Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21822 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21822 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
sul ricorso 14547/2019 proposto da:
COGNOME e COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE AMMINISTRATIVA rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 125/2019 depositata il 14/01/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/05/2025 dal Cons. Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza che si riporta in epigrafe, ha accolto l’appello di Veneto Banca in l.c.a. avverso la difforme pronuncia di primo grado con cui, su istanza di NOME e NOME COGNOME, era stata dichiarata la nullità per difetto di causa dell’accordo di espromissione intervenuto tra i COGNOME e la banca a mezzo del quale i COGNOME si erano impegnati a saldare il debito residuo gravante a loro carico, in quanto il relativo credito, per la parte non ammessa al piano di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), l. fall. chiesto a nome della società RAGIONE_SOCIALE di cui erano soci, era stato rinunciato.
La Corte territoriale ha motivato il proprio dissenso dal deliberato di primo grado osservando che l’assunto enunciato dal Tribunale «non può ritenersi in alcun modo ragionevole, in quanto porta ad una conclusione paradossale: le parti si sarebbero accordate nel senso che l’obbligazione dei COGNOME, all’avverarsi della condizione, sarebbe venuta necessariamente meno, dato che la Banca (in favore della quale l’estromissione è stata stipulata) avrebbe, in quella circostanza rinunciato al proprio credito». Poiché, al contrario, nell’interpretazione del contratto occorre attenersi alla regola secondo cui esso deve essere interpretato nel senso che lo stesso possa avere un qualche effetto anziché in quello in cui non possa averne alcuno, «è evidente che l’intento perseguito delle parti al momento della stipula dell’accordo di estromissione, fosse quello di consentire a Veneto Banca di ottenere l’integrale soddisfacimento del proprio credito vantato nei confronti della società. Tale soddisfacimento integrale doveva avvenire in parte nell’ambito del piano attestato di risanamento ex art. 67, c. 3, lettera d), l. f., a cui la Banca intendeva aderire con gli altri creditori, e per la restante parte, non riscossa in quella sede -e dunque lì formalmente
rinunciata nei confronti del debitore originario -attraverso l’assunzione di tale parte del debito da parte dei COGNOME, con un atto di espromissione. Il fatto che fosse stata apposta la condizione per l’efficacia dell’opzione alla conclusione dell’accordo di ristrutturazione è circostanza del tutto coerente con lo scopo perseguito dalle parti, in quanto se non ci fosse stata la falcidia (o, in termini consensualistici, la rinuncia) in sede di accordo ex art. 67, c. 3, lett. d), l. f., il credito sarebbe rimasto integralmente a carico di CWI. In questo quadro, affermare che l’espromissione ha ad oggetto un’obbligazione inesistente, in quanto rinunciata, è chiaramente un’interpretazione contro la volontà delle parti. Per contro, deve ritenersi conforme alla volontà delle parti la ricostruzione della fattispecie in termini di espromissione liberatoria, in quanto l’originario debitore si è trovato liberato di una parte del credito, cioè la parte per la quale è subentrato l’espromittente».
Né, poi, a giudizio della corte merita seguito la contestazione degli appellati che la banca avesse imposto la sottoscrizione dell’accordo di espromissione in cambio dell’adesione al piano di risanamento, dato che «nell’ambito delle relazioni commerciali non può ritenersi illecito il comportamento di chi si determina a favorire il risanamento del debitore solo a condizione di non vedere decurtato il proprio credito» e non si rende, perciò, ravvisabile alcuna violazione della par condicio creditorum , posto che «se la par condicio è certamente criterio di predisposizione del piano, lo è, non tanto perché l’ordinamento lo richieda, ma per la semplice ragione per cui, se non vi fosse par condicio i creditori sfavoriti potrebbero sperare di essere meglio soddisfatti nell’ambito di una procedura concorsuale vera e propria, dove la par condicio diventa principio di ordine pubblico e per tale ragione potrebbero decidere di non aderire al piano».
Per la cassazione di detta sentenza i COGNOME articolano sei motivi di ricorso, ripetutamente illustrati con memoria, ai quali resiste la banca intimata con controricorso e memoria.
1.2. Inizialmente chiamata in trattazione all’adunanza camerale del 19.6.2023, la causa, con un prima ordinanza interlocutoria (20463/2023), era stata rinviata a nuovo ruolo onde consentire la trattazione congiunta con il ricorso 24181/2020 e con una seconda ordinanza interlocutoria (pronunciata all’adunanza camerale dell’11.1.2024 era rinviata all’odierna camera di consiglio onde dar modo di prendere atto delle determinazioni assunte da questa Corte, all’esito della già fissata udienza pubblica, in ordine al tema della improcedibilità delle domande proposte nei confronti delle c.d. “banche venete” poste in liquidazione coatta amministrativa per effetto del d.l. 25 giugno 2017, n. 99, convertito con modificazione nella l. 31 luglio 2017, n. 121.
1.3. Con sentenza n. 17272/2024 pubblicata in data 24.6.2024 questa Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di liquidazione coatta amministrativa (l.c.a.) delle banche venete di cui al d.l. n. 99 del 2017, conv. con modif. in l. n. 212 del 2017, costituisce effetto del rinvio operato dall’art. 2 del medesimo d.l. alle norme del TUB, le quali a loro volta rinviano (art. 80 nel testo pro tempore) alle disposizioni della legge fallimentare per quanto non diversamente disposto, la configurabilità dell’ammissione dei crediti con riserva anche nello stato passivo della liquidazione coatta amministrativa delle banche suddette, entro i medesimi limiti operanti nella formazione dello stato passivo del fallimento. Ne consegue che il giudizio di condanna instaurato dai risparmiatori contro una delle banche venete indicate dal d.l. n. 99 del 2017 prima dell’apertura della l.c.a. non diventa improcedibile in esito alla detta apertura ove sia stata già pronunciata la sentenza di merito, in
quanto, a norma dell’art. 96 l. fall., il creditore, sulla base della sentenza impugnata, deve essere ammesso al passivo con riserva, mentre il commissario, dal canto suo, può proseguire il giudizio nella fase di impugnazione».
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va dato previamente atto che la sentenza, qui oggetto di impugnazione, è stata fatta oggetto di impugnazione per revocazione avanti alla medesima Corte di appello e la sentenza di questa, che ha dichiarato inammissibile il gravame, è stata a sua volta gravata dell’anzidetto ricorso a questa Corte iscritto al RG 24181/2020, definito con ordinanza di rigetto 17150/2025 del 25.6.2025.
Il primo motivo di diritto -mercé il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1272, 1325 e 1418 cod. civ., vero che la Corte di appello sarebbe caduta in errore nell’aver qualificato la fattispecie in disamina come espromissione liberatoria, non essendovi alcuna disposizione in tal senso, nell’aver ritenuto che la parziale rinuncia al credito operata dalla banca costituisse atto di esecuzione dell’accordo espromissorio, quando al contrario essa era effetto del piano di risanamento, nell’aver reputato provvisto di giustificazione causale l’accordo anzidetto, quantunque esso non comportasse alcun arricchimento per l’espromesso e recasse solo vantaggio alla banca, palesandone altresì il dolo, e nell’aver ancora escluso la violazione della par condicio creditorum , sebbene ciò fosse frutto di un obbligo consensualmente assunto dalla banca -è, al netto delle ulteriori ragioni in tal senso evocate dalla banca controricorrente, inammissibile per un palese difetto di specificità in quanto esso, da un lato, non esplicita alcun contenuto critico rispetto a quanto statuito dal decidente, dall’altro, non si confronta con le ragioni della decisione.
E’ a tale riguardo, allora, appena il caso di ricordare che «il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata, aventi i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 17/07/2007, n. 15952). Ciò postula, perciò, che «nell’esposizione del motivo trovino espressione le ragioni del dissenso che la parte intende marcare nei riguardi della decisione impugnata, formulate in termini tali da soddisfare, appunto, esigenze di specificità, di completezza e di riferibilità a quanto pronunciato proprie del mezzo azionato e, insieme, da costituire una critica precisa e puntuale e, dunque, pertinente delle ragioni che ne hanno indotto l’adozione» (così in motivazione ex plurimis , Cass., Sez. I, 24/04/2024, n. 11164). Di conseguenza, poiché il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione é erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non si può, a tal fine, «prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366, n. 4, c.p.c.» ( ex plurimis , Cass., Sez. III, 31/08/2015, 17330). Di più, allorché si censuri la decisione impugnata per il vizio riconducibile all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. occorre non solo che tale violazione sia denunciata «con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di
legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 29/11/2016, n. 24298).
Il motivo in disamina non ottempera a questi precetti: esso viene meno al primo e al terzo di essi in quanto le argomentazioni che vi trovano posto sono declinate in modo generico e sono al più rappresentative di un diverso giudizio sulla tenuta complessiva del ragionamento decisorio, sì che è naturale credere che esse recedono al rango della mera dissenting opinion, rispettabile, ma oggettivamente inidonea a fungere da pretesto per la cassazione della sentenza impugnata; viene, poi, meno al secondo di essi, poiché è di tutta evidenza, come bene consta dalla premessa narrativa di fatto, che la Corte territoriale, valorizzando l’argomento della conservazione del contratto, ravvisando la causa del negozio di espromissione nell’integrale soddisfazione della pretesa ed escludendo motivatamente la violazione delle regole concorsuali, ha mostrato di seguire un diverso itinerario decisorio che le considerazioni dei ricorrenti non scalfiscono neppure in minima parte in quanto non interloquiscono con le ragioni di esso o ne restano visibilmente ai margini, con l’effetto, dunque, di rendere la censura anche sotto questa angolazione priva di consistenza.
4. Il secondo motivo di ricorso -mercé il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1367, 1325 e 1418 cod. civ. vero che la Corte di appello sarebbe incorsa in errore nell’aver ritenuto di poter considerare valido il contratto di espromissione in applicazione del principio della conservazione dei suoi effetti, sebbene l’intento della banca non era quello di ottenere l’integrale soddisfazione delle proprie ragioni, ma di avvantaggiarsi dell’esecuzione degli accordi presi in sede di piano di risanamento e
non potesse farsi appello alla volontà delle parti, tanto più se quella di una di esse era frutto di coartazione, giungendo diversamente alla conclusione di legittimare la validità dell’accordo quantunque esso fosse privo di causa -è, ancora al netto delle analoghe preclusioni opposte dalla controricorrente, inammissibile in quanto esso, oltre ad incorrere, segnatamente, come il primo motivo, in un palese difetto di specificità per evidente mancanza di contenuto critico, investendo il ragionamento interpretativo sviluppato dal decidente, urta più direttamente nelle preclusioni a cui va soggetta la censurabilità per cassazione dell’errore ermeneutico.
Giova, perciò, ricordare che «l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione antecedente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti» ( ex plurimis , Cass., Sez. III, 14/07/2016, n. 14355); ed, ancora, che «la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili
interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra» ( ex plurimis , Cass., Sez. III, 28/11/2017, n. 28319).
Il motivo in disamina non ottempera a questi precetti: esso mette capo ad una confutazione del ragionamento interpretativo a cui ha dato luogo la sentenza impugnata del tutto generica e che si sostanzia, a tutto concedere, nell’instare per una rinnovazione del giudizio di merito in parte qua sul presupposto del tutto apoditticamente dedotto che la propria interpretazione sia più corretta di quella a cui ha aderito il decidente.
5. Il terzo motivo di ricorso -mercé il quale si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo vero che la Corte di appello, ritenendo che il piano di risanamento avrebbe comportato che il credito della banca fosse soddisfatto solo nella misura del 70%, sarebbe incorsa nell’errore denunciato non considerando, al contrario, sia l’onerosità della rinuncia, sia il conferimento di azioni operato dai ricorrenti nell’occasione, sia, ancora, l’accollo del debito societario a cui aveva proceduto un terzo, in tal modo astenendosi dal considerare nel loro complesso gli effetti e la funzione dell’accordo intervenuto nell’occasione -è, ancora al netto delle analoghe ragioni di inammissibilità fatte valere dalla controricorrente, inammissibile, vuoi per la palese estraneità della censura al parametro normativo richiamato, vuoi perché altrettanto palesemente versato in fatto.
Anche a tal proposito non è inopportuno avvertire, reiterando qui considerazioni più volte declinate da questa Corte, che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54, comma 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico
denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed il cui esame, ove fosse avvenuto, si sarebbe rivelato decisivo in quanto idoneo ad influenzare l’esito della lite ( ex plurimis , Cass. Sez. II, 29/10/2018, n. 27415). La nozione di “fatto” in tal guisa rilevante è da riferirsi propriamente agli accadimenti o alle circostanze in senso storico-naturalistico ( ex plurimis , Cass., Sez. VI-I, 6/09/2019 n. 22397) che siano idonei ad assicurare, in veste di fatto principale o di fatto secondario, fondamento costitutivo alla domanda o all’eccezione che ad essa si oppone ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 8/09/2016, n. 17761). Esulano, di conseguenza, dal paradigma normativo richiamato le argomentazioni, le deduzioni e le contestazioni sollevate dalle parti nel corso del giudizio ( ex plurimis , Cass., Sez. II, 14/06/2017, n. 14802), che ricadono nel perimetro del contradditorio processuale e sono espressione della fisiologica dialettica tra le parti che ha luogo nel processo.
Nondimeno si rende anche necessario rammentare che il ricorso per cassazione «non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti» (Cass. Sez. U,. 29/03/2013, n. 7931). Per vero, il controllo che la Corte di Cassazione è chiamata ad esercitare in funzione della legalità della decisione «non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 6/03/2019, n. 6519), così come a sua volta il controllo di logicità «non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo -come appunto qui -alla
stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito ( ex plurimis , Cass., Sez. II, 19/07/2021, n. 20553). E questo perché, come si chiosa abitualmente, il controllo affidato alla Corte «non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità» ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 5/08/2016 n. 16526). E dunque inammissibile il ricorso che sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto, «sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello -non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità» (così in motivazione, da ultimo, ex plurimis , Cass., Sez. V, 5/07/2024, n. 19379).
Il motivo in disamina, contravvenendo ai precetti ricordati, consacra, in breve, una mera istanza di renovatio iudicii chiedendo che la Corte riesamini il merito della causa, rivaluti le risultanze istruttorie asseritamente ignorate dal decidente e pronunci infine una decisione
che si sostituisca a quella impugnata e riscuota così la soddisfazione dell’impugnante.
6. Il quarto motivo di ricorso -mercé il quale si deduce la nullità della sentenza per omissione totale di motivazione in ordine alla domanda di nullità del contratto di espromissione, vero che la Corte di appello, malgrado i ricorrenti avessero chiesto che fosse dichiarata la nullità del divieto ivi contenuto di opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di valuta, aveva totalmente omesso di prendere in esame detta domanda, in tal modo precludendo ai ricorrenti di poter far valere l’inesistenza dell’obbligazione oggetto del negozio in quanto previamente rinunciata -è infondato in quanto la relativa doglianza deve ritenersi che sia stata implicitamente rigettata in conseguenza della riconosciuta validità dell’accordo di espromissione. Va infatti osservato, in linea con quanto si afferma abitualmente, che il vizio di omessa pronuncia deve reputarsi sussistente non quando manca un’espressa statuizione del giudice, ma quando è stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, il che, peraltro non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, e ciò anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia ( ex plurimis , Cass., Sez. I, 13/10/2017, n. 24155).
Il motivo in disamina non si accorda con l’enunciato principio di diritto, non tenendo, infatti, conto che la Corte di appello ha riconosciuto la validità del negozio di espromissione, sconfessando la tesi ricorrente -che voleva che ne fosse dichiarata la nullità per mancanza di causa in quanto l’obbligazione assunta dai ricorrenti
sarebbe stata rinunciata -sul presupposto che l’obbligazione dovesse invece ritenersi esistente, sicché ciò rendeva incompatibile l’eccezione di inesistenza della stessa accampata dai ricorrenti ed, in pari tempo, privava di fondamento la domanda di nullità del divieto di opporre le eccezioni relative al rapporto di valuta, facendone materia appunto di un rigetto implicito.
Il quinto motivo di ricorso -mercé il quale si deduce la violazione e falsa applicazione del’art. 629 cod. pen. e degli artt. 1434, 1435 e 1438 cod. civ., vero che la Corte di appello sarebbe incorsa in errore nell’escludere che la sottoscrizione del negozio espromissorio fosse stato frutto di un atteggiamento minaccioso della banca che avrebbe, in difetto, paventato l’eventualità di non aderire al piano di risanamento, addivenendo a tale conclusione senza considerare le circostanze di luogo e di tempo evidenzianti il fatto dedotto ed in particolare l’anomala condotta della banca -; ed il sesto motivo di ricorso -mercé il quale in relazione alle medesime circostanze,si lamenta che la Corte di appello sarebbe incorsa nell’omesso esame di un fatto decisivo -, esaminabili congiuntamente in quanto svolgenti la medesima censura, sono ambedue inammissibili in quanto palesemente versati in fatto ed intesi a promuovere unicamente una rivisitazione del quadro istruttorio già sottoposto al vaglio dal giudice di appello e da questo giudicato privo di concludenza secondo quanto si è già riferito nella pregressa narrativa di fatto.
Valgono, più in dettaglio, anche qui le considerazioni preclusive di cui si è dato conto nella disamina del terzo motivo di ricorso e alle quali, dunque, si rinvia.
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico dei ricorrenti del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 10200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Cosi deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il 30 maggio 2025.
Il Presidente Dott. NOME COGNOME