Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10138 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10138 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2937/2020 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente- avverso SENTENZA TRIBUNALE VENEZIA n. 2235/2018 depositata il 06/12/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La vicenda trae origine dall’attività commerciale svolta da RAGIONE_SOCIALE, successivamente trasformata in RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME e C., nel settore della distribuzione di prodotti naturali e fitoterapici. NOME COGNOME, rappresentante legale della società, già dal 1989 aveva collaborato alla commercializzazione in Italia del RAGIONE_SOCIALE. Con vari contratti, stipulati rispettivamente nel 1991, 1997 e 2011, RAGIONE_SOCIALE ottenne da RAGIONE_SOCIALE l’esclusiva per la distribuzione dei prodotti RAGIONE_SOCIALE in Italia, Repubblica di San Marino e Città del Vaticano. La controversia sorgeva quando Homeofisi affermava che RAGIONE_SOCIALE era venuta meno agli obblighi contrattuali, in particolare all’obbligo di esclusiva, consentendo ad altri operatori di distribuire i prodotti nel medesimo territorio. Ulteriori inadempimenti venivano allegati per la fornitura di prodotti non conformi alle norme italiane sull’etichettatura e di prodotti avariati, episodi che causa vano il sequestro di alcune merci da parte dei carabinieri di Treviso. Homeofisi domandava al Tribunale di Venezia la risoluzione del contratto del 2011 per inadempimento e il risarcimento dei danni subiti, quantificati in complessivi € 520.000,00, di cui € 328.718,88 per violazione dell’esclusiva e € 250.000,00 per la penale contrattuale prevista all’art. 12 del contratto. RAGIONE_SOCIALE negava ogni inadempimento, sostenendo che l’esclusiva riguardava solo alcuni prodotti e affermando che i lotti avariati erano stati sostituiti. Il Tribunale di Venezia, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento di RAGIONE_SOCIALE, ma ha rigettato le domande risarcitorie di RAGIONE_SOCIALE per mancanza di adeguata prova del danno. In particolare, la consulenza tecnica d’ufficio ha evidenziato l’impossibilità di calcolare il margine di utile perso, data la mancata produzione di documentazione contabile da parte di RAGIONE_SOCIALE. Analogamente, non sono state ritenute provate le spese relative ai prodotti avariati e
sequestrati, né i presunti danni all’immagine. Il giudice ha altresì rigettato la domanda di pagamento della penale, ritenendo che la correlativa clausola contrattuale fosse riferita alla cessazione naturale del contratto e non alla sua risoluzione per inadempimento. Il Tribunale ha condannato COGNOME a pagare € 32.383,60 per forniture non saldate e ha compensato integralmente le spese di lite tra le parti, ponendo a carico dell’attrice le spese di consulenza tecnica.
Dichiarato inammissibile l’appello ex artt. 348 -bis e -ter c.p.c., Homeofisi ricorre in cassazione avverso la sentenza di primo grado con tre motivi, illustrati da memoria. Resiste RAGIONE_SOCIALE Quinton con controricorso, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. – Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c. in questi termini: « l’interpretazione del contratto redatto in lingua inglese, concluso tra una parte italiana e una parte franco/spagnola, e soggetto alla legge italiana per espressa volontà dei contraenti, deve essere interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. senza arrestarsi al significato letterale delle parole, sussistendo elementi di alienità che inducono a superare tale significato ». In altri termini si « censura la sentenza del Tribunale di Venezia per aver ritenuto non azionabile, in caso di risoluzione per inadempimento del contratto di distribuzione , la clausola penale ivi prevista per l’ipotesi di violazione del divieto di concorrenza, sulla base di una mera traduzione letterale, secondo l’accezione propria del diritto inglese, del termine ‘expiration’ contenuto nell’art. 12 del contratto, il quale deve invece essere interpretato, per espressa volontà delle parti, secondo la legge italiana, e dunque secondo il disposto degli artt. 1362 ss. c.c.» .
Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 115, 97 disp. att. c.p.c. e degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c. per avere il Tribunale fondato la propria decisione sull’uso di scienza privata, attribuendo
al termine inglese ‘expiration’ un significato tecnico -giuridico non fondato su elementi peritali o probatori. Si contesta che il significato attribuito al termine non possa essere considerato notorio e che il giudice abbia indebitamente interpretato la clausola contrattuale sulla base di proprie conoscenze linguistiche.
I primi due motivi possono essere esaminati contestualmente, in quanto convergono nell’obiettivo di contestare il significato che il giudice di merito ha attribuito alla parola expiration nell’interpretare l’art. 12 del contratto.
1.2. Del primo motivo è da dichiarare l’inammissibilità.
Infatti, « posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata» (così, tra le molte, Cass 9461/2021) .
Di tale contrapposizione si tratta nel primo motivo di ricorso. Ove non se ne dovesse dichiarare l’inammissibilità, se ne dovrebbe dichiarare l’infondatezza.
Infatti, il contratto, redatto in inglese e regolato dalla legge italiana, contiene una clausola (art. 12) che prevede una penale per la violazione dell’obbligo di non concorrenza dopo la cessazione ( expiration ) del rapporto. La parola di cui la ricorrente contesta l’interpretazione è appunto expiration , tradotta dal Tribunale come ‘ scadenza
naturale ‘ in aderenza al significato della parola in lingua inglese (cfr. sentenza p. 5: « Con il termine inglese ‘expiration’ si intende la cessazione del contratto alla sua ‘naturale’ scadenza, senza che sia intervenuta una azione legale ad opera di una delle parti dell’accordo ». Con la clausola de qua si è dunque inteso introdurre un ‘usuale’ patto di non concorrenza per la durata di un anno, valevole nel caso di naturale scadenza del contratto, e avente la funzione di regolare l’attività del distributore e del fornitore per il periodo successivo a tale cessazione del rapporto »). Il Tribunale ha ritenuto quindi che la clausola penale si applicasse solo in caso di scadenza naturale del contratto, non in caso di risoluzione per inadempimento, come quello attuale.
L’interpretazione del Tribunale non solo è plausibile, ma è corretta, poiché presuppone la messa a fuoco della differenza tra expiration (che fa segno alla scadenza per così dire naturale del rapporto contrattuale) e termination (che invece indica una serie di ipotesi distinte di scioglimento per così dire anticipato del vincolo contrattuale, tra cui quella che in lingua italiana si chiamerebbe ‘risoluzione per inadempimento’) . Orbene, anche se una parte sottoscrive un contratto scritto in una lingua diversa dalla propria lingua madre, essa è tenuta a conoscere il significato di ciò che sottoscrive e deve imputare a se stessa il difetto di conoscenza (o di assistenza linguisticogiuridica all’atto della sottoscrizione , che in questo caso l’aiuti a cogliere la differenza tra expiration e termination ). Ciò vale in generale, ma vale a fortiori se si tratta di una parte attiva da oltre trent’anni nel settore del commercio internazionale e se la lingua di cui si tratta (l’inglese) è la lingua franca di quel settore.
È superfluo osservare che il tenere presente la distinzione tra expiration e termination non significa sottoporre arbitrariamente al diritto inglese un contratto disciplinato dalla legge italiana. Significa solo mantenerlo ancorato alla semantica della lingua in cui è scritto, nel presupposto che chi lo sottoscrive sappia ciò che sottoscrive.
In senso contrario la ricorrente fa valere un ‘argomentazione che ruota intorno ad un assunto centrale: se il contratto è disciplinato dalla legge italiana, ma è scritto in una lingua diversa dall’italiano, allora ci si deve allontanare in via di principio dal criterio che vede il punto di partenza (e di ritorno) dell’opera interpretativa nell ‘interpretazione testuale, per identificare tale sorgente in una volontà delle parti che -una volta disancorata dal valore linguistico del testo che loro hanno sottoscritto -viene individuata attraverso altri criteri (che non a caso finiscono con identificarla con il desiderio della parte ricorrente). Infatti, ad avviso della ricorrente, « il principio che il dato letterale costituisce un canone ermeneutico dal quale è possibile allontanarsi solo in presenza di indici univoci di una diversa intenzione dei contraenti presuppone all’evidenza che la clausola da interpretare sia espressa in lingua italiana da contraenti italiani: solo così, infatti, il suo significato letterale può ritenersi tendenzialmente coincidente con la volontà dei paciscenti, nell’ovvio presupposto che essi si esprimano normalmente in lingua italiana ». Dopo quanto si è argomentato nel capoverso precedente, non sfugge il carattere di petizione di principio della precedente affermazione. Il principio che la lettera delle clausole contrattuali è il punto di partenza (e di ritorno) dell’opera in terpretativa presuppone – niente di meno, niente di più -che la clausola sia espressa in una scrittura alfabetica.
Né può essere condivisa la seguente argomentazione: l ‘interpretazione sistematica e teleologica avrebbe dovuto prevalere sul significato letterale, specialmente considerando che la lingua contrattuale è una lingua terza rispetto a quella delle parti e della normativa applicabile; il termine expiration , in tale contesto, avrebbe dovuto essere inteso come «cessazione», comprensiva sia della scadenza naturale che della risoluzione per inadempimento. Semmai, è vero il contrario: proprio perché la lingua del contratto è terza rispetto a quella delle parti, l’unica interpretazione equidistante è quella ancorata al significato proprio di tale lingua.
1.3. – La precedente discussione n el merito dell’interpretazione adottata dal Tribunale offre base anche al giudizio di infondatezza del secondo motivo, con cui si lamenta essenzialmente che il giudice con ciò abbia violato il divieto di utilizzazione della propria scienza privata. « È indubbio che il principio dispositivo e il divieto di far uso della scienza privata sono derogabili per il solo caso di ‘ nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza »: esordisce così la parte argomentativa del secondo motivo.
I richiami al principio dispositivo, al divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice e al fatto notorio non sono centrati. Non lo è quello relativo al principio dispositivo, poiché non abbiamo a che fare con uno degli aspetti in cui l’autonomia privata è chiamata a conformare la disciplina processuale. Non lo sono quelli relativi al divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice e al fatto notorio, poiché non abbiamo a che fare con l’accertamento di esistenza dei fatti principali o secondari bisognosi di prova, bensì con l’attribuzione di significato ad una parola impiegata dalle parti nel testo del loro contratto, che è un elemento d ell’ operazione di interpretazione qualificativa di effetti giuridici, quindi disponibile dal giudice.
1.4. -Il primo motivo è inammissibile; il secondo è rigettato.
Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 2056 co. 2 c.c. per il mancato utilizzo della valutazione equitativa nella quantificazione del lucro cessante derivante dall’inadempimento di COGNOME. Si sostiene che, nonostante la consulenza tecnica d’uffi cio avesse evidenziato una perdita di fatturato significativa per Homeofisi a causa delle vendite realizzate da operatori concorrenti, il Tribunale abbia erroneamente escluso di poter liquidare il danno in via equitativa. Si censura che il Tribunale a bbia ignorato l’art. 2056 co. 2 c.c., che consente la liquidazione del lucro cessante con equo apprezzamento delle circostanze del caso. Inoltre, si sostiene che il giudice abbia valutato in maniera inadeguata le risultanze della
consulenza tecnica d’ufficio, la quale evidenziava la perdita economica subita da RAGIONE_SOCIALE a causa della concorrenza di terzi. Infine, si sottolinea come non sia stata considerata la particolare gravità e l’evidenza del danno emersa dagli atti di causa, anche in ragione dell’86,16% di fatturato sottratto dai concorrenti rispetto al 13,84% realizzato da RAGIONE_SOCIALE. Il ricorso evidenzia che la norma in esame, pur appartenendo alla disciplina della responsabilità extracontrattuale, si applica anche ai danni derivanti da inadempimento contrattuale. Si richiama l’orientamento consolidato secondo cui la valutazione equitativa è legittima nei casi in cui l’esatta quantificazione del danno sia impossibile o eccessivamente gravosa.
Il terzo motivo è infondato.
Il Tribunale di Venezia ha rigettato la domanda risarcitoria di COGNOME affermando che la parte non ha fornito una prova sufficiente del danno. La sentenza ha escluso la possibilità di quantificare il danno in via equitativa, sostenendo che tale metodo è inapplicabile se la parte aveva la possibilità di fornire elementi di prova e non lo ha fatto. Si afferma che per l’accoglimento della domanda risarcitoria è necessaria la prova del danno specifico e che la quantificazione equitativa non può sostituirsi alla mancanza di documentazione probatoria. In particolare, le parti rilevanti della sentenza sottoposte a critica dal terzo motivo sono le seguenti: « Ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria non basta la prova dell’illecito (nel caso in esame sicuramente sussistente), ma necessita anche la prova del danno (in nesso di causa con il comportamento illecito) nell’an e nel quantum -non supplibile in punto quantum con liquidazione equitativa quando la parte era in grado di fornire (e non ha fornito) gli elementi per la quantificazione ». Occorre tenere conto che ciò rappresenta la conclusione di un ragionamento imperniato sulla considerazione (che si richiama ben cinque volte, da 6 a 8) che la ricorrente non ha prodotto la propria documentazione contabile.
La conclusione è pertanto in linea con l’orientamento di questa Corte, secondo il quale: « L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, ciò che non esime, però, la parte interessata – per consentire al giudice il concreto esercizio di tale potere, la cui sola funzione è di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso – dall’onere di dimostrare non solo l’an debeatur del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi in re ipsa, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre. Così, tra le altre, Cass 20889/2016, che ha confermato la sentenza impugnata di rigetto della domanda risarcitoria per difetto di prova del quantum, poiché appunto il danneggiato non aveva prodotto in giudizio la documentazione fiscale e contabile, successiva all’evento dannoso, che attestasse la lamentata riduzione dei ricavi.
Il terzo motivo è rigettato.
– Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 3.000 , oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18/02/2025.