione.
Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta l’ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per non aver la Corte territoriale tratto coerenti conclusioni sulla capacità del donante dalla certificazione resa dal dipartimento di neurologia dell’ospedale di Jesi il giorno precedente la donazione.
I motivi, che per la loro connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
5.1. Come affermato da questa Corte, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 29.5.2018, n. 13395; Cass. 23.10.2018, n. 26769; Cass. 17.6.2013, n. 15107).
5.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., essa è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente
risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n.5 c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (v., per tutte, Cass. SU, 30/09/2020, n. 20867).
5.3. Inoltre, è del tutto errato richiamare la maggiore attendibilità o valenza probatoria di un elemento istruttorio a discapito di altri invece posti a sostegno della decisione del giudice di merito (Cass. S.U. n. 8054/2014).
Difatti è ius receptum che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 3/11/2021, n. 31247; Cass. 24/09/2020 n. 20017).
La Corte d’appello, nell’ambito della valutazione del corredo probatorio, ha tratto il convincimento che il donante fosse incapace di
intendere e di volere al momento della donazione, facendo riferimento al quadro complessivo delle condizioni del soggetto, riscontrabile da avvenimenti sia anteriori che successivi alla redazione dell’atto, purché sufficienti a fondare ragionevolmente un giudizio di menomata capacità tale da impedire la formazione di una normale volontà cosciente (Cass. 27061/2018; Cass. 17381/2021).
Nel giungere a tale conclusione, la Corte d’appello ha valorizzato le dichiarazioni di numerosi testi che, sin dal maggio 2014, avevano riferito di episodi dai quali ha desunto che la condizione neurologica e psichica del donante non consentiva la formazione di una valida e consapevole volontà.
Sulla base di tali elementi, la Corte d’appello si è motivatamente discostata dalle conclusioni del CTU in ordine alla data in cui si sarebbe manifestata la capacità totale del de cuius , non senza evidenziare che le conclusioni erano state rese in termini dubitativi e di incertezza, oltre che fondate solo su dati medici e non sulle altre risultanze istruttorie di cui disponeva la Corte d’appello.
D’altronde, è noto che nel nostro ordinamento vige il principio iudex peritus peritorum , in virtù del quale è consentito al giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella propria relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca a esse altre argomentazioni, tratte da proprie personali cognizioni tecniche. In ambedue i casi, l’unico onere incontrato dal giudice è quello di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto (Cass. 20/03/2017, n. 7086).
I motivi, sotto lo schermo della violazione di legge, si risolvono nella sostanza in una critica all’apprezzamento delle risultanze istruttorie per come operato dal giudice di merito con motivazione logica e
intrinsecamente coerente, dunque richiedono una mera rivalutazione del merito.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, in riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per aver mancato di considerare la circostanza decisiva costituita dalle dichiarazioni di un teste (tale COGNOME) in ordine al fatto che il donante fosse vestito o meno, allorché di prima mattina intendeva recarsi presso la fondazione.
6.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 348 -ter, ultimo comma, c.p.c. perché, in caso di ‘doppia conforme’ è preclusa la censura del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. ( v. Cass. n. 7724/2022).
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Essendo stata la decisione resa nel procedimento per la definizione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ. (novellato dal D. Lgs. n. 149 del 2022), con formulazione di istanza di decisione ai sensi dell’ultimo comma della norma citata, e d essendo stato il giudizio definito in conformità alla proposta, parte ricorrente deve essere, inoltre, condannata al pagamento delle ulteriori somme ex art. 96, comma 3 e 4 c.p.c., sempre come liquidate in dispositivo (sulla doverosità del pagamento della somma di cui all’art. 96, comma 4 c.p.c. in favore della Cassa delle ammende: Cass. S.U. n. 27195/2023).
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Condanna, altresì, la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. al pagamento a favore delle parti controricorrenti di una somma ulteriore di euro 3.000,00 equitativamente determinata, nonché -ai sensi dell’art. 96, comma 4, c.p.c. – al pagamento della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione