Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17150 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17150 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24181 R.G. anno 2020 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
ricorrenti
contro
Veneto Banca s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrente avverso la sentenza n. 1383/2020 depositata il 5 giugno 2020 della Corte di appello di Milano.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 30 maggio 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. NOME e NOME COGNOME hanno convenuto in giudizio Veneto Banca s.p.a., società incorporante Banca Popolare di Intra s.p.a. e successivamente posta in liquidazione coatta amministrativa, chiedendo che fosse dichiarato nullo, o fosse annullato, o fosse dichiarato risolto, un contratto di espromissione, con il quale i COGNOME si erano addossati una parte del debito della società RAGIONE_SOCIALE nei confronti dell’istituto bancario. Gli attori hanno allegato di essere titolari del 95% delle azioni di RAGIONE_SOCIALE, società entrata in fase di crisi, con pesanti esposizioni debitorie nei confronti di diversi istituti bancari; hanno esposto che tale società alla fine del 2008 aveva proposto un piano di ristrutturazione dei debiti, per la fattibilità del quale sarebbe stata necessaria l’adesione di Banca Popolare di Intra. Hanno dedotto che, quando era imminente l’adesione da parte degli altri creditori al piano, il quale prevedeva una rinuncia degli stessi a una parte delle loro spettanze, Veneto Banca aveva preteso che la quota rinunciata del credito in favore di RAGIONE_SOCIALE fosse oggetto di espromissione da parte dei COGNOME. Questi hanno così assunto di essere stati costretti a sottoscrivere, in data 28 settembre 2009, il contratto di espromissione, e ciò al fine di non vedere pregiudicata la conclusione dell’accordo con il ceto bancario. Per quanto qui rileva, i ricorrenti hanno dedotto l’inefficacia o la nullità del contratto di espromissione, visto che il debito cui esso si riferiva era venuto meno a seguito della stipula dell’accordo di ristrutturazione, nell’ambito del quale Veneto Banca aveva rinunciato proprio a quella parte del credito per il quale era intervenuto l’accordo espromissorio .
Il Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda attrice, ha dichiarato nullo il contratto di espromissione e condannato Veneto Banca alla restituzione della somma di euro 601.600,00, oltre interessi, in favore dei Mocarelli.
─ La Corte di appell o di Milano ha riformato la sentenza di primo grado, respingendo la domanda attrice.
─ La stessa Corte ha pure disatteso la domanda di revocazione ex art. 395, n. 4, c.p.c. successivamente proposta da NOME e NOME COGNOME.
4. ─ Questi ultimi hanno poi impugnato per cassazione la pronuncia che ha deciso sulla revocazione della sentenza di appello. Lo hanno fatto con un ricorso articolato in tre motivi, cui resiste, con controricorso, Veneto Banca. Vi sono memorie.
R AGIONI DELLA DECISIONE
1. -Col primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 115 e 395, n. 4 c.p.c.. La censura muove dalla seguente affermazione, contenuta nella sentenza impugnata: « E’ argomento suggestivo, ma fallace, quello avanzato dalla difesa dei RAGIONE_SOCIALE in base al quale Veneto Banca avrebbe affermato il suo credito integrale in sede di accordo. Invero in quella sede Veneto Banca ha dichiarato il suo credito, ma il pagamento ‘ in ristrutturazione del debito ‘ è avvenuto rispetto al 70% del credito originario, attraverso la consegna di strumenti partecipativi consistenti nel 100% delle partecipazioni della società RAGIONE_SOCIALE». Spiegano i ricorrenti che non vi era stata alcuna consegna delle azioni RAGIONE_SOCIALE in pagamento del 70% del debito contratto nei confronti di Veneto Banca, come invece ritenuto nella sentenza impugnata per revocazione; rilevano che la pronuncia della Corte di Milano oggetto del ricorso per cassazione aveva trascurato di considerare che la sentenza n. 125 del 2019 (quella impugnata per revocazione) non aveva tenuto conto del sinallagma corrente tra la rinuncia di Veneto Banca e l’accollo di Gruppo Fenix: deducono, sul punto, di aver depositato con l’atto di citazione in revocazione la prova documentale del fatto «che era stata RAGIONE_SOCIALE ad adempiere le obbligazioni nei confronti delle banche e che, in virtù del meccanismo condizionale previsto nell ‘ espromissione che faceva retroagire gli effetti dell’accordo quadro al momento della stipulazione delle espromissione, essa era nulla o comunque inefficace». In tal modo
─ ad avviso degli ste s si istanti ─ si era finito per omettere di considerare un fatto pacifico: e cioè che la rinuncia al credito nei confronti di NOME «costituiva la prestazione convenuta con quest’ultima società per ottenere la prestazione da essa promessa e con la quale era NOME stessa che adempiva al suo obbligo precludendo ogni efficacia all ‘ espromissione».
Col secondo mezzo si oppone l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Si sostiene che l’assunto, contenuto nella sentenza impugnata, per cui l’unica circostanza presa in considerazione dalla sentenza n. 125 del 2019 sia stata l’esistenza di una mera rinuncia, senza che avesse alcuna importanza la natura giuridica e la giustificazione causale di essa, integrerebbe una ricostruzione formalistica illogica e incongruente, tale da risolversi in una motivazione solo apparente.
Il terzo motivo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 287 c.p.c.. La censura investe il rigetto della domanda di correzione dell’errore materiale proposta dai ricorrenti: domanda che aveva ad oggetto lo stesso passaggio della sentenza di appello in cui si sarebbe annidato il vizio revocatorio.
─ Precede in rito la questione pregiudiziale sollevata da Veneto Banca. Questa ha dedotto che l’azione pro mossa sarebbe improcedibile, posto che la banca, con decreto del 25 giugno 2017, era stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa.
L’eccezione va disattesa.
Come ribadito di recente da questa Corte, in tema di liquidazione coatta amministrativa delle Banche venete di cui al d.l. n. 99 del 2017, convertito con modificazioni in l. n. 212 del 2017, la configurabilità dell’ammissione dei crediti con riserva anche nello stato passivo della liquidazione coatta amministrativa delle banche suddette, entro i medesimi limiti operanti nella formazione dello stato passivo del fallimento costituisce effetto del rinvio operato dall’art. 2 del medesimo
decreto-legge alle norme del testo unico bancario (d.lgs. n. 385 del 1993), le quali a loro volta rinviano ( attraverso l’ art. 80 nel testo vigente pro tempore ) alle disposizioni della legge fallimentare per quanto non diversamente disposto. Ne consegue che il giudizio di condanna instaurato dai risparmiatori contro una delle Banche venete indicate dal d.l. n. 99 del 2017 prima dell’apertura della liquidazione coatta amministrativa non diventa improcedibile in esito alla detta apertura ove sia stata già pronunciata la sentenza di merito, in quanto, a norma dell’art. 96 l. fall., il creditore, sulla base della sentenza impugnata, deve essere ammesso al passivo con riserva, mentre il commissario, dal canto suo, può proseguire il giudizio nella fase di impugnazione (Cass. 24 giugno 2024, n. 17272; cfr. pure: Cass. 15 marzo 2022, n. 8463; Cass. 22 aprile 2022, n. 12948). Nel caso in esame, la sentenza di primo grado venne pronunciata il 9 marzo 2017, prima dell’apertura della procedura concorsuale: ne discende che, alla stregua del principio sopra richiamato, l’effetto dell’improcedibilità non si è prodotto.
3 . -Il primo motivo di ricorso occupa le pagine da 33 a 61 del ricorso per cassazione e si presenta per larghi tratti opaco nel suo svolgimento argomentativo, specie avendo riguardo al portato assai stringente della decisione con cui è stata respinta la domanda di revocazione: portato che non risulta efficacemente aggredito dal motivo di ricorso in questione.
-Il mezzo è infondato.
-Si legge nella sentenza impugnata che Car Word aveva proposto al ceto bancario un piano attestato di risanamento ex art. 67 l. fall., che prevedeva: l’aumento del capitale di una newco , a nome Gruppo Fenix s.p.a., mediante il conferimento del 100% delle azioni RAGIONE_SOCIALE, la rinuncia da parte del ceto bancario al rimborso del 20% del debito finanziario complessivo di RAGIONE_SOCIALE, la facoltà per il ceto bancario di convertire l’ulteriore 10% del debito finanziario complessivo in strumenti finanziari partecipativi, che avrebbero dovuto essere
emessi da RAGIONE_SOCIALE ai sensi dell’art. 2346, comma 6, c.c., l’accollo da parte di RAGIONE_SOCIALE di una parte del debito residuo di RAGIONE_SOCIALE e di tutte le società del cosiddetto «Perimetro Fiat», il consolidamento da parte di RAGIONE_SOCIALE della parte rimanente del debito nei confronti delle banche con l’obbligo di pagarlo in dieci rate annuali. La Corte di appello ha inoltre dato atto che Veneto Banca, controllante Banca Popolare di Intra, aveva informato i soci COGNOME che non era disponibile a rinunciare neppure in parte al credito vantato nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e che la propria adesione al piano era subordinata all’assunzion e, da parte dei soci suddetti, della quota di debito della società che avrebbe dovuto formare oggetto di rinuncia. NOME COGNOME aveva quindi assunto in proprio la quota del 20% del debito finanziario di RAGIONE_SOCIALE nei confronti della banca, pari a euro 509.000,00 «a condizione che Banca Popolare di Intra s.p.a. conceda a RAGIONE_SOCIALE lo stralcio del 20% del suo debito finanziario totale e la manovra si perfezioni con la sottoscrizione dei relativi accordi» ed entrambi gli odierni ricorrenti avevano assunto in proprio la quota dell’ulteriore 10% del debito finanziario della detta RAGIONE_SOCIALE, pari a euro 254.000,00, subordinatamente al verificarsi dell’evenienza di cui sopra. La banca aveva quindi aderito al piano di risanamento attestato e il 13 novembre 2009 NOME e NOME COGNOME avevano comunicato alla banca che si erano avverate entrambe le condizioni cui era subordinato l’accordo di espromissione.
Il Tribunale di Milano, nella decisione di primo grado, aveva ritenuto, in sintesi, che i n forza dell’accordo concluso le parti dell’espromissione avessero inteso subordinare l’efficacia di questa al perfezionamento dell’accordo di ristrutturazione dell’esposizione debitoria gravante su Car World: tale condizione, ad avviso del Giudice di prima istanza, comportava il venir meno del presupposto stesso dell ‘ espromissione, ossia il debito altrui alla cui estinzione si volevano obbligare gli attori espromittenti. Secondo il Giudice di primo grado, con
la sottoscrizione dell’accordo, infatti, la convenuta a veva rinunciato alla parte del suo credito oggetto dell’impegno di espromissione, privando, in tal modo, di causa l’espromissione stessa : questa, secondo il Giudice di prima istanza, sarebbe infatti consistita nell’ impegno volto a far fronte a un debito non più esistente.
La Corte di appello, nella sentenza n. 125 del 2019, i cui passaggi sono ripercorsi dalla pronuncia in questa sede impugnata, ha osservato: a) l’interpretazione , fatta propria dal Tribunale, dell’accordo intervenuto tra le parti, secondo cui le stesse si sarebbero accordate nel senso che l’espromissione avrebbe assunto efficacia, in quanto sospensivamente condizionata, al momento della sottoscrizione del piano attestato di risanamento -momento in cui il debito oggetto di espromissione sarebbe venuto meno -non poteva ritenersi in alcun modo ragionevole; b) tale opzione ermeneutica portava ad una conclusione paradossale, in quanto, in base ad essa, le parti si sarebbero accordate nel senso che l’obbligazione dei COGNOME, all’avverarsi della condizione, si sarebbe estinta, dato che la banca (in favore della quale l’espromissione era stata stipulata) avrebbe, in quella circostanza, rinunciato al proprio credito; c) in base a tale interpretazione il contratto di espromissione sarebbe risultato inutile in quanto privo di effetti, e ciò fin dall’inizio: al momento della stipula il contratto non sarebbe stato efficace in quanto l’espromissione avrebbe avuto efficacia solo al momento in cui la banca avesse rinunciato al proprio credito in sede di adesione all’ accordo di ristrutturazione dei debiti: una volta avveratasi la condizione sospensiva, e cioè avvenuta la rinuncia al credito in sede di accordo di ristrutturazione, il debito oggetto di accollo sarebbe divenuto poi inesistente e dunque l’espromissione sarebbe risultata priva di oggetto, oltre che di causa; d) secondo l’art. 1367 c.c., l’interpre tazione del contratto doveva essere effettuata nel senso che lo stesso possa avere un qualche effetto, anziché in quello in cui non possa averne alcuno; e) l’intento perseguito dalle parti al momento
della stipula dell ‘ accordo di espromissione era quello di consentire a Veneto Banca di ottenere l’integrale soddisfacimento del credito da essa vantato nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE: f) tale soddisfacimento integrale doveva avvenire in parte nell’ambito del piano attestato di risanamento ex art. 67 comma 3, lett. d), l. fall., a cui la banca intendeva aderire con gli altri creditori, e per la restante parte, non «riscossa» in quella sede ─ e dunque formalmente rinunciata nei confronti del debitore originario ─ , attraverso l’assunzione di tale parte del debito da parte dei COGNOME, con un atto di espromissione; g) il fatto che l’efficacia dell’espromissione fosse condizionata alla conclusione dell’accordo di ristrutturazione era circostanza del tutto coerente con lo scopo perseguito dalle parti, in quanto, se non ci fosse stata la falcidia, il credito sarebbe rimasto integralmente a carico di COGNOME; h) affermare che l’espromissione aveva ad oggetto un’obbligazione inesistente, in quanto rinunciata, era sbocco interpretativo contrario alla volontà delle parti, dovendo, per contro, ritenersi conforme agli intendimenti delle stesse la ricostruzione della fattispecie in termini di espromissione liberatoria, in quanto l’originario debitore era stato sgravato di una parte del credito, cioè della parte per la quale era subentrato l’espromittente, i) la rinuncia del creditore a pretendere il soddisfacimento integrale del suo credito nei confronti di Car World in sede di piano di risanamento si poneva, anche in questo caso, in modo del tutto coerente con il fatto che il debito si era diversamente configurato sotto un profilo soggettivo, e dunque il creditore sarebbe stato altrimenti soddisfatto.
Il senso della pronuncia del Giudice di appello è, in sintesi, il seguente: perfezionato il piano di risanamento, al venir meno della posizione debitoria della nominata società, avrebbe fatto seguito l’insorgenza dell’obbligazione dei COGNOME.
-Come è evidente, allora, la riforma della sentenza di primo grado si fonda sul significato da attribuire alla condizione apposta al
negozio di espromissione; il ribaltamento della decisione resa dal Tribunale discende, infatti, dal rilievo per cui l’evento condizionale costituito dalla rinuncia era da riferire al diritto di esigere la prestazione da RAGIONE_SOCIALE, non al diritto di credito nella sua assolutezza: diritto di credito che invece sopravviveva proprio in forza dell’ espromissione liberatoria.
Rispetto a tale ricostruzione il Giudice della revocazione non ha individuato alcun errore revocatorio munito di decisività. La Corte di appello ha infatti osservato che «non ha, di per sé, alcuna rilevanza nella motivazione della sentenza e quindi nella decisione assunta» l’e rrore di fatto denunciato, basato sul rilievo per cui il pagamento «in ristrutturazione del debito» era avvenuto rispetto al 70% del credito originario, attraverso la consegna di strumenti partecipativi consistenti nel 100% delle partecipazioni della società RAGIONE_SOCIALE
Nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, verificato l’errore di fatto (sostanziale o processuale) esposto ai sensi del n. 4 dell’art. 395 c.p.c., deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, operando un ragionamento di tipo controfattuale che, sostituita mentalmente l’affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa; ove, poi, tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti, in tal modo, priva della sua base logico-giuridica, il giudice deve procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell’effettuato emendamento (Cass. 23 aprile 2020, n. 8051; Cass. 24 marzo 2014, n. 6881). In altri termini, il nesso causale tra errore di fatto e decisione, nel cui accertamento si sostanzia la valutazione di essenzialità e decisività dell’errore revocatorio, è rappresentato da un nesso di causalità di carattere logico-giuridico: si tratta infatti di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità logico-giuridica (Cass. 29 marzo 2016, n.
6038; Cass. 18 febbraio 2009, n. 3935).
Ora, il giudizio sulla decisività dell’errore costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione, non inficiata da vizi logici e da errori di diritto (Cass. 18 febbraio 2009, n. 3935; Cass. 29 novembre 2006, n. 25376).
La sentenza impugnata non prospetta, poi, alcun errore di diritto con riguardo al giudizio sulla decisività.
7. -Tanto esaurisce la trattazione del primo motivo, in quanto le ulteriori deduzioni svolte, oltre ad essere scarsamente comprensibili, non possono avere ingresso in questa sede: la Corte di merito ha affrontato il tema della revocabilità avendo riguardo al solo profilo su cui ci si è soffermati, mentre con riguardo ad altre questioni non è stato lamentato il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.; tale vizio postula, del resto, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto nei quali l’una o l’altra erano state proposte (Cass. 14 ottobre 2021, n. 28072; Cass. 4 luglio 2014, n. 15367): ebbene, la proposta impugnazione non fornisce puntuali ragguagli a questo riguardo.
8 . ─ Né può dirsi – e si viene al secondo motivo – che la pronuncia impugnata sia affetta da un vizio motivazionale a norma dell’art. 360, n. 4 c.p.c.; va qui rammentato che il provvedimento del Giudice della revocazione è motivato, che la motivazione risulta essere pienamente comprensibile e che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante: anomalia che si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella
«motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 3 marzo 2022, n. 7090; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598).
9. -Il secondo mezzo prospetta pure il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., ma non reca indicazione del fatto decisivo che la Corte territoriale avrebbe mancato di esaminare. Ed è da rimarcare che l’art. 360, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia): ragion per cui, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, n. 6, e 369, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività» (citt. Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054).
Il motivo è quindi nel complesso da respingere.
10 . ─ Il terzo mezzo è inammissibile.
L’art. 288 c.p.c., nel disporre che le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione, appresta uno specifico mezzo di impugnazione, che esclude l’impugnabilità per altra via del provvedimento in base al disposto dell’art. 177, comma 3, n. 3, c.p.c., a tenore del quale non sono modificabili né revocabili le ordinanze per le quali la legge prevede uno
speciale mezzo di reclamo. Pertanto, il principio di assoluta non impugnabilità di tale ordinanza, neppure col ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost., vale anche per quella di rigetto, in quanto il provvedimento comunque reso sull’istanza di correzione di una sentenza all’esito del procedimento regolato dall’art. 288 c.p.c. è sempre privo di natura decisoria, costituendo mera determinazione di natura amministrativa non incidente sui diritti sostanziali e processuali delle parti, poiché funzionale all’eventuale eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo che non può toccare il contenuto concettuale della decisione; per questa ragione resta impugnabile, con lo specifico mezzo di volta in volta previsto, solo la sentenza corretta, proprio al fine di verificare se, tramite il surrettizio ricorso al procedimento in esame per incidere, inammissibilmente, su errori di giudizio, sia stato violato il giudicato ormai formatosi (Cass. 26 luglio 2019, n. 20309; Cass. 27 febbraio 2019, n. 5733) .
11 . ─ Il ricorso è respinto.
12 . ─ Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione