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Codice Civile
Codice Penale

Contributi omessi e regolarizzazione contributiva

Condanna del datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi omessi, necessità del litisconsorzio necessario.

Pubblicato il 08 October 2022 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale Ordinario di Cosenza
Sezione Lavoro

Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa, ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 1312/2022 pubblicata il 16/09/2022

nella causa iscritta al n. 893/2018 R.G. TRA

XXX rappresentata e difesa dall’avv

Ricorrente E

YYY SOCIETA’ COOPERATIVA A. R.L., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall’avv.

Resistente

OGGETTO: Riconoscimento rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – Differenze retributive – Annullamento del licenziamento intimato in forma orale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 23.02.2018, la sig.ra XXX conveniva in giudizio YYY Società cooperativa a responsabilità limitata al fine di accertare e dichiarare la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato in data 19.02.2017, e, per l’effetto, la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro ab origine a tempo indeterminato, oltre alla condanna della resistente al pagamento della complessiva somma di € 26.215,30 a titolo di differenze retributive per lavoro ordinario, lavoro supplementare e straordinario, tredicesima, ferie e festività, TFR, indennità sostitutiva di preavviso, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.

Lamentava inoltre la nullità del licenziamento intimatole in forma orale in data 19.06.2017, e, per l’effetto, chiedeva la riassunzione nel posto di lavoro e/o la condanna della resistente alla corresponsione dell’indennità prevista dal D. Lgs. n. 23/2015, oppure, la condanna – da liquidarsi in via equitativa – al risarcimento del danno causato dal menzionato licenziamento, con contestuale regolarizzazione contributiva, oltre al pagamento delle spese e competenze del giudizio da distrarsi.

Esponeva in punto di fatto:

– Di aver svolto dal 13.09.2016 al 19.06.2017 l’attività di insegnante di scuola materna e responsabile del doposcuola alle dipendenze della resistente;

– Di aver svolto tale attività, dapprima (dal 13.09.2016 al 19.02.2017) senza un formale contratto di lavoro, e, successivamente (dal 20.02.2017 al 30.06.2017) in forza di regolare contratto di lavoro part-time (dal lunedì al venerdì, per 15 ore settimanali) a tempo determinato, con mansione di educatrice ed inquadrata al 6° livello del CCNL di settore (Scuole materne FISM);

– Che, durante il rapporto di lavoro, la resistente riduceva le ore settimanali lavorative (da 15 a 10) oltre a modificare le giornate di lavoro;

– Che svolgeva la sua attività lavorativa per oltre 12 ore al giorno (dalle 7,30 alle 19,30);

– Che, per lo svolgimento dell’attività lavorativa, percepiva una retribuzione complessiva pari ad € 3.986,52 (ovvero inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva);

– Che il sig. *** (l.r.p.t. della società resistente), le concedeva la possibilità di alloggiare al piano superiore della struttura presso cui la stessa svolgeva l’attività lavorativa;

– Che le condizioni dell’immobile erano fatiscenti e poco igieniche;

– Che, per tali motivi, provvedeva a proprie spese alla pulizia, alla disinfestazione ed alla ristrutturazione dell’immobile;

– Che chiedeva al datore di lavoro una maggiore stabilita economica nonché orari di lavoro più regolari;

– Che, in data 19.06.2017, le veniva intimato verbalmente di non recarsi più sul luogo di lavoro;

– Che, in data 21.06.2017, informava il datore di lavoro che in considerazione della suddetta intimazione e non già per sua volontà, non si sarebbe presentata sul luogo di lavoro;

– Che il datore di lavoro riscontrava la predetta comunicazione negando di aver intimato il licenziamento;

– Che, con raccomandata A/R del 28.07.2017, impugnava il licenziamento chiedendo la reintegra nel posto di lavoro;

– Che, in data 12.09.2017, la resistente riscontrava la predetta impugnativa negando di aver intimato il licenziamento, senza – tuttavia – invitare la ricorrente a riprendere servizio.

In data 08.05.2018, si costituiva in giudizio YYY contestando la veridicità dei fatti per come ricostruiti dalla ricorrente, e concludeva per il rigetto del ricorso in quanto infondato in fatto ed in diritto, spiegando – inoltre – domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna della ricorrente al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso pari ad € 21.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Nel corso del giudizio venivano escussi i testimoni indicati dalle parti nonché disposto interrogatorio formale del l.r.p.t. della resistente.

All’udienza del 16.09.2022 celebrata con le modalità di cui all’art. 221, co. 4 del D.L. n. 34 del 2020, convertito in L. n. 77 del 2020, le parti – con note depositate telematicamente – hanno insistito nelle conclusioni rese.

Il procedimento è stato quindi definito con sentenza.

Il ricorso dev’essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

Nel merito, parte ricorrente – assumendo di aver svolto la propria attività lavorativa alle dipendenze della resistente a far data dal 13.09.2016 (ovvero in data anteriore alla stipula del contratto di lavoro a tempo determinato del 19.02.2017) – chiede l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro, con contestuale trasformazione ab origine del rapporto di lavoro in tempo indeterminato.

Lamenta, inoltre, la mancata corresponsione delle differenze retributive maturate per lavoro supplementare e straordinario, tredicesima, ferie e festività, TFR, indennità sostitutiva di preavviso.

Deduce, infine, la nullità del licenziamento subìto in quanto intimato in forma orale, e/o, comunque, privo di alcuna motivazione, e, pertanto, richiede la riassunzione con contestuale pagamento dell’indennità prevista dal D. Lgs. n. 23/2015, ovvero il risarcimento del danno da determinarsi in via equitativa.

Orbene, con riferimento alla invocata nullità del termine apposto al contratto di lavoro a tempo determinato stipulato in data 19.02.2017 (e con scadenza al 30.06.2017), giova precisare come “l’apposizione del termine al contratto di lavoro, oltre che risultare da atto scritto, deve essere coeva od anteriore all’inizio del rapporto lavorativo, anche se non è però richiesto che la dichiarazione di volontà e l’apposizione del termine siano contenuti in un unico documento, perché il requisito della forma scritta viene osservato anche allorquando la sottoscrizione del lavoratore sia contenuta in un documento a sé, costituente accettazione di una proposta, anche essa scritta, di contratto a termine formulata dal datore di lavoro, ed il contratto sia concluso, ai sensi dell’art. 1326 c.c., prima o contemporaneamente all’inizio della prestazione” (cfr. ex plurimis: Cass. n. 10607/2002; Cass. n. 15801/2001; Cass. n. 2211/1998).

Più di recente è stato ribadito come “l’apposizione, al contratto di lavoro, del termine o l’indicazione della circostanza che tale termine implichi, postula a pena di nullità di un patto in forma scritta ad substantiam, che dev’essere anteriore, o quanto meno contestuale, all’inizio del rapporto” (Cass. n. 10084/2018; Cass. n. 16473/2009).

Va ancora precisato che, al fine di accertare e dichiarare la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, incombe su parte ricorrente l’onere di dimostrare lo svolgimento dell’attività lavorativa nel periodo antecedente alla stipula del contratto a termine, nonché il carattere subordinato della prestazione lavorativa resa, e ciò in base a quanto disposto dall’art. 2697 c.c. secondo cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Pertanto, al fine di verificare la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (antecedente alla stipula del contratto di lavoro), la ricorrente deve fornire la dimostrazione dello svolgimento – durante tale periodo di tempo – dell’attività lavorativa dedotta, nonché dell’assoggettamento al potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro con conseguente inserimento sistematico nell’organizzazione dell’impresa oltreché l’attività lavorativa sia stata prestata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro (ex multibus Cass. n. 2728/2019; Cass. n. 2622/2004). La prova dell’assoggettamento al datore di lavoro, peraltro, può essere fornita anche attraverso la dimostrazione dei c.d. “indici rivelatori della subordinazione” elaborati negli anni dalla giurisprudenza (a titolo esemplificativo: la sottoposizione all’altrui direzione, all’altrui potere disciplinare, ad un orario di lavoro vincolante, al compenso identico ripetuto, alla continuità della prestazione, alla giustificazione delle assenze, al rischio economico relativo all’utilità del lavoro).

Ciò premesso, all’esito dell’attività istruttoria espletata, ritiene il giudicante non dimostrato il rapporto di lavoro a carattere subordinato intercorso fra la ricorrente e la società resistente per il periodo anteriore alla stipula del contratto di lavoro a termine (rectius: dal 16.09.2016 al 19.02.2017).

In particolare, non risulta dimostrato lo svolgimento dell’attività lavorativa dedotta, né l’orario di lavoro osservato, né l’esistenza del vincolo di subordinazione nei confronti del datore di lavoro.

Invero, le allegazioni di parte ricorrente non hanno trovato conforto nelle dichiarazioni rese dai testi escussi di parte ricorrente. Il teste *** ha genericamente affermato che la ricorrente ha lavorato nell’anno scolastico 2016-2017, mentre le testimonianze rese dai sigg.ri *** e *** – su tale punto – sono apparse non sufficientemente attendibili in considerazione dei rapporti di amicizia ultradecennale intercorsi con la ricorrente. A ciò si aggiunga che – comunque – la teste *** ha reso dichiarazioni sommarie e del tutto generiche circa la data di assunzione della ricorrente, nonché le mansioni e l’orario lavorativo da ella osservato.

I testi *** e *** (di parte resistente), di contro, hanno precisato che la sig.ra XXX ha svolto la sua attività lavorativa nella prima metà dell’anno 2017. Il sig. *** (l.r.p.t. della resistente) escusso a mezzo di interrogatorio formale, ha affermato che la ricorrente è stata assunta dopo aver svolto un periodo di tirocinio all’interno della struttura di circa sei (6) mesi in quanto non aveva alcuna esperienza specifica.

Pertanto, alla luce dell’istruttoria espletata, non risulta dimostrato lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte della ricorrente, né l’esistenza del vincolo di subordinazione nei confronti del datore di lavoro per il periodo anteriore alla stipula del contratto di lavoro a termine.

Pertanto, la domanda attorea avente ad oggetto la declaratoria di nullità del termine indicato nel contratto di lavoro stipulato inter partes, dev’essere rigettata.

Per le stesse motivazioni, deve rigettarsi la domanda della ricorrente diretta ad ottenere – per tale periodo di tempo – le differenze retributive maturate per lavoro supplementare e straordinario, tredicesima, ferie e festività, in quanto non risulta provato lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte della sig.ra XXX.

Di contro, risulta dimostrato il rapporto lavorativo intercorso fra le parti nel periodo compreso fra il febbraio 2017 ed il giugno 2017.

Il contratto di lavoro a termine prodotto in giudizio evidenzia come la ricorrente sia stata assunta part-time (15 ore settimanali, poi ridotte a 10) dalYYY dal 20.02.2017 al 30.06.2017, con la mansione di educatrice ed inquadramento al 6° livello del CCNL di settore.

Inoltre, i testi escussi hanno affermato che la ricorrente svolgesse attività di dopo-scuola nei confronti dei ragazzi e delle ragazze che frequentavano la struttura della resistente. Di contro, non risulta pienamente dimostrata l’attività lavorativa svolta dalla ricorrente nei confronti dei bambini di scuola materna, in quanto i testi escussi su tale punto hanno fornito dichiarazioni discordanti e contraddittorie.

Risulta altresì provato che il rapporto di lavoro inter partes si sia interrotto anticipatamente in data 19.06.2017, per causa di licenziamento intimato in forma orale (secondo quanto prospettato da parte ricorrente), ovvero per abbandono del posto di lavoro (secondo quanto prospettato da parte resistente).

Ciò precisato, parte ricorrente lamenta – per tale periodo di tempo – il mancato pagamento di quanto dovuto a titolo di lavoro ordinario, lavoro supplementare e straordinario, ferie e festività e TFR.

Orbene – con riferimento alla mancata retribuzione del lavoro ordinario – si premette come i principi generali elaborati dalla giurisprudenza civilistica di legittimità in materia di azione di adempimento trovano applicazione anche in quella particolare species di essa, consistente nella domanda di adempimento dell’obbligazione retributiva nell’ambito del rapporto di lavoro. Invero, va ricordato che – secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione – il lavoratore che assuma l’inadempimento o l’inesatto adempimento del datore di lavoro in ordine all’obbligo di pagamento della retribuzione contrattuale (o comunque di spettanze retributive connesse al rapporto di lavoro), ha l’onere di provare l’esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché le mansioni espletate ed il relativo livello retributivo e che – provati i fatti costitutivi del suo diritto – non deve dare la prova del mancato ricevimento di quanto rivendicato, spettando invece al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’avvenuto corretto adempimento o gli altri fatti estintivi, modificati o impeditivi di volta in volta allegati. Invero, la giurisprudenza di legittimità precisa come “l’onere di provare rigorosamente i relativi pagamenti eseguiti in riferimento ai singoli crediti vantati dal lavoratore e della cui sussistenza sia stata acquisita la dimostrazione” (Cass. Ord. n. 115/2020; Cass. n. 4512/19982; Cass. n. 1484/1986).

Ciò premesso si osserva come risulta provato – per le motivazioni suindicate – il rapporto di lavoro intercorso fra le parti nel periodo compreso fra il febbraio 2017 ed il giugno 2017.

Di contro, il datore di lavoro, non ha fornito alcuna prova della corresponsione – in contanti – delle retribuzioni nei confronti della ricorrente per le mensilità di febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno 2017, né di quanto ad essa spettante a titolo di T.F.R.

Dunque, in considerazione del mancato assolvimento dell’onere probatorio posto in capo al datore di lavoro, i crediti per lo svolgimento dell’attività lavorativa ordinaria, sono dovuti.

Di contro – per ciò che concerne il lavoro supplementare e/o straordinario – si osserva come il lavoratore che chiede in via giudiziale il compenso per il lavoro supplementare e/o lo straordinario svolto, ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro senza che l’assenza di tale prova possa essere supplita dalla valutazione equitativa del giudice utilizzabile solo in riferimento alla quantificazione del compenso (cfr. Cass., Sez. Lav., n. 4076/2018; Cass., Sez. Lav., n. 2144/2005).

A tal proposito, la Suprema Corte ha reiteratamente affermato che “sul lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per lavoro straordinario grava un onere probatorio rigoroso, che esige il preliminare adempimento dell’onere di una specifica allegazione del fatto costitutivo, senza che, al mancato assolvimento di entrambi possa supplire una valutazione equitativa del giudice” (Cass. Sez. Lav., n. 16150/2018).

Pertanto, l’affermazione correttamente ripetuta nelle massime giurisprudenziali secondo cui spetta al lavoratore che chieda il riconoscimento del compenso per lavoro straordinario (ma ciò vale anche per le ferie, festività non goduti) fornire la prova positiva dell’esecuzione della prestazione lavorativa oltre i limiti, legalmente o contrattualmente previsti, costituisce proiezione del principio guida di cui all’art. 2697 c.c. configurandosi – lo svolgimento di lavoro “in eccedenza” rispetto all’orario normale – quale fatto costitutivo della pretesa azionata.

Alla stregua di tale impostazione, la Suprema Corte ha rimarcato il particolare rigore da osservare nell’accertamento del fatto costitutivo, specificando che il lavoratore che agisca per ottenere il compenso per il lavoro straordinario ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro e – ove egli riconosca di aver ricevuto una retribuzione, ma ne deduca l’insufficienza – è altresì tenuto a provare il numero di ore effettivamente svolto senza che eventuali, ma non decisive, ammissioni del datore di lavoro siano idonee a determinare una inversione dell’onere della prova (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 3714/2009). Ebbene, nel caso in esame, la ricorrente non ha fornito prova sufficiente di aver svolto la sua attività lavorativa per il numero di ore specificate in ricorso.

Invero, la prova per testi espletata non ha consentito di raggiungere la certezza dello svolgimento del lavoro supplementare e/o straordinario nei limiti e nelle quantità indicate dalla ricorrente.

In particolare, i testi *** e *** (di parte ricorrente) hanno dichiarato di non sapere con precisione quali mansioni svolgesse la ricorrente, né l’orario da ella osservato, né la retribuzione percepita; il teste *** – su tale questione – non è stato ritenuto sufficientemente attendibile, in quanto, dapprima, ha dichiarato di non sapere l’orario di lavoro osservato dalla ricorrente, e, successivamente, ha precisato che la ricorrente svolgeva attività lavorativa a tempo pieno dalle 7,30 alle 19,30.

Parimenti dev’essere rigettata la domanda attorea volta ad ottenere le differenze retributive relative alle ferie ed alle festività.

Su tale questione, la Suprema Corte di legittimità ha precisato che “ai sensi dell’art. 2697 c.c., grava sul lavoratore l’onere di provare il mancato godimento delle ferie, delle festività ed anche dei permessi” (Cass. n. 26985/2009; Cass. n. 22751/2004). Per quanto concerne l’indennità sostitutiva delle ferie, inoltre, la giurisprudenza precisa che “il lavoratore che agisce in giudizio per ottenere la corresponsione dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute deve provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, risultando irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggiore facilità nel provare l’avvenuta fruizione delle ferie da parte del lavoratore” (Cass. ord. n. 7696/2020; Cass. Sez. Lav., n. 12311/2003).

Infatti, l’indennità sostitutiva si configura come un emolumento di natura retributiva essendo posta in relazione al lavoro effettivamente prestato con violazione di norme a tutela del lavoratore e per il quale il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione e, secondo i criteri generali, l’onere probatorio si ripartisce facendo riferimento alla posizione processuale, restando rispettivamente a carico di chi vuol far valere un diritto ovvero di chi ne conteseti l’esistenza, la estinzione o la modifica (cfr. Cass. sez. lav., n. 22751/2004).

Ebbene, all’esito dell’attività istruttoria, ritiene il giudicante che la prova in ordine alla mancata fruizione di tali emolumenti non sia stata raggiunta, in quanto i testi escussi – su tale punto – nulla hanno dichiarato, né è stata prodotta documentazione a supporto della pretesa attorea.

Pertanto, la ricorrente ha diritto alla corresponsione delle differenze retributive per retribuzione ordinaria e TFR.

I conteggi prodotti dalla sig.ra XXX – poiché non specificamente contestati dalla società resistente – possono essere posti a base del quantum liquidabile, sicché la convenuta dovrà corrispondere alla ricorrente la complessiva somma di € 1.829,40 (di cui € 1.748,26 a titolo di differenze per retribuzione ordinaria, ed € 81,14 a titolo di TFR).

Per quanto concerne la cessazione del rapporto di lavoro, si osserva come parte ricorrente deduce di aver subìto – in data 19.06.2017 – il licenziamento intimato in forma orale. Di contro parte resistente deduce che la sig.ra XXX abbia volontariamente abbandonato il posto di lavoro.

Orbene, su tale questione, occorre preliminarmente precisare quanto segue.

In punto di ripartizione dell’onere probatorio del licenziamento intimato in forma orale, la Suprema Corte di legittimità afferma che la prova gravante sul lavoratore circa la “estromissione” del rapporto non coincide tout court con il fatto della cessazione del rapporto di lavoro, ma consiste in un “un atto datoriale consapevolmente volto ad espellere il lavoratore dal circuito produttivo” (Cass. n. 31501/2018).

Dal punto di vista strutturale, il licenziamento è atto unilaterale con cui il datore di lavoro dichiara al lavoratore la volontà di estinguere il rapporto di lavoro, esercitando il potere di recesso. Dunque, chi impugna un licenziamento deducendo che esso si sia realizzato senza il rispetto della forma prescritta ha l’onere di provare – oltre la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – il fatto costitutivo della sua domanda, rappresentato dalla manifestazione di detta volontà datoriale, anche se realizzata con comportamenti concludenti (cfr. Cass. Sez. Lav., n. 3822/2019). Tale identificazione del fatto costitutivo della domanda del lavoratore prescinde dalle difese del convenuto datore di lavoro, anche perché questi può risultare contumace, ed il conseguente onere probatorio è ripartito sulla base del fondamentale canone dettato dall’art. 2697 c.c. secondo cui “chi vuol far valere un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Dunque, il lavoratore non può limitarsi ad una mera allegazione della circostanza dell’intervenuto licenziamento, obbligando il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che l’estinzione del rapporto di durata sia dovuta ad altra causa, perché in tal caso, si realizzerebbe una inversione dell’onere probatorio non prevista dall’ordinamento (né dall’art. 5 della L. n. 604/1966, né evincibile in via sistematica), ma deve dimostrare che la volontà del datore di lavoro (desunta anche da comportamenti concludenti) fosse quella di estromettere il lavoratore.

Di converso, ove il datore di lavoro deduca che un rapporto di lavoro si sia estinto per le dimissioni del lavoratore (sia che lo faccia in via di azione che in via di eccezione) su di esso graverà la prova del fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione. In tali casi, precisa la Suprema Corte, l’accertamento del significato di una dichiarazione o di un comportamento del lavoratore cui si attribuisca la valenza di un recesso dovrà essere condotto tenuto conto di tutte le circostanze in cui la risoluzione si è verificata, delle condizioni di interesse di ciascuna delle parti alla prosecuzione del rapporto ovvero della sua estinzione, della diversità di potere e di facoltà attribuiti ai contraenti nel rapporto di lavoro (cfr. Cass., sez. Lav., n. 3822/2019).

Ciò premesso, la Suprema Corte afferma come “il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova. Ove il datore di lavoro opponga invece che il rapporto si è estinto per le dimissioni del dipendente, tanto più se presentate nello stesso contesto spazio temporale, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa” (Cass., sez. lav., n. 3822/2019), e ciò in ossequio al risalente principio processuale secondo cui l’onere probatorio del convenuto in ordine alle eccezioni da lui proposte sorge in concreto solo quando l’attore abbia a sua volta fornito la prova dei fatti posti a fondamento della domanda, sicché l’insufficienza (o anche la mancanza) della prova sulle circostanze dedotte dal convenuto a confutazione dell’avversa pretesa non vale a dispensare la controparte dall’onere di dimostrare adeguatamente la fondatezza nel merito della pretesa stessa (cfr. Cass. n. 8164/2000; Cass. n. 3642/2004; Cass. n. 13390/2007).

Alla stregua delle suesposte considerazioni – nonché all’esito della valutazione complessiva delle risultanze istruttorie – ritiene il giudicante provato il licenziamento intimato in forma orale da parte del YYY. In particolare, risulta dimostrato (per come già esposto) il rapporto di lavoro intercorso fra le parti nel periodo compreso fra il 20.02.2017 ed il 19.06.2017 (data in cui la ricorrente deduce di aver subìto l’intimazione orale del licenziamento), oltre a risultare pacifica la circostanza della cessazione del rapporto di lavoro in data 19.06.2017. Risulta inoltre dimostrata la volontà datoriale di estromettere la ricorrente dall’attività lavorativa quale effetto dell’esercizio del potere di recesso dal contratto di lavoro.

Invero, la comunicazione PEC del 23.06.2017 – nella parte in cui la resistente afferma di aver reiteratamente richiesto “la riconsegna della chiavi dell’edificio scolastico ed in particolare dell’appartamento che la società aveva offerto come alloggio momentaneo e straordinario” – evidenzia la volontà datoriale di allontanare la ricorrente, non solo dall’appartamento sovrastante la struttura della datrice di lavoro (ove la stessa risiedeva), ma anche dall’attività lavorativa tout court.

Parte resistente – nella sua memoria difensiva – afferma inoltre di aver richiesto la riconsegna delle chiavi “non solo dell’appartamento, ma dell’ingresso della scuola, del cancello principale e quelle del cassetto ove venivano depositate somme di danaro per le urgenze e i pagamenti immediati” (pag. 10 della memoria difensiva), con ciò palesando la sua intenzione di rendere oltremodo gravosa la permanenza della ricorrente presso la struttura ove la stessa svolgeva la sua prestazione lavorativa.

Peraltro, il tenore complessivo delle allegazioni di parte resistente unitamente alla documentazione prodotta ed alle dichiarazioni rese dal teste *** (di parte resistente), evidenziano le difficoltà relazionali fra la ricorrente e la società resistente; difficoltà, in gran parte derivanti dal comportamento poco consono tenuto dalla ricorrente sul luogo di lavoro, ed al di fuori dell’ambiente lavorativo (per come anche emerso in istruttoria).

Pertanto, per tutto quanto precisato, può ritenersi provato l’interesse particolarmente rilevante della datrice di lavoro ad estinguere il rapporto di lavoro con la ricorrente, e – dunque – appare altamente verosimile ritenere che la volontà datoriale fosse quella di emarginare la sig.ra XXX al fine di estrometterla dall’attività lavorativa.

Inoltre, la documentazione versata in atti nonché l’espletata attività probatoria, non corrobora in alcun modo la ricostruzione dei fatti per come operata da parte resistente (secondo cui la ricorrente avesse deciso volontariamente di non recarsi più sul posto di lavoro). In particolare, manca del tutto la prova circa il dedotto allontanamento della ricorrente. Al contrario, la comunicazione PEC del 21.06.2017 a firma della stessa ricorrente, dimostra – in maniera chiara ed inequivoca – la volontà della stessa di non rassegnare le dimissioni, né di abbandonare volontariamente il posto di lavoro.

Pertanto, alla luce delle suindicate motivazioni, il licenziamento intimato alla ricorrente in data 19.06.2017, dev’essere dichiarato inefficace in quanto intimato in forma orale.

Orbene, per come noto, la tutela reale e/o obbligatoria di cui al D. Lgs. n. 23/2015, trova applicazione soltanto nei casi di assunzione a tempo indeterminato.

Di contro, nei casi di assunzione a tempo determinato, la giurisprudenza è chiara nel ritenere che al dipendente spetti un’indennità pari a tutte le mensilità di retribuzione perse per la risoluzione anticipata (illegittima) del rapporto di lavoro (cfr. Cass., sez. lav., n. 11692/2005, secondo cui “in caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno da calcolarsi equitativamente sulla base delle retribuzioni che sarebbero spettate fino alla scadenza del termine”). Ciò, in conformità al disposto di cui agli artt. 2118 e 2119 del c.c., secondo cui il recesso da parte del datore di lavoro da un rapporto a tempo determinato (e quindi in anticipo rispetto alla scadenza che era stata originariamente apposta al contratto) è possibile solo se sussiste la giusta causa di licenziamento.

Dunque, in considerazione del licenziamento intimato in data 19.06.2017 – e considerato che il termine finale apposto sul contratto di lavoro è stato fissato al 30.06.2017 – la ricorrente ha diritto alla corresponsione di una somma di denaro pari ad una mensilità di retribuzione. I conteggi prodotti dalla sig.ra XXX, poiché non specificamente contestati dalla società resistente, possono essere posti a base del quantum liquidabile, sicché la convenuta dovrà corrispondere alla ricorrente la complessiva somma di € 645,79 a titolo di risarcimento danni.

Dev’essere rigettata la domanda della ricorrente relativa alla corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso.

Invero la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito il principio secondo cui l’indennità sostitutiva del preavviso è obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine, in ragione della diversa natura del rapporto di lavoro a tempo determinato rispetto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Infatti, “mentre il preavviso è espressamente previsto dal legislatore nell’ipotesi di contratto a tempo indeterminato (art. 2118 c.c.) trovando giustificazione, per il lavoratore, nel fatto che il medesimo trovandosi improvvisamente privo di occupazione, deve essere messo in grado di ricercare un nuovo posto di lavoro, non altrettanto è a dirsi per il contratto a termine, nel quale nulla viene a perdere il lavoratore in termini economici e di certezza circa il momento finale del rapporto, risultando integralmente ristorata l’illegittima risoluzione ante tempus dalla corresponsione delle retribuzioni maturate successivamente al recesso e sino alla scadenza del rapporto” (Cass., sez. lav., n. 24335/2013).

Per gli stessi motivi, dunque, dev’essere rigettata anche la domanda riconvenzionale avanzata dalla resistente ed avente ad oggetto la corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Con riferimento alla richiesta di condanna di parte convenuta alla regolarizzazione contributiva, si evidenzia come l’INPS non sia stata citata in giudizio.

Su tale questione, la Suprema Corte ha recentemente ribadito che “la necessità del litisconsorzio necessario con l’ente previdenziale […] debbono valere anche nel caso in cui oggetto della domanda del lavoratore sia direttamente la condanna del datore di lavoro al pagamento in favore dell’ente previdenziale dei contributi omessi” (Cass. n. 19679/2020). Invero, l’obbligo datoriale di pagare integralmente i contributi dovuti si configura, nell’ambito del rapporto di lavoro, come obbligo di facere, non già come un diritto di credito ai contributi da parte del lavoratore, sicché la “sentenza di condanna ad un facere siffatto, oltre a non essere in alcun modo direttamente utile per il lavoratore, non avrebbe effetto alcuno verso l’ente previdenziale, stante l’indisponibilità delle obbligazioni contributive e l’indiscutibile terzietà dell’ente previdenziale medesimo rispetto al rapporto di lavoro, che gli renderebbe inopponibile qualsiasi giudicato” (Cass. n. 19679/2020; Cass. n. 4821/1999).

Pertanto – in considerazione della mancata citazione in giudizio dell’ente previdenziale competente – deve rigettarsi la richiesta di condanna alla regolarizzazione della posizione contributiva avanzata dalla ricorrente.

In ragione del parziale accoglimento del ricorso, si giustifica la compensazione delle spese di lite.

PQM

Accoglie il ricorso e, per l’effetto, dichiara inefficace il licenziamento intimato in forma orale in data 19.06.2017.

Condanna YYY Società Cooperativa a r.l. al pagamento in favore della ricorrente della somma pari ad € 1.829,40 a titolo di differenze retributive per lavoro ordinario e TFR.

Condanna YYY Società Cooperativa a r.l. al pagamento in favore della ricorrente della somma pari ad € 645,79 a titolo di risarcimento danni.

Compensa le spese di lite.

Così deciso in Cosenza, 16/09/2022

Il giudice

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