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Diffida ad adempiere: quando risolve il contratto?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20122/2024, ha chiarito la validità della risoluzione contrattuale tramite diffida ad adempiere, anche in presenza di un inadempimento non grave, qualora il contratto lo preveda esplicitamente. Il caso riguardava un contratto tra una società di gestione di apparecchi da gioco e l’esercente di un bar. La Corte ha rigettato il ricorso della società, sottolineando che se le parti pattuiscono la possibilità di risolvere il contratto per ‘qualsiasi inadempimento’ tramite diffida, non è necessario per il giudice valutare la gravità della violazione.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto Civile, Diritto Commerciale, Giurisprudenza Civile

Diffida ad adempiere: la parola delle parti nel contratto è legge

La diffida ad adempiere è uno strumento potente per chiudere un rapporto contrattuale che non sta funzionando. Ma è sempre necessario che l’inadempimento sia ‘grave’ per poterla utilizzare con successo? Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha fornito un’importante precisazione: se il contratto lo prevede, la risoluzione può scattare anche per violazioni minori. Analizziamo insieme questa decisione per capire le sue implicazioni pratiche.

I Fatti di Causa

La vicenda nasce da un contratto stipulato nel 2012 tra una società specializzata nella gestione di apparecchi da gioco (AWP) e la titolare di un bar. L’accordo prevedeva l’installazione delle macchine nel locale per 36 mesi, con rinnovo automatico. Il contratto conteneva clausole specifiche, tra cui una penale in caso di violazione dell’esclusiva e una clausola che permetteva la risoluzione in caso di inadempimento delle obbligazioni.

Dopo un periodo di reciproche contestazioni, la titolare del bar citava in giudizio la società gestrice, chiedendo il pagamento di compensi e incentivi non corrisposti. La società, a sua volta, rispondeva con una domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento delle penali, sostenendo che l’interruzione del rapporto fosse ingiustificata.

Il Tribunale di primo grado accoglieva parzialmente entrambe le domande. La Corte d’Appello, invece, ribaltava la decisione: riconosceva un inadempimento significativo da parte della società gestrice e riteneva il contratto risolto per effetto della diffida ad adempiere inviata dalla titolare del bar, rigettando quindi la richiesta di penali della società.

La Diffida ad adempiere e la Decisione della Cassazione

La società gestrice ha portato il caso davanti alla Corte di Cassazione, lamentando principalmente che l’inadempimento contestato non fosse abbastanza grave da giustificare la risoluzione del contratto. La Suprema Corte, tuttavia, ha dichiarato il ricorso inammissibile, basando la propria decisione su un punto cruciale.

I Giudici hanno evidenziato che la Corte d’Appello non aveva fondato la sua decisione sulla gravità dell’inadempimento secondo i criteri di legge (art. 1455 c.c.), ma su una specifica clausola contrattuale. Questa clausola consentiva di attivare la diffida ad adempiere in presenza di ‘qualsiasi inadempimento’.

In sostanza, le parti avevano convenzionalmente abbassato la soglia di rilevanza dell’inadempimento. Avendo pattuito che qualsiasi violazione potesse giustificare la risoluzione tramite diffida, diventava irrilevante per il giudice stabilire se tale violazione fosse ‘grave’ o ‘di non scarsa importanza’. La volontà delle parti, espressa nel contratto, prevaleva.

Le Motivazioni della Corte

La Cassazione ha smontato punto per punto i motivi del ricorso. In primo luogo, ha definito ‘eccentrica’ l’argomentazione sulla gravità dell’inadempimento, poiché la decisione impugnata si basava sulla volontà contrattuale delle parti, che rendeva praticabile la risoluzione per ‘qualsiasi inadempimento’.

In secondo luogo, la Corte ha respinto la censura relativa alla presunta violazione del principio di buona fede da parte della titolare del bar. Questo argomento non era mai stato sollevato nei precedenti gradi di giudizio e, pertanto, costituiva una questione nuova, inammissibile in sede di legittimità.

Anche il terzo motivo, relativo a un presunto errore di valutazione sui pagamenti, è stato dichiarato inammissibile. La Corte ha notato che la statuizione su quel punto era già passata in ‘giudicato interno’, poiché non era stata oggetto di specifica impugnazione in appello.

Infine, è stato rigettato l’ultimo motivo, con cui si lamentava una mancata declaratoria esplicita della risoluzione. La Cassazione ha sottolineato come la Corte d’Appello avesse concluso in modo inequivocabile che ‘il contratto si deve quindi intendere risolto per fatto e colpa’ della società ricorrente, giustificando così il mancato pagamento delle penali.

Conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale del diritto dei contratti: l’autonomia contrattuale. Le parti sono libere di definire non solo le prestazioni, ma anche i rimedi in caso di inadempimento. Se un contratto stabilisce che la diffida ad adempiere può essere attivata per ‘qualsiasi inadempimento’, le parti stanno di fatto rinunciando alla valutazione giudiziale sulla gravità della violazione. In questi casi, la semplice scadenza del termine indicato nella diffida senza che l’inadempimento sia stato sanato è sufficiente a determinare la risoluzione del contratto, con tutte le conseguenze del caso.

Per risolvere un contratto con una diffida ad adempiere, è sempre necessario che l’inadempimento sia grave?
No. Secondo la Corte, se il contratto prevede esplicitamente che la diffida possa essere inviata per ‘qualsiasi inadempimento’, non è richiesta una valutazione sulla gravità della violazione. La volontà delle parti espressa nel contratto prevale.

È possibile sollevare per la prima volta in Cassazione un’argomentazione non discussa in appello, come la violazione della buona fede?
No, il motivo è stato ritenuto inammissibile. La Corte di Cassazione non può esaminare questioni nuove che comportano accertamenti di fatto e che non sono state discusse nei precedenti gradi di giudizio.

Cosa succede se una parte di una sentenza di primo grado non viene contestata in appello?
Quella parte della sentenza diventa definitiva e non può più essere messa in discussione. Si forma il cosiddetto ‘giudicato interno’, che preclude ogni ulteriore esame su quel punto specifico, anche in Cassazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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