Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2050 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2050 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 13978/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME in INDIRIZZO, giusta procura in atti;
-ricorrenti –
contro
COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE) e dall’avvocato COGNOME NOME (C.F. CODICE_FISCALE), giusta procura in atti;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 518/2020 della CORTE DI APPELLO DI FIRENZE, depositata il 26.02.20;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME;
La Corte osserva
NOME COGNOME e NOME COGNOME convennero in giudizio NOME COGNOME, chiedendo che il convenuto fosse condannato al pagamento della somma di € 19.669,23, che gli attori avevano sborsato per spese maturate dopo la stipulazione dell’atto di acquisto in loro favore di un immobile.
Il Tribunale di Livorno accolse la domanda.
1.1. Il soccombente propose impugnazione, che la Corte d’appello di Firenze accolse, così rigettando la domanda attorea.
L’appellante lamentò erronea interpretazione dell’atto notarile e ingiustizia della decisione, per avere posto a suo carico gli oneri richiesti ai compratori, a conoscenza della reale destinazione dell’immobile, dal Comune di Livorno.
1.2. Gli argomenti che avevano portato il Giudice di secondo grado a sovvertire l’epilogo di primo grado possono riassumersi nei termini di cui appresso.
La Corte locale, prendendo in esame l’atto di compravendita, che assorbiva e superava ogni eventuale convenzione di cui al contratto preliminare, e, in particolare, la pag. 16, la quale riportava che i compratori <>, giunge al
convincimento che i compratori avessero acquistato l’immobile nella piena consapevolezza di dovere affrontare le spese occorrenti per il suo mutamento di destinazione.
Convincimento rafforzato dalle risultanze della prova per testi esperita in primo grado, dalla quale emergeva che i compratori erano a conoscenza del fatto che il Comune di Livorno <> e, ulteriormente, dal fatto che i compratori avevano accettato di procedere con la DIA -denuncia d’inizio attività -(dalla quale si ricavava la non conformità della destinazione d’uso), già presentata dal venditore.
Infine, non poteva trovare applicazione l’art. 1489 cod. civ., in quanto che la pratica (come riferito dal teste COGNOME) era stata presentata a nome del venditore sol perché risultava ancora proprietario, sebbene l’incarico gli fosse stato conferito dall’architetto dei compratori. Prova, anche questa evidente, della consapevolezza di quest’ultimi che per l’abitabilità sarebbe occorso ristrutturare e frazionare il bene.
Avverso la sentenza d’appello NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso sulla base di quattro motivi.
NOME COGNOME resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.
Con gli esposti quattro motivi, fra loro osmotici, i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1351, 1362, 1363, 1365, 1366 cod. civ., l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, nonché violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1337, 1489 e 2697 cod. civ., 244 e 253 cod. civ.
Queste in sintesi le critiche censorie.
Non poteva assegnarsi valore assoluto al principio, secondo il quale le statuizioni del contratto preliminare, non riprese nel
definitivo, sono prive di valore, conservando, invece, valore quelle non destinate a esaurirsi nel mero obbligo a contrarre.
Col contratto preliminare (del 24/11/2011) il promittente alienante aveva dichiarato che l’unità immobiliare promessa in vendita era <>, soggiungendo che i lavori non erano iniziati e il predetto si impegnava a fare archiviare la pratica, autorizzando, al contempo, i promissari acquirenti a presentare una SCIA (segnalazione certificata inizio attività), obbligandosi a sottoscrivere ogni necessario documento al fine di permettere a costoro ristrutturazione e frazionamento dell’unità abitativa. Infine, precisandosi che gli oneri già corrisposti al Comune dal promittente alienante <>.
Con il contratto definitivo, stipulato il 16/12/2011, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (riportano i ricorrenti, che gli ultimi due erano anch’essi partecipanti all’atto ‘con reciproche cessioni in permuta tra essi e l’COGNOME, ed estranei al presente contenzioso’), ciascuno per il proprio bene trasferito, avevano garantito la conformità agli strumenti urbanistici vigenti, senza essere stato eccepito nulla dalla p.a. in ordine <>, obbligandosi, comunque a provvedere, a loro cura e spese ad ogni richiesta comunale, tenendo <>. NOME COGNOME, a foglio 15 del medesimo atto, aveva dichiarato che per l’intero immobile dal medesimo trasferito, fatto oggetto di una dichiarazione d’inizio attività del 16/5/2011 e successivo <>, era stata presentata tutta la relativa documentazione e corrisposti <>, non essendo stato, tuttavia, eseguito alcun intervento edilizio.
Da quanto esposto i ricorrenti traggono il convincimento che le disposizioni del preliminare erano del tutto in linea con quelle del contratto definitivo, dovendosi concludere nel senso che il venditore si era assunto l’obbligo <>; affermazione, quest’ultima, che sarebbe risultata successivamente non conforme al vero.
Quanto, poi, all’espressione, utilizzata nel contratto definitivo, evidenziata dalla sentenza, non era possibile giungere all’interpretazione resa dalla Corte d’appello, alla luce di quanto dichiarato in altre parti del contratto. Espressione, pertanto, con la quale i compratori <>. Quindi le spese dovevano intendersi solo quelle <> e non per gli oneri successivamente richiesti dal Comune, non menzionati nell’atto.
In base a quanto affermato si sostiene ancora che la sentenza aveva omesso di esaminare un fatto controverso e decisivo, costituito dal rogito notarile.
Conseguiva, inoltre, alla ricostruzione prospettata, l’erroneità della statuizione laddove aveva asserito la conoscenza in capo agli acquirenti della possibile richiesta di oneri da parte del Comune, nonostante che il venditore avesse dichiarato, a foglio 6, che gli immobili alienati avevano destinazione d’uso residenziale, di categoria A/2, confermandone la corrispondenza ai dati catastali e planimetrici, senza che lo stato attuale comportasse violazione di norma alcuna. Ciò, in contrasto con la destinazione alberghiera del fabbricato, risultante dal certificato di abitabilità del 17/5/1999.
Il teste arch. COGNOME, chiamato dall’COGNOME, aveva dichiarato che il progetto di ristrutturazione, elaborato su richiesta del proprietario, presentava l’anomalia di essere stato utilizzato come albergo, nonostante avesse configurazione catastale residenziale e, tuttavia, aveva soggiunto che una tale difformità non aveva formato oggetto di discussione fra le parti, né le modifiche avevano riguardato mutamento d’uso. Il AVV_NOTAIO aveva dichiarato di non avere mai sentito di difformità urbanistiche, in presenza delle quali non avrebbe potuto rogare l’atto, e che la documentazione catastale riportava appartamenti di civile abitazione.
Del pari erronea doveva reputarsi l’affermazione in sentenza, secondo la quale i compratori avrebbero avuto conoscenza della difformità urbanistica e del fatto che vi sarebbero stati oneri da pagare e, pertanto, non avrebbero potuto invocare l’art. 1489 cod. civ.
Secondo i ricorrenti, anche a volere reputare ci fosse stata conoscenza in capo ai compratori, costoro erano stati rassicurati dal venditore e la dichiarazione del teste COGNOME non contrastava la tesi dei compratori, stante che il geometra COGNOME si era solo
occupato di pratiche catastali e l’intero fabbricato era pacificamente accatastato ad uso residenziale, categoria A/2, nel mentre il predetto professionista si era occupato solamente di dividere in tre unità l’immobile e della pratica per il frazionamento, aveva riferito, <>.
4. L’insieme censorio non può trovare accoglimento.
Come non si mancherà di specificare analiticamente più avanti va sin d’ora precisato che, al di là dell’enunciato formale dei singoli motivi, i ricorrenti, nella sostanza, mirano a un improprio riesame di merito della decisione impugnata.
4.1. In punto di violazione o falsa applicazione delle norme sull’ermeneutica negoziale la vicenda resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito; in quanto, <> (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013).
Nonostante gli sforzi profusi dai ricorrenti, il richiamo alle norme regolanti l’interpretazione del negozio risulta privo di specifica critica della decisione nel senso sopra enunciato. Manca, in definitiva, un’apprezzabile, in quanto puntuale e specificamente connessa alla norma asseritamente disattesa, critica del ragionamento della Corte locale. Emerge, piuttosto, sostenuta dalla tecnica del cd. richiamo ‘a sacco’ di tutte le norme regolanti la materia, il dissenso dei ricorrenti a riguardo del risultato interpretativo cui il Giudice è giunto. Risultato, questo, ovviamente incensurabile, per quel che si è detto.
4.2. Chiaramente inammissibile si mostra l’allegazione di omissione di un fatto controverso e decisivo, in quanto ‘il fatto’, che i ricorrenti identificano nel contratto è stato ampiamente preso in esame dalla Corte d’appello, sia pure traendone conclusioni diverse rispetto a quelle auspicate in ricorso.
4.3. Del tutto aspecifico risulta il richiamo agli artt. 244 e 253 cod. civ., non potendosi apprezzare le ragioni della dedotta violazione o falsa applicazione.
4.4. È di poi evidente che attraverso la denunzia di violazione di legge i ricorrenti sollecitano – non determinando essa, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente – un improprio riesame di merito (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459).
L ‘ evocazione, inoltre, della regola sull’onere probatorio perciò solo non determina nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito manifesti la prospettata violazione di legge, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la conclusione nel senso auspicato dal ricorrente, evenienza che qui niente affatto ricorre, richiedendosi, in definitiva, che la Corte di legittimità, sostituendosi inammissibilmente alla Corte d’appello, faccia luogo a nuovo vaglio probatorio, di talché, nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, la doglianza investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure, come si è sopra visto, attraverso il richiamo agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Rigettato il ricorso, nel suo complesso, le spese del presente giudizio devono porsi a carico dei ricorrenti nella misura di cui in
dispositivo, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte dei ricorrenti, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in euro 3.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio di giorno 20 dicembre