Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 7908 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 7908 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7366/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente del C.d.A. e RAGIONE_SOCIALE rappresentante, NOME COGNOME, quale incorporante di RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME E NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e RAGIONE_SOCIALE rappresentante p.t., NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
-controricorrente-
e sul ricorso incidentale condizionato proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e RAGIONE_SOCIALE rappresentante p.t., NOME, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
-ricorrente incidentale- contro
RAGIONE_SOCIALE;
-intimata- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 2586/2021 depositata il 07/09/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/03/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
RAGIONE_SOCIALE, appartenente al gruppo RAGIONE_SOCIALE, conveniva davanti al Tribunale di Milano RAGIONE_SOCIALE, successivamente incorporata in RAGIONE_SOCIALE, perché fosse accertata e dichiarata l’illegittimità della risoluzione del contratto di franchising stipulato inter partes in data 01/10/2007, dichiarata da RAGIONE_SOCIALE con comunicazione dell’08/01/2015, e fosse accertato, invece, l’inadempimento di non scarsa
importanza di RAGIONE_SOCIALE delle obbligazioni scaturenti dai contratto di franchising , e, per l’effetto, accertare e dichiarare che il contratto si era risolto ex art. 1453 cod.civ. per fatto e colpa di RAGIONE_SOCIALE, con conseguente condanna di quest’ultima a pagare, a titolo di risarcimento del danno da lucro cessante, la somma di euro 893.344,00, oltre agli interessi dalla data della domanda fino al saldo, e, a titolo di risarcimento del danno emergente, la somma da determinare in corso di causa, all’esito di apposita espletanda CTU, o, in subordine, la somma da liquidare ex art. 1226 cod.civ.
A tal fine, NOME deduceva che:
nel corso degli ultimi mesi del 2014, nell’ambito di un’importante operazione commerciale di espansione della propria rete di punti vendita sul territorio, aveva acquistato 53 supermercati ex marchio RAGIONE_SOCIALE dislocati nel nord Italia, inclusi due punti vendita siti nei Comuni di Gorgonzola e di Bellusco;
dopo alcune iniziali trattative, intercorse con il RAGIONE_SOCIALE rappresentante di RAGIONE_SOCIALE, aveva deciso di gestire direttamene i nuovi punti vendita;
RAGIONE_SOCIALE aveva contestato tale determinazione, in ragione delle conseguenze dannose che detta apertura le avrebbe causato, e denunciato lo svolgimento di atti di asserita concorrenza sleale nonché l’irreparabile lesione del rapporto fiduciario tra franchisor e franchisee , comunicandole, in data 8/01/2015, il venir meno del contratto, per nullità o per annullamento o per intervenuta risoluzione per inadempimento a far data dal 16/01/2015;
qualche giorno dopo ComRAGIONE_SOCIALETur aveva pubblicizzato il passaggio al marchio Conad, sicché era stata costretta ad agire con ricorso ex art. 700 cod.proc.civ., rigettato al pari del relativo reclamo, e poi a promuovere il giudizio per cui è causa.
RAGIONE_SOCIALE, costituitasi, rilevava che i rapporti di franchising tra RAGIONE_SOCIALE e le società del RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE, quest’ultime, oggi, incorporate in RAGIONE_SOCIALE) erano avvinti da un collegamento negoziale, sicché alla cessazione del rapporto tra GS ed una delle società del gruppo sarebbe venuto meno anche il rapporto tra GS e le altre società; chiedeva l’accertamento della legittima risoluzione del rapporto di franchising , ai sensi dell’art. 1456 cod. civ., allegando la violazione di specifiche clausole contenute nei contratti sottoscritti in data 1 ottobre 2007 (3.1.2., 3.2.4., 3.2.5., 3.2.6., 3.3.1) e del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, evidenziando che le condotte dell’attrice avevano assunto una gravità tale da minare in radice il rapporto fiduciario alla base del contratto di franchising ; in subordine, chiedeva che il contratto venisse giudizialmente risolto e, in ulteriore subordine, che il contratto -se interpretato secondo la lettura datane da GS -fosse dichiarato parzialmente ovvero integralmente nullo, ‘per una mancanza di causa e/o per abuso di dipendenza economica e/o di posizione dominante’, e , in aggiunta, domandava l’accertamento della illegittimità della condotta osservata da GS, sia ai sensi dell’art. 2598, nn. 2 e 3 cod. civ., sia ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., con conseguente condanna al risarcimento del danno patito.
Con sentenza n. 7767/2019, il Tribunale di Milano, accertato il legittimo esercizio da parte di Com-Tur della clausola risolutiva espressa, rigettava le domande formulate da parte attrice e le domande riconvenzionali della convenuta.
La Corte di Appello di Milano, in accoglimento dell’impugnazione di GS, con la sentenza n. 2586/2021, depositata il 07/09/2021, ha escluso la sussistenza dei presupposti per riconoscere l’intervenuta risoluzione del contratto, ex art. 1456 cod. civ., perché: i) le espressioni utilizzate nella comunicazione dell’8 gennaio 2015 non esprimevano una inequivoca volontà solutoria; ii) l’art. 14.1 del contratto prevedeva solo a favore del franchisor la facoltà di avvalersi della risoluzione di diritto; iii) la richiesta di risoluzione
non era comunque giustificata dall’inadempimento della controparte ad alcuno degli obblighi di cui all’art. 3; iv) alla risoluzione di diritto del contratto non poteva addivenirsi adducendo la violazione del generale canone della buona fede, come aveva ritenuto il Tribunale, atteso che la clausola risolutiva espressa può essere azionata solo in presenza di specifici inadempimenti, sicché il richiamo alla violazione della buona fede negoziale era da ritenere strutturalmente incompatibile con la possibilità di realizzare la fattispecie di risoluzione stragiudiziale e di diritto del contratto di cui all’art. 1456 cod.civ.; ha ritenuto infondata anche la domanda di risoluzione giudiziale del contratto proposta da RAGIONE_SOCIALE in via subordinata, escludendo che, non essendo previsto un patto di esclusiva, l’apertura di due punti vendita nella stessa piazza commerciale di RAGIONE_SOCIALE, violasse quel ‘pur minimo grado di protezione territoriale’ dovuto all’affiliato, come, invece, aveva ritenuto il giudice di prime cure, in quanto al franchisor era consentito non solo di stipulare altri contratti di franchising , ma anche di svolgere direttamente la medesima attività nello stesso territorio in cui opera l’affiliato, né rappresentava un comportamento contrario a buona fede, atteso che i due punti vendita ex RAGIONE_SOCIALE oggetto della nuova apertura da parte di RAGIONE_SOCIALE sotto la nuova insegna RAGIONE_SOCIALE erano già esistenti sul territorio sotto la precedente insegna RAGIONE_SOCIALE e, quindi, costituivano realtà commerciali già operanti in concorrenza con i punti vendita di RAGIONE_SOCIALE e con i quali questa era già abituata a confrontarsi; ha reputato che RAGIONE_SOCIALE non fosse gravata da alcun obbligo di approvvigionamento presso RAGIONE_SOCIALE per una quota minima del proprio fabbisogno, potendo maturare il diritto al riconoscimento di uno sconto, ritenuto di vitale importanza dall’appellata, a prescindere dall’entità dei quantitativi di merce acquistata; ha ritenuto che il fatto che in occasione delle campagne promozionali riservate in via esclusiva ai punti vendita di nuova
apertura avesse praticato degli sconti costituiva una deroga legittima alla regola, di carattere generale, secondo cui deve ritenersi conforme a buona fede il fatto che, in un contratto di franchising senza esclusiva territoriale, l’affiliante abbia a riservare a tutti gli affiliati in concorrenza nella medesima area (quindi, a maggior ragione, anche a sé stesso nel caso di gestione diretta) le medesime condizioni negoziali; ha escluso che l’affiliato fosse obbligato a praticare prezzi imposti, non solo perché non era previsto dal contratto, ma anche perché la circostanza era stata confermata dalle prove testimoniali raccolte; ha ritenuto fondata, invece, la contrapposta domanda di risoluzione contrattuale azionata dall’appellante NOME per essersi Com -Tur resa totalmente inadempiente al contratto dal quale aveva inteso svincolarsi con la lettera del 8/1/2015, cui era seguito il passaggio dei propri punti vendita al gruppo concorrente RAGIONE_SOCIALE, ed ha accolto la domanda risarcitoria di GS limitatamente al danno emergente che ha liquidato nella misura di euro 750.000,00.
RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione di detta sentenza, formulando sei motivi.
RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, basato su due motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1456, 2° comma, e 1362 e ss. cod. civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
La Corte di Appello avrebbe errato nel rigettare la domanda di accertamento della intervenuta risoluzione di diritto del contratto e x art. 1456 cod. civ. in forza della comunicazione trasmessa da RAGIONE_SOCIALE l’8 gennaio 2015 (p. 7), ritenendo che detta comunicazione non fosse di per sé idonea alla produzione degli effetti invocati da RAGIONE_SOCIALE, e avrebbe sbagliato, male
interpretando le disposizioni dell’art. 3 del Contratto (‘Impegni del franchisor’), a considerare non violate le obbligazioni contemplate dalla clausola risolutiva espressa da parte di RAGIONE_SOCIALE.
In particolare, si sarebbe limitata, pur dopo aver riconosciuto che la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa (art. 1456, 2° comma, cod.civ.) può essere resa, senza necessità di formule rituali, anche in maniera implicita purché inequivocabile, ad un’analisi meramente formale della dichiarazione, facendo leva sull’assenza di un espresso richiamo al numero della clausola contrattuale o al contenuto delle obbligazioni di cui era stata contestata la violazione, senza indagare circa l’intenzione di RAGIONE_SOCIALE di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, peraltro chiaramente emersa dall’oggetto della lettera: ‘Risoluzione contratto franchising e contratti accessori’, e dalla preannunciata intenzione di voler dare corso a tutti gli obblighi conseguenti alla risoluzione ‘a far data dal 16/01/2015’, cioè, come previsto dall’art. 15.1.1., entro otto giorni dalla data di cessazione degli effetti del contratto.
Del resto, aggiunge la ricorrente, che si trattasse di una comunicazione di risoluzione non era stato contestato da parte avversa, la quale, al contrario, nella corrispondenza successiva, aveva fatto riferimento alla lettera dell’8 gennaio 2015, indicandola come ‘comunicazione di risoluzione’.
Attinta da censura, come si è detto, è la sentenza anche per aver ritenuto che la clausola risolutiva espressa fosse prevista solo nell’interesse del franchisor e non anche del franchisee (p. 13), pur riconoscendo che l’inadempimento solutoriamente rilevante avrebbe potuto essere rappresentato anche dall’inadempimento, pur parziale, di uno o più obblighi previsti agli articoli 3 (impegni del franchisor ). Se davvero solo il franchisor avesse potuto avvalersi della clausola risolutiva espressa, l’art. 3 del contratto sarebbe risultato privo di effetti.
Erronea sarebbe la decisione impugnata anche nella parte in cui ha escluso che GS abbia violato gli obblighi contrattuali sottesi alla clausola risolutiva espressa di cui all’art. 14 del Contratto: l’art. 3.1.2 lett. c del contratto (secondo cui il franchisor era tenuto a fornire al franchisee ‘il programma delle campagne per la promozione delle vendite e la valorizzazione dell’immagine della rete’) imponeva a GS di comunicare a RAGIONE_SOCIALE tutte le campagne promozionali attuate nella rete di affiliazione commerciale (ed evidentemente anche di non riservarle un trattamento diverso e peggiore di quello garantito ad altri punti vendita della medesima rete). Avviando una aggressiva e massiccia campagna promozionale a favore dei soli nuovi punti vendita da essa direttamente gestiti, situati nella stessa zona, il franchisor sarebbe venuto meno a tali obblighi. Per altro verso, ai sensi dell’art. 3.2.6. e dell’art. art. 3.3.1. del contratto (in virtù dei quali, rispettivamente, il franchisor garantiva che le merci sarebbero state le stesse egualmente fornite agli altri punti vendita della rete commerciale nell’area in cui operava il franchisee e che avrebbe fornito il listino dei prezzi di vendita consigliati), GS era obbligata a garantire a RAGIONE_SOCIALE, non solo la stessa tipologia di merci fornite ad altri negozi della stessa zona, ma anche gli stessi prezzi di rivendita, essendo stato riconosciuto dalla stessa Corte di Appello che è contrario a buona fede che, in un contratto di franchising senza esclusiva territoriale, il franchisor non fornisca le stesse merci agli stessi prezzi e non applichi le stesse condizioni generali.
Il motivo è inammissibile.
Tutto lo sforzo confutativo della ricorrente si sostanzia in una richiesta di diverso accertamento dei fatti di causa sia in ordine all’interpretazione della previsione di cui all’art. 14.1. contenente la clausola risolutiva espressa sia in merito alla statuizione con cui la Corte territoriale ha escluso che si potessero imputare a GS
inadempimenti atti a giustificare la risoluzione di diritto del contratto.
Oltre a doversi ribadire che la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod.civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 28/11/2017, n.28319; Cass. 09/04/2021, n. 946), deve rilevarsi che alcune argomentazioni difensive neppure si correlano con la sentenza impugnata che, a differenza di quanto viene denunciato dalla ricorrente, ha tenuto in considerazione il fatto che, seppure si fosse superato il tenore letterale dell’art. 14.1. che riservava espressamente al solo franchisor la facoltà di avvalersi della clausola risolutiva espressa e si fosse riconosciuta ad entrambe le parti la facoltà di risolvere di diritto il contratto, RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato risolto di diritto il contratto senza che ricorresse alcun inadempimento da parte di RAGIONE_SOCIALE che giustificasse la risoluzione.
Il tentativo della ricorrente di dimostrare che, al contrario, gli inadempimenti denunciati erano solutoriamente rilevanti, come si è già detto, non va a segno, perché anche se è stato basato sulla asserita erronea interpretazione di alcune clausole contrattuali, si sostanzia in una surrettizia richiesta di diverso accertamento dei
fatti di causa che è inammissibile, perché incompatibile con i caratteri morfologici e funzionali del giudizio di legittimità.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1453 e 1455 cod. civ., degli artt. 2 r dell’art. 3, n. 4, lett. c, L. 129/2004, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ.
La Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che la condotta concorrenziale assunta da GS fosse conforme a correttezza e buona fede e non costituisse grave inadempimento degli obblighi contrattuali.
Altro errore imputato alla Corte d’appello è quello di aver ritenuto non integrante gli estremi dell’art. 1455 cod.civ. la violazione dell’obbligo dell’affiliante di riservare le medesime condizioni negoziali a tutti gli affiliati in concorrenza nella medesima area (quindi, a maggior ragione, a se stesso, nel caso di gestione diretta, sol perché le condotte illecite di GS sarebbero state poste in essere nell’arco di due sole settimane), perché la Corte d’appello avrebbe dovuto tener conto che l’affiliante, anche in ragione della funzione propria del contratto di franchising -che si radica principalmente su una cooperazione delle parti tale da delineare un vero e proprio partenariato commerciale – è tenuto ad organizzare la propria rete distributiva in modo da non incidere sulla posizione dei franchisee , che si trovano in una situazione di soggezione rispetto alle numerose e significative scelte commerciali di competenza del franchisor . La stessa L. 129/2004, all’art. 4 (‘Obblighi dell’affiliante’), prevede che il franchisor , in vista della stipula del contratto, sia obbligato a consegnare al potenziale franchisee diverse informazioni sulla propria rete d’affiliazione, tra cui una lista degli affiliati al momento operanti nel sistema e dei punti vendita diretti dell’affiliante oltre all’indicazione della variazione, anno per anno, del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni o dalla data di inizio dell’attività
dell’affiliante, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni. Il che confermerebbe che l’effettiva organizzazione della rete distributiva risulta un elemento centrale del tipo contrattuale, sia nel momento genetico del rapporto, sia, ovviamente, nel corso della relativa esecuzione, e che GS avrebbe potuto meglio tutelare il franchisee senza sopportare un reale sacrificio: i) riconoscendo anche al punto vendita RAGIONE_SOCIALE le medesime promozioni (‘doppio accredito di punti’ e ‘buoni sconto’), ii) evitando ribassi di prezzo almeno sui prodotti a marchio ‘RAGIONE_SOCIALE‘; iii) non pubblicizzando le nuove aperture e le relative offerte promozionali con cartelli pubblicitari affissi proprio davanti al punto vendita RAGIONE_SOCIALE; iv) agendo in maniera quantomeno coordinata con le altre affiliate della zona, così da individuare soluzioni utili ad arrecare il minimo sacrificio ad entrambe le parti.
Il motivo è infondato.
Il ragionamento della Corte d’appello è stato il seguente: all’art. 2.1 era previsto che la concessione all’affiliato della formula GS insieme, comprensiva di know -how, marchio e merci avveniva non in esclusiva, ciò escludeva che l’apertura di nuovi supermercati fosse contraria a buona fede, perché altrimenti sarebbe stata eliminata ‘qualunque differenza tra il contratto di franchising con patto di esclusiva territoriale in favore dell’affiliato e il contratto di franchising privo del patto di esclusiva, differenza ritenuta legittima proprio dalla L. 129/2004’ .
La campagna pubblicitaria a favore dei nuovi punti vendita non solo è stata ritenuta solutoriamente irrilevante, perché di durata temporalmente circoscritta, ma è stata giustificata sulla scorta delle seguenti considerazioni: l’attività posta in essere era volta a richiamare l’attenzione di una clientela già usa a misurarsi con la presenza di più punti vendita nella stessa zona, essa era ‘comprensibilmente diretta a pubblicizzare il fatto della nuova apertura’, sicché è stata considerata ‘una legittima deroga alla
regola, di carattere generale, secondo cui deve ritenersi conforme a buona fede il fatto che, in un contratto di franchising senza esclusiva territoriale, l’affiliante abbia a riservare a tutti gli affiliati in concorrenza nella medesima area le stesse condizioni negoziali, precisando che ‘l’affiliato nuovo entrato nella rete commerciale (o, comunque, il punto vendita a gestione diretta aperto ex novo), proprio per il fatto di doversi inserire in un tessuto commerciale preesistente, in cui sono attivi operatori già da tempo conosciuti dalla clientela, si trova in una condizione di evidente svantaggio rispetto ai concorrenti, sì che non può essere ritenuto contrario a buona fede il fatto che l’affiliante riservi a tale nuovo punto vendita, per un periodo temporale ragionevolmente limitato, attività promozionali non concesse ai punti vendita già operativi da tempo’.
Di qui l’inconferenza del rilievo che la ricorrente attribuisce al fatto che non si fosse trattato di un inadempimento protrattosi per due settimane; quanto all’inadempimento di altri obblighi imputati all’affiliante, la loro deduzione che, peraltro, sembrerebbe formulata per la prima vota in questa sede – costituisce un ennesimo inammissibile tentativo di ottenere un riesame nel merito dei fatti accertati dalla Corte territoriale.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (vizio di ultrapetizione) e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 4 e n. 5, cod.proc.civ.
La Corte di Appello avrebbe escluso la sussistenza di un grave inadempimento da parte di GS, sull’erroneo presupposto che le condotte inadempienti si fossero concluse dopo un periodo di tempo di sole due settimane (p. 19), omettendo di valutare una pluralità di altri comportamenti inadempienti protrattisi nel tempo e pretermettendo l’esame di una serie di documenti che se esaminati
avrebbero dimostrato che GS aveva praticato prezzi più bassi e ideato campagne promozionali per i suoi due negozi per un periodo molto più lungo delle (sole) due settimane considerate dal giudice a quo.
Anche questo motivo, in parte riproduttivo delle stesse censure formulate con quello precedente, risulta direttamente fattuale, nel senso che si limita a ricostruzioni alternative sul piano del merito e come tale non può essere accolto.
Con il quarto motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (vizio di infrapetizione) e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4 e n. 5, cod.proc.civ.
La Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la presenza di un regime di prezzi imposti di fatto (anche se non formalmente) da GS a RAGIONE_SOCIALE (p. 22), limitandosi a rilevare che l’art. 3.3.1 del contratto escludeva che l’affiliato fosse obbligato ad applicare prezzi imposti dall’affiliante, prevedendosi solamente che ‘il franchisor fornisce al franchisee il listino dei prezzi di vendita al consumatore consigliati ed i relativi aggiornamenti, frutto di studi e di analisi di mercato’ (p. 19), senza considerare che tra i prodotti a prezzi ribassati ve ne erano numerosi a marchio RAGIONE_SOCIALE, sui quali le affiliate erano obbligato ad attenersi alle indicazioni di prezzo del franchisor , e che era impossibile discostarsi dai prezzi, seppur consigliati e non imposti, da GS, perché: i) in sistema informatico attraverso il quale venivano trasmessi i prezzi consigliati alle affiliate, veniva gestito da GS; ii) GS inseriva quotidianamente e nottetempo variazioni dei prezzi consigliati e di quelli imposti; iii) era impossibile per i vari franchisees verificare, tramite il sistema gestionale GS, i prezzi praticati dagli altri affiliati.
La Corte d’appello non si sarebbe pronunciata sulle eccezioni in tal senso formulate e, in violazione dell’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ., avrebbe comunque omesso di prendere posizione
rispetto a fatti decisivi della controversia e discussi tra le parti, avuto riguardo ai ‘fatti storici’ che rendevano i prezzi (formalmente) consigliati da GS dei veri e proprio prezzi (de facto) imposti.
Il motivo va complessivamente disatteso.
Alla Corte d’appello si addebita la violazione dell’art. 112 cod.proc.civ. per avere omesso di considerare o di valorizzare una serie di fatti; il che, però, non integra gli estremi della omessa pronuncia; sempre che la denuncia sia articolata nel rigoroso rispetto dei criteri di cui agli artt. 366 e 369 cod.proc.civ., essa potrebbe ricondursi alla violazione dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ. qualora uno o più dei predetti fatti integrino direttamente elementi costitutivi della fattispecie astratta e dunque per violazione della norma sostanziale oppure all’art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ. per omesso esame di una o più di tali circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata;
Ora, escluso che al giudice a quo sia imputato il fatto di non avere valutato fatti costitutivi di una fattispecie astratta, l’ ubi consistam delle doglianze della ricorrente si risole in una evidente prospettazione di rilettura del merito in senso diverso rispetto a quanto opinato dalla Corte territoriale, come tale inammissibile; anche la denuncia ex art. 360, 1° comma, n. 5, cod.proc.civ. non merita accoglimento; non sono fatti rilevanti, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.:
le argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015);
il) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014);
iii) una moltitudine di fatti e circostanze, o il ‘vario insieme dei materiali di causa’ (cfr. Cass. n. 21439 del 2015);
iv) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della ‘domanda’ in sede di gravame (Cass. 25/09/2018, n. 22786).
5) Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., per avere la Corte di Appello escluso che vi fosse l’obbligo in capo a RAGIONE_SOCIALE di rifornirsi per almeno il 60% da GS (p. 25), essendo la relativa pattuizione derogabile dall’affiliato. Sarebbe giunta a tale conclusione sulla scorta di una lettura meramente testuale di due clausole del regolamento contrattuale, in manifesta violazione degli artt. 1362 e 1367 cod. civ.
Anche in questo caso la ricorrente oppone una propria interpretazione della previsione contrattuale diversa da quella della Corte d’appello, senza indicare in che modo sarebbero stati violati i canoni ermeneutici denunciati (cfr. supra , sub § 1).
Peraltro, la censura è dedotta senza alcun confronto con la sentenza impugnata quanto agli elementi esaminati per ritenere che non fosse stato pattuito l’obbligo qui denunciato.
6) Con il sesto motivo la ricorrente censura la violazione degli artt. 112, 115, 132 cod. proc. civ. e 111 Cost., ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ., per avere la Corte di appello erroneamente quantificato il risarcimento del danno in favore di GS fondando la propria decisione su circostanze non provate dalle parti ed in violazione dell’art. 1226 cod. civ. (p. 27).
Il vizio della sentenza consisterebbe nell’aver determinato il lucro cessante muovendo dal fatto che il guadagno medio sui ricavi procurati da RAGIONE_SOCIALE fosse pari al 9,77%; detta percentuale non
sarebbe stata allegata da controparte che nel proprio atto di citazione dinanzi al Tribunale si era limitata ad asserire che ‘al valore così individuato è stata applicata la percentuale del 9,77% media, per il periodo 2012-2014, del margine lordo di guadagno sul ricavo, come risultante dai bilanci di GS’ (doc. 1, All, D, p. 23; 32), fornendo dunque un’allegazione del tutto generica e rinviando irritualmente -al fine di colmare tale genericità – al contenuto di un documento che non sarebbe stato neanche individuato tra quelli versati in atti (e nemmeno avrebbe potuto, atteso che il proprio bilancio non era neanche stato depositato da GS)’.
La Corte d’appello avrebbe altresì fatto riferimento ad una presunta non contestazione di RAGIONE_SOCIALE rispetto ‘al doc. 28 appellante’; fa rilevare la ricorrente che la contestazione riguarda fatti e non documenti e precisa di avere, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, contestato sia in primo grado che in appello la quantificazione dei danni pretesi dalla controparte.
Infine, contesta l’abbattimento della liquidazione in via equitativa, non avendo la Corte d’appello dato conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno degli elementi presi in considerazione, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentirne il sindacato.
Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha liquidato equitativamente il danno, muovendo da alcuni dati, tra cui quello della percentuale di guadagno medio sui ricavi procurati da RAGIONE_SOCIALE; tanto basta a privare di rilievo le contestazioni mosse dalla ricorrente all’impiego di questo parametro.
Né meritano accoglimento le censure mosse al giudice a quo per le modalità di determinazione del danno in via equitativa.
La ratio della valutazione equitativa, una volta che la prova del danno sia stata raggiunta, e, in mancanza degli elementi necessari
per procedere ad una sua puntuale quantificazione, è quella di rimettere al potere-dovere del giudice di sopperire alle eventuali difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria (Cass. 06/04/2017, n. 8920) e la ricerca di una omogeneità tra risarcimento accordato e danno risentito. È proprio quanto ha fatto il giudice a quo: si è servito dei parametri di riferimento che gli erano stati messi a disposizione dall’istante ed ha determinato il danno in misura inferiore , tenendo conto ‘del fatto che, da un lato, in assenza di uno specifico obbligo contrattuale e in assenza di una qualunque prova in ordine all’andamento generale del mercato nel settore in cui operava RAGIONE_SOCIALE, non può ritenersi certo che questa avrebbe continuato ad acquistare merce da GS fino al 30/9/2017 nella stessa misura degli ultimi tre anni precedenti la risoluzione; dall’altro lato, del fatto che, come evidenziato dall’appellata, si deve anche considerare che, a fronte dei ricavi derivanti dalla vendita della merce, avrebbero dovuto essere detratti non solo i costi della stessa ma anche tutti gli altri costi, anche generali, che sarebbero stati sopportati da RAGIONE_SOCIALE qualora il rapporto di franchising con RAGIONE_SOCIALE avesse continuato ad essere efficace (come, ad esempio, i costi per i servizi prestati dal franchisor in favore del franchisee, i costi per la movimentazione e consegna della merce, i costi amministrativi inerenti il rapporto)’.
Tanto assorbe le ulteriori censure -ad esempio quella con cui è stata denunciata l’erronea applicazione del principio di non contestazione -.
Per le ragioni esposte il ricorso principale va rigettato.
Ricorso incidentale condizionato
8) Con il primo motivo, ex art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ., dell’art. 2729 cod.civ. e dell’art. 3 della l. n. 129/2004.
La sentenza sarebbe erronea nella parte in cui ha affermato l’esistenza di un preteso rapporto di concorrenza tra i punti vendita gestiti da RAGIONE_SOCIALE e i punti vendita ex RAGIONE_SOCIALE gestiti da RAGIONE_SOCIALE, perché non troverebbe riscontro nelle emergenze istruttorie che i punti vendita e x RAGIONE_SOCIALE si trovassero a modesta distanza; detta circostanza, cioè che la distanza era di 1,3 Km e quindi notevole, era stata ritualmente contestata e se la Corte d’appello ne avesse tenuto conto avrebbe dovuto escludere la possibilità di interferenza tra i rispettivi bacini d’utenza; a tale conclusione cioè che vi fosse una possibile concorrenza -il giudice a quo sarebbe giunto erroneamente, senza analizzare la conformazione e l’estensione del mercato geografico di riferimento.
Con il secondo motivo, in riferimento all’art. 360, 1° comma, n. 4 e n. 5, cod.proc.civ., è denunciata la nullità della sentenza per motivazione meramente apparente e contraddittoria, in violazione dell’art. 132 cod.proc.civ.
La Corte d’appello avrebbe ritenuto sussistente un rapporto di oggettiva concorrenza, pur dando atto che il contratto di franchising non prevedeva il patto di esclusiva, di qui l’intrinseca contraddizione della motivazione che ha negato la ricorrenza di un diritto di esclusiva territoriale a favore di RAGIONE_SOCIALE, ma al tempo stesso ha ritenuto che RAGIONE_SOCIALE avesse posto in essere attività di concorrenza, pur ritenuta legittima, nei confronti di RAGIONE_SOCIALE.
Dato il rigetto del ricorso principale, quello incidentale condizionato è assorbito.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente,
liquidandole in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile