Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 34487 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 34487 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23763/2020 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona dell’amministratore unico NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso,
-ricorrente-
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO OSTIAINDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende per procura in calce al controricorso,
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n.308/2020, depositata il 16.1.2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12.12.2024
dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 5.10.2005 la società di mediazione immobiliare, RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma COGNOME NOME, esponendo che il 16.11.2004 la convenuta le aveva conferito l’incarico scritto di vendere un terreno di sua proprietà, sito in Roma, INDIRIZZO al prezzo di €215.000,00; che il 25.2.2005, come emergente dalla postilla in calce all’incarico, era stata autorizzata a ribassare il prezzo di vendita ad € 100.000,00, in quanto sul terreno c’era un fabbricato abusivo, per il quale la COGNOME non aveva presentato richiesta di concessione in sanatoria, il che rendeva difficoltosa la vendita del terreno edificato; che il 21.4.2005, grazie all’attività di mediazione svolta dalla RAGIONE_SOCIALE era stata formalizzata una proposta irrevocabile di acquisto del terreno al prezzo di € 110.000,00 da parte di COGNOME NOME, proposta subordinata alla verifica che il fondo rientrasse in zona di recupero urbanistico; che con raccomandata a.r. del 26.5.2005 la COGNOME aveva informato la RAGIONE_SOCIALE, che non disponendo di altre offerte comparabili, non intendeva accettare la proposta di acquisto del Biancolini, che poi il 31.5.2005 aveva comunicato di avere rinunciato alla condizione inizialmente apposta alla sua proposta di acquisto.
Ritenendo che la mancata accettazione, senza alcuna reale motivazione, da parte della COGNOME, della proposta di acquisto del COGNOME, conforme all’incarico di vendita conferitole, costituisse
inadempimento contrattuale della COGNOME, la RAGIONE_SOCIALE ne chiedeva la condanna al pagamento della penale di € 10.750,00, o in subordine di € 5.000,00, in considerazione della concordata riduzione del prezzo di vendita richiesto, sulla base del punto 7 lettera b) dell’incarico, oltre al rimborso delle spese sostenute per l’attività d’intermediazione svolta, pari ad € 296.80, oltre interessi dalla messa in mora al saldo, ed al maggior danno che sarebbe emerso dall’attività istruttoria.
In particolare l’art. 7 lettera b) dell’incarico di mediazione immobiliare stabiliva che ‘ il compenso pattuito, salvo comunque l’integrale diritto al risarcimento del danno, vi sarà ugualmente dovuto nei seguenti casi:…b) nel caso che il sottoscritto, o altro soggetto avente diritti sull’immobile non accettasse la proposta di acquisto redatta conformemente all’incarico conferito (…) A norma dell’art. 1756 c.c. scaduto l’incarico, in caso di mancata vendita, nulla Vi sarà dovuto ad eccezione del rimborso delle spese, autorizzate e documentate da Voi sostenute per mio conto’.
Si costituiva in primo grado la COGNOME che per quanto ancora rileva, chiedeva il rigetto delle domande della RAGIONE_SOCIALE, sostenendo che la proposta di acquisto irrevocabile del COGNOME non era conforme all’incarico di vendita che aveva conferito a quella società.
Dopo l’interrogatorio libero e formale delle parti e l’assunzione delle prove testimoniali, la COGNOME nella comparsa conclusionale, eccepiva per la prima volta l’abusività della clausola dell’art. 7 lettera b) dell’incarico rispetto al Codice del Consumo, e la conseguente vessatorietà.
Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 1070/2013 del 21.1.2013, rilevata d’ufficio la nullità per vessatorietà della suddetta clausola, perché equiparando la penale spettante in caso di mancata accettazione di una proposta di acquisto formalizzata, alla provvigione che competeva in caso di conclusione dell’affare, aveva
determinato un sostanziale squilibrio dei diritti ed obblighi delle parti in danno del consumatore in violazione degli articoli 33 e seguenti del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206 del 2005), respingeva le domande di pagamento della penale e di risarcimento danni, condannava la COGNOME al solo pagamento delle spese sostenute dalla RAGIONE_SOCIALE per l’attività d’intermediazione svolta, pari ad € 296,80 oltre interessi legali dalla domanda al saldo, e condannava la RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 280,00 per spese vive ed € 2.360,00 per compensi, oltre accessori.
La sentenza di primo grado veniva appellata dalla RAGIONE_SOCIALE, che lamentava in via preliminare la nullità della sentenza del Tribunale di Roma, perché aveva rilevato d’ufficio la nullità per vessatorietà della clausola relativa alla penale, che la COGNOME aveva eccepito solo in comparsa conclusionale, senza sottoporla preventivamente al contraddittorio delle parti, per consentire loro di modificare le proprie domande ed eccezioni e le proprie richieste istruttorie, al fine di dimostrare il difetto di abusività della clausola. Nel merito, la parte appellante sosteneva, che la clausola della penale doveva ritenersi valida, in quanto la COGNOME aveva rifiutato la proposta di acquisto del Biancolini senza motivo, riproponeva le domande già avanzate e non accolte, e chiedeva la condanna della controparte alla restituzione della somma di €3.249,82, che le aveva pagato in esecuzione della sentenza di primo grado, nonché al pagamento delle spese processuali del doppio grado.
La Corte d’Appello di Roma, nella resistenza della COGNOME, dichiarava la nullità della sentenza di primo grado, per avere rilevato d’ufficio la questione della vessatorietà della clausola penale senza sottoporla al preventivo contraddittorio delle parti e quindi violando il diritto di difesa (in tal senso, non essendo ancora vigente l’art. 101 comma 2° c.p.c., ha richiamato l’orientamento
consolidato della Suprema Corte espresso nelle sentenze n.11.928/2012; n. 14637/2001; n. 15194/2008 e n. 16577/2005), ma avendo ormai le parti compiutamente esercitato il proprio diritto di difesa, lasciando peraltro inalterato il quadro probatorio, dichiarava l’abusività della clausola penale dell’art. 7 lettera b) dell’incarico di mediazione immobiliare, inserita nel modulo unilateralmente predisposto dalla RAGIONE_SOCIALE, in relazione all’art. 1469 bis c.p.c., ratione temporis vigente (poi sostituito dall’art. 33 del Codice del Consumo), in quanto nell’attribuire alla professionista RAGIONE_SOCIALE, in caso di recesso ingiustificato della consumatrice COGNOME, lo stesso importo della provvigione che sarebbe spettato in caso di conclusione dell’affare, non aveva fatto alcun riferimento alla corrispettività di tale importo rispetto alle attività d’intermediazione effettivamente svolte prima del rifiuto ingiustificato della COGNOME, risultando quindi l’importo previsto per il recesso ingiustificato, contrario all’equilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti contrattuali e manifestamente eccessivo. Il giudice di secondo grado nulla disponeva sulla domanda di restituzione avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE e condannava quest’ultima al pagamento delle spese processuali del doppio grado, liquidandole in € 2.640,00 di cui € 280,00 per esborsi, oltre accessori per il giudizio di primo grado, ed in € 3.777,00 per compensi, oltre accessori per il giudizio di secondo grado, e con successiva ordinanza, su richiesta della COGNOME, veniva disposta la correzione della pronuncia sulle spese perché era stata omessa la distrazione a favore del legale antistatario, mentre veniva disattesa la richiesta della RAGIONE_SOCIALE di disporre, tramite correzione, la restituzione della somma da essa pagata alla COGNOME in esecuzione della sentenza di primo grado, chiarendo che la condanna alle spese del doppio grado era stata pronunciata, in quanto la condanna alle spese processuali di primo grado era
stata travolta dalla dichiarata nullità della sentenza del Tribunale di Roma n. 1070/2013 del 21.1.2013.
Avverso tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso a questa Corte la RAGIONE_SOCIALE affidandosi a quattro motivi, ed ha resistito con controricorso COGNOME NOME
Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Col primo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia della Corte d’Appello sulla sua richiesta (vedi pagina 14 dell’atto di appello e punto 4 delle conclusioni dello stesso) di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado alla COGNOME, ammontanti a complessivi €3.249,82, oltre interessi dalla data della corresponsione, somme che a seguito della riforma per nullità della sentenza del Tribunale di Roma n.1070/2013 non erano più dovute, tanto più che a seguito della caducazione del titolo giudiziale in base al quale erano state corrisposte, la Corte d’Appello aveva proceduto a condannare la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore della COGNOME anche delle spese processuali del giudizio di primo grado, determinando così in favore della COGNOME una duplicazione di titoli per la stessa causale.
Il primo motivo é fondato e merita accoglimento, in quanto l’impugnata sentenza, ancorché la RAGIONE_SOCIALE, alla pagina 14 dell’atto di appello ed al n.4 delle conclusioni formulate in quell’atto, avesse chiesto di condannare COGNOME NOMEalla restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado, determinate nel complessivo importo di € 3.249,82, oltre interessi dalla data della corresponsione ‘, ha omesso di pronunciarsi su tale domanda, in violazione dell’art. 112 c.p.c., pur
avendo dichiarato, come richiesto dall’appellante, la nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa. Non é del resto sostenibile che la Corte d’Appello abbia inteso implicitamente negare il diritto della RAGIONE_SOCIALE alla restituzione della somma di € 3.249,82, pagata per le spese processuali del giudizio di primo grado ed accessori, in esecuzione provvisoria della sentenza del Tribunale di Roma n. 1070/2013, dichiarata nulla, in quanto nel merito ha confermato (sia pure applicando l’art. 1469 bis cod. civ. e non gli articoli 33 e ss. del Codice del Consumo) l’abusività della clausola penale dell’art. 7 lettera b) dell’incarico di mediazione immobiliare già ritenuta dal giudice di primo grado, posto che traendo le conseguenze della caducazione della sentenza del Tribunale sopra citata per violazione del diritto di difesa e del principio del giusto processo, ha provveduto a condannare la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di COGNOME NOME delle spese processuali di primo grado (liquidate nello stesso importo già riconosciuto in prime cure) e di secondo grado, non potendosi poi ipotizzare una doppia identica liquidazione di spese processuali per il giudizio di primo grado a favore della COGNOME ed a carico della RAGIONE_SOCIALE
Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, ” In relazione alla domanda -proposta nella fase di gravame- di restituzione delle somme versate in esecuzione della sentenza di primo grado impugnata, il giudice di appello opera quale giudice di primo grado, in quanto detta domanda non poteva essere formulata precedentemente; ne consegue che, se il giudice dell’impugnazione omette di pronunziarsi sul punto, la parte può alternativamente far valere l’omessa pronunzia con ricorso in cassazione o riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che la mancata impugnazione della sentenza determini la formazione del giudicato’ (Cass. 4.12.2024 n. 31059; Cass. 21.8.2023 n. 24896; Cass. 24.5.2019 n. 14253), con la
conseguenza che, avendo la RAGIONE_SOCIALE optato, nella specie, per la proposizione della domanda restitutoria nell’ambito del giudizio d’impugnazione, e non per il pur possibile separato giudizio, su tale domanda la Corte d’Appello si sarebbe dovuta pronunciare.
Col secondo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 2) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1469 bis cod. civ. ratione temporis applicabile, sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe concluso per l’abusività della clausola penale, che attribuiva alla società di mediazione la stessa somma prevista come provvigione per la conclusione dell’affare in caso di ingiustificato recesso del cliente che non aveva accettato una proposta di acquisto conforme all’incarico, senza effettuare alcuna indagine sullo squilibrio ai diritti ed obblighi delle parti, come invece richiesto dalla richiamata sentenza di questa Corte n.22357 del 3.11.2010, indagine che se compiuta, avrebbe portato ad accertare che la richiesta di pagamento della penale era stata fatta nel momento conclusivo dell’attività d’intermediazione della RAGIONE_SOCIALE
Col terzo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n.3) c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 1469 bis comma 3° n. 6) cod. civ., ratione temporis applicabile, sostenendo che l’impugnata sentenza non abbia correttamente applicato i principi di diritto enunciati dalla richiamata sentenza n.22357/2010 di questa Corte, che prevedevano l’applicazione dell’art. 1469 bis comma 3° n. 6) cod. civ., sulla presunzione di vessatorietà, in caso di penale manifestamente eccessiva, nei contratti conclusi tra professionista e consumatore, solo delle clausole che attribuivano una penale pari alla provvigione per conclusione dell’affare nei casi di rifiuto della proposta di acquisto da parte del cliente, motivato da circostanze ostative a lui già note, ma non riferite, o motivato da circostanze sopravvenute alle quali il medesimo aveva dato causa.
4) Col quarto motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo, individuato nell’avvenuto espletamento da parte sua della prestazione di intermediazione prima del rifiuto ingiustificato della COGNOME di accettare la proposta irrevocabile di acquisto di COGNOME NOME, prestazione che se considerata, avrebbe portato ad escludere la manifesta eccessività della penale, e quindi la vessatorietà della relativa clausola ex art. 1469 bis comma 3 n. 6) cod. civ..
Il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, esaminabili congiuntamente perché tutti relativi alla motivazione addotta dalla Corte d’Appello ed alla sua conformità all’art. 1469 bis cod. civ., in ordine alla vessatorietà e conseguente nullità della clausola dell’art. 7 lettera b) dell’incarico di intermediazione immobiliare conferito dalla consumatrice COGNOME NOMECOGNOME contenuta nel modulo unilateralmente predisposto dalla professionista RAGIONE_SOCIALE, sono infondati e vanno respinti.
Secondo quella clausola era previsto che ‘ il compenso pattuito, salvo comunque l’integrale diritto al risarcimento del danno, vi sarà ugualmente dovuto nei seguenti casi:…b) nel caso che il sottoscritto, o altro soggetto avente diritti sull’immobile non accettasse la proposta di acquisto redatta conformemente all’incarico conferito’.
Va premesso che nel secondo motivo é stato richiamato l’art. 360 comma primo n.2) c.p.c., relativo a profili di competenza mai invocati, anziché l’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., per una mera svista, e che la sentenza impugnata ha correttamente individuato la norma applicabile nell’art. 1469 bis cod. civ., in quanto sia il conferimento dell’incarico d’intermediazione del 15.11.2004, sia la modifica dello stesso con ribasso del prezzo proposto per la vendita ad € 100.000,00 del 25.2.2005, sono intervenuti prima dell’entrata in vigore del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005).
La sentenza impugnata ha poi richiamato i principi enunciati dalla sentenza n.22357 del 3.11.2010 (di recente confermata da Cass. 11.4.2023 n. 9612) e dalla sentenza n. 7067/2002 di questa Corte. In particolare la Corte d’Appello ha ricordato, che sulla base di tale ultimo arresto, é ammissibile il patto che preveda il diritto del mediatore ad un compenso anche in caso di mancata conclusione dell’affare, purché sia collegato ad un fatto diverso dal diritto alla provvigione, che può consistere nell’avere svolto per un certo periodo di tempo una concreta attività di ricerca di terzi interessati all’acquisto, nell’aver visto revocato il proprio incarico a termine prima della scadenza del termine ad opera del cliente, o in ipotesi di mandato in esclusiva, nell’avere visto estinto l’incarico per la vendita diretta dell’immobile da parte del proprietario.
Da tali principi l’impugnata sentenza ha tratto, che il diritto del mediatore ad un compenso, per il caso di rifiuto ingiustificato del cliente di accettare una proposta di acquisto, dev’essere espressamente rapportato all’attività di ricerca fino a quel momento effettivamente svolta dal mediatore, senza preventive ed indiscriminate equiparazioni alla provvigione, spettante solo in caso di conclusione dell’affare.
La Corte d’Appello ha poi evidenziato, che in base alla sentenza n.22357/2010 di questa Corte, quando sia previsto in contratto, per il caso in cui il conferente l’incarico rifiuti anche ingiustificatamente di concludere l’affare propostogli dal mediatore atipico, un compenso identico, o vicino alla provvigione, il giudice deve stabilire se tale clausola determini uno squilibrio fra i diritti e gli obblighi delle parti e sia quindi vessatoria ai sensi dell’art. 1469 bis comma 1° cod. civ., dovendosi escludere tale squilibrio quando il compenso sia commisurato all’attività effettivamente svolta, mentre quando il rifiuto di concludere l’affare dipenda dal verificarsi di circostanze ostative delle quali il cliente aveva omesso di informare il mediatore al momento della conclusione del contratto,
o alle quali il cliente abbia dato causa successivamente, sussistendo una violazione dei doveri di buona fede e correttezza da parte del cliente, che legittima l’applicazione di una clausola penale, questa deve ritenersi soggetta al diverso apprezzamento dell’art. 1469 bis comma 3° n. 6) cod. civ., che stabilisce la presunzione di vessatorietà delle clausole che, in caso di inadempimento, prevedano il pagamento di una somma manifestamente eccessiva.
La Corte d’Appello ha quindi concluso, sia pure erroneamente richiamando l’art. 1469 comma 3° n. 6) cod. civ., per l’abusività della clausola in questione, inserita su un modulo unilateralmente predisposto dalla RAGIONE_SOCIALE, perché prevedeva l’attribuzione al mediatore atipico di un compenso pari alla provvigione spettante per la conclusione dell’affare in ipotesi di mancata accettazione della proposta di acquisto da parte del cliente, senza agganciarlo alle attività svolte dal mediatore atipico, prima del manifestarsi della causa ostativa alla conclusione del contratto riferibile al proponente.
Non é vero, quindi, che il giudice di secondo grado non abbia indagato sul fatto se la clausola in questione abbia determinato uno squilibrio tra le prestazioni e controprestazioni a carico delle parti, come richiesto dall’art. 1469 bis comma 1° cod. civ., in quanto ha desunto tale squilibrio dal fatto che attraverso la clausola penale in questione é stato posto a carico del cliente consumatore l’obbligo di corrispondere al mediatore atipico un importo pari alla provvigione, anziché inferiore, anche in caso di mancata conclusione dell’affare, pur non essendo il cliente obbligato ad accettare la proposta di acquisto, e dal fatto che tale compenso non é stato agganciato all’attività di ricerca effettivamente già svolta dal mediatore atipico prima del suo rifiuto di accettazione della proposta di acquisto, né al fatto che tale attività si sia protratta per un certo lasso temporale. La valutazione della Corte d’Appello, del resto, doveva
appuntarsi sulla clausola della cui eventuale vessatorietà si trattava, destinata a regolare una pluralità di possibili eventi differenziati, e non certo sull’attività concretamente svolta per la ricerca del cliente proponente da parte della RAGIONE_SOCIALE, né può richiedersi a questa Corte, in sede di legittimità, di rivalutare in fatto l’entità dell’attività d’intermediazione concretamente svolta dal mediatore atipico, prima del rifiuto della COGNOME di accettare la proposta di acquisto.
La stessa ricorrente ha poi ammesso che la COGNOME che inizialmente non le aveva riferito dell’abusività del fabbricato insistente sul terreno che l’aveva incaricata di vendere e della mancata richiesta di concessione in sanatoria, il 25.2.2005, le aveva poi dato corretta informazione di tali circostanze, acconsentendo ad una riduzione del prezzo di vendita dal prezzo iniziale di €215.000,00 a quello di € 100.000,00, per cui la circostanza che ha portato alla mancata accettazione della proposta di acquisto del 21.4.2005 del COGNOME, peraltro sospensivamente condizionata, da parte della COGNOME, nella successiva data del 26.5.2005, motivata dall’impossibilità di comparare tale proposta con altre offerte, non é stata determinata da circostanze taciute dalla COGNOME in mala fede, o da lei causate dopo il conferimento dell’incarico, con conseguente inapplicabilità nella specie della presunzione di vessatorietà dell’art. 1469 comma 3° n. 6) cod. civ., relativa a clausole che, in caso di inadempimento, prevedano il pagamento di una somma manifestamente eccessiva. La motivazione della sentenza impugnata ha fatto improprio richiamo, quindi, all’art. 1469 comma 3° n. 6) cod. civ., ma ha in effetti accertato che la clausola penale pattuita ha determinato uno squilibrio dei diritti ed obblighi delle parti, risultando quindi vessatoria ai sensi dell’art. 1469 bis comma 1° cod. civ..
La sentenza impugnata va quindi cassata solo in relazione all’accoglimento del primo motivo, e la Corte d’Appello di Roma, in