Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 26518 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 26518 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 11/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24455/2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE IN LIQIDAZIONE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 2469/2022 depositata il 13/07/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/05/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, ora in fallimento, ha preso in leasing un capannone industriale da RAGIONE_SOCIALE. L’immobile è stato acquistato da quest’ultima il 30 maggio 2006, per un importo di 1.650.000 €, e successivamente consegnato alla RAGIONE_SOCIALE.
Nel contratto è stata pattuita una clausola penale, all’articolo 12, con la quale si è previsto che, in caso di inadempimento della utilizzatrice, la concedente aveva diritto al pagamento dei canoni rimasti insoluti, di quelli periodici non ancora maturati, oltre che del prezzo pattuito per l’opzione di acquisto; per contro l’utilizzatore aveva diritto al prezzo netto della vendita dell’immobile di cui si incaricava la concedente.
1.2.- Nell’ottobre del 2011 la concedente, a causa del mancato pagamento di alcuni canoni, ha risolto il contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatrice e, l’anno successivo, è stato dichiarato il fallimento di quest’ultima.
1.3.- Con atto di citazione del 19 giugno 2015, il fallimento della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, ha agito in giudizio per ottenere la riduzione ad equità della clausola penale contenuta nell’articolo 12, onde renderla conforme al disposto dell’articolo 1526 del codice civile. Ciò allo scopo di ottenere la restituzione delle somme versate a titolo di canone, salva la detrazione da tali somme dell’equo compenso del risarcimento del danno spettante alla banca concedente.
In quel giudizio RAGIONE_SOCIALE San RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ha sostenuto che il leasing non era di tipo traslativo e dunque non si applicava l’articolo 1526 del codice civile, ma piuttosto l’articolo 1458 stesso codice, con conseguente diritto di trattenere le prestazioni già eseguite, ed ha inoltre eccepito che la clausola penale doveva intendersi pienamente efficace.
1.4.- Il Tribunale di Milano ha rigettato la domanda escludendo l’applicazione dell’articolo 1526 del codice civile in ragione della sopravvenuta L. n. 124 del 2017, che ha reso irrilevante la distinzione tra leasing traslativo e leasing finanziario.
1.5.- Seppure con diversa motivazione la Corte d ‘A ppello di Milano ha confermato la decisione di primo grado.
1.6.- Propone ricorso per cassazione il Fallimento della RAGIONE_SOCIALE, affidato a cinque motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE
MOTIVI DELLA DECISIONE
2.- La ratio della decisione impugnata è la seguente.
Ferma restando l’applicazione nel caso presente dell’articolo 1526 del codice civile, trattandosi di leasing traslativo risolto prima dell’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017, fermo restando ciò, è nell’autonomia delle parti di inserire nel contratto di leasing una clausola penale di predeterminazione del danno nel caso di inadempimento di una delle due.
E’ altresì nel potere del giudice di verificare se tale penale sia manifestamente eccessiva, tenendo conto della regola contenuta nell’articolo 1526 secondo comma, nel senso che la penale deve essere rispettosa dell’equilibrio contrattuale disegnato da tale norma. Nel merito, secondo l’apprezzamento dei giudici di appello, la clausola penale in questione non contrasta con il criterio previsto dal codice civile.
Questa ratio è contestata con cinque motivi.
2.1.- Con il primo motivo il ricorrente prospetta violazione degli articoli 1384 e 1526 del codice civile.
Osserva che, a seguito della decisione delle Sezioni Unite n. 2061 del 2021, al leasing traslativo risolto prima dell’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 si applica l’articolo 1526 del codice civile, anche ove è successivamente intervenuto il fallimento.
Ciò significa che la penale contenuta in quell’articolo 12 delle condizioni generali di contratto deve ritenersi in contrasto con l’articolo 1526 codice civile, con conseguente necessità di applicare la regola contenuta in quest’ultimo.
Il contrasto deriva dal fatto che la clausola penale qui pattuita ha una funzione completamente diversa, se non opposta, a quella propria dell’articolo 1526 del codice civile: quest’ultima norma mira infatti a riportare le parti nella condizione in cui si trovavano prima della risoluzione, dunque ad impedire che una delle due possa trarre un ingiustificato vantaggio dalla risoluzione, salvo il risarcimento dell’interesse negativo tipico delle risoluzioni per inadempimento. Per contro, la clausola contenuta nel predetto articolo 12 ha una funzione opposta poiché consente al concedente di ottenere vantaggi simili a quelli che sarebbero derivati dall’adempimento ed alla fine si risolve in un ingiustificato arricchimento a favore della parte adempiente.
2.2.- Il secondo motivo, che prospetta violazione dell’articolo 1453 del codice civile, è svolgimento del precedente.
Il ricorrente, infatti, censura la decisione impugnata nella parte in cui, attraverso l’applicazione della clausola, i giudici di merito hanno ritenuto di dover riconoscere al concedente, attraverso il meccanismo del risarcimento, il lucro che avrebbe realizzato se il contratto avesse avuto puntuale esecuzione.
Osserva il ricorrente che, in tal modo, si riconosce, in caso di risoluzione per inadempimento, il risarcimento dell’interesse positivo, ossia del vantaggio che la parte adempiente avrebbe
ottenuto in caso di puntuale esecuzione del contratto, quando invece è regola che, in caso di risoluzione per inadempimento, compete alla parte adempiente il risarcimento dell’interesse negativo, cioè dell’interesse a non stipulare un contratto che poi non viene adempiuto: prova ne sia la differenza tra l’azione di adempimento, che mira a procurare coattivamente il vantaggio che avrebbe dovuto essere ottenuto attraverso l’adempimento, e l’azione di risoluzione, che invece mira a rimediare alla stipula di un contratto che non è stato poi eseguito e che ha comportato per la parte adempiente spese e danni che avrebbe potuto evitare.
I motivi, che pongono una questione comune e possono essere congiuntamente esaminati, sono inondati nei termini di seguito indicati.
Non è in realtà corretto sostenere che l’articolo 1526 del codice civile è inderogabile al punto da impedire alle parti di predeterminare il danno con una clausola penale, e di farlo secondo un assetto diverso da quello previsto da tale norma, ma nella sostanza non iniquo.
Anche nei contratti ai quali si applica all’articolo 1526 secondo comma cc le parti hanno un interesse rilevante a predeterminare il danno sulla base di una clausola penale, che come ogni clausola penale, potrà essere ritenuta manifestamente eccessiva e può essere ridotta ad equità dal giudice, ma che di certo non è in astratto esclusa dalla operatività dell’articolo 1526 c.c. .
Del resto, il primo comma dell’articolo 1526 c.c. garantisce al compratore la restituzione delle rate riscosse, ma il secondo comma prevede che possa essere convenuto diversamente, salvo che ciò è convenuto non sia eccessivo, ed allora il giudice può ridurre l’ammontare di quanto trattenuto dal venditore.
Si tratta di due regole diverse: l’articolo 1526 c.c. è norma sulle restituzioni, ossia è norma che regola la sorte delle prestazioni effettuate in caso di risoluzione del contratto; la clausola penale
non è regola sulle restituzioni, ma sul danno conseguenza dell’inadempimento. Con la conseguenza che l’una non esclude l’altra, salva la valutazione in concreto della iniquità del risultato. E’ principio di diritto, infatti, che <> (Cass. 25031/ 2019).
E’ quanto il giudice di merito ha nella specie operato, valutando se la clausola penale fosse manifestamente eccessiva, tenuto conto della stessa regola dell’articolo 1526 c.c.
Né può dirsi che la clausola penale deve avere per forza ad oggetto un risarcimento contenuto nei termini dell’interesse negativo, altrimenti, già per ciò stesso, non è lecita: la distinzione tra interesse positivo e negativo vale in mancanza di un patto sul risarcimento, è una distinzione derogabile; nulla vieta che le parti, anche per il caso di risoluzione, prevedano il risarcimento del lucro cessante o del mancato guadagno, salvo ovviamente che tale previsione sia equa.
Dunque, il giudice di merito ha valutato la penale anche alla luce dell’assetto di interessi previsto dall’articolo 1526 c.c. , e con giudizio motivato e non censurabile nella presente sede di legittimità l’ha ritenuta non eccessiva, non in contrasto con la tutela che la norma offre all’utilizzatore del bene, in considerazione del fatto che, se da un lato il concedente ha diritto di tenere per sé i canoni già corrisposti oltre a quelli da corrispondere, per altro verso deve procurare al concessionario il valore del bene venduto. Con la conseguenza che è vero che a tale stregua l’utilizzatore corrisponde ammontare corrispondente quasi al l’intero ammontare
del finanziamento, va per altro verso considerato che riceve il corrispettivo del bene (arg. ex Cass. 3.3.2022, n. 10249 che ritiene ridotta ad equità la penale, laddove sia riconosciuta al concedente una somma pari al valore del bene).
L’indagine del giudice di merito è dunque rispettosa dei criteri di giudizio posti da questa Corte, ed è come detto in questa sede insindacabile nel merito ( relativamente cioè alla eccessività o meno della penale ).
2.3.-Con il terzo motivo il ricorrente prospetta violazione degli articoli 1384 e 1526 codice civile nonché degli articoli 99 e 112 del codice di procedura civile.
Si duole che la corte d’appello abbia preso in considerazione la clausola penale ( ritenendola equa ), in assenza di domanda specifica della concedente, che di deta clausola ha inteso avvalersi.
La tesi del ricorrente è che, se è vero che il giudice può ridurre d’ufficio la clausola penale, ciò può fare tuttavia purché vi sia stata da parte dell’interessato una richiesta di applicazione di tale clausola, o meglio l’intenzione di avvalersene, che invece nel caso presente non c’è stata, non avendo la concedente mai chiesto l’applicazione della penale né tantomeno il risarcimento dei danni da quest’ultima previsti.
Il motivo è infondato.
Il giudice di merito ha valutato la clausola penale perché lo stesso Fallimento ricorrente lo ha domandato.
Il tema faceva dunque parte del giudizio in via di domanda principale, a prescindere da lla questione concernente l’esercizio -anche d’ufficio – dei poteri di riduzione ad equità della medesima.
2.4.-Con il quarto motivo il ricorrente prospetta la violazione degli articoli 1366, 1375 e seguenti del codice civile.
La tesi del ricorrente è che la clausola contenuta nell’articolo 12 delle condizioni generali di contratto è nulla, ed avrebbe dovuto essere dichiarata come tale dalla Corte d’appello, per un’altra
ragione: vale a dire che essa rimette all’arbitrio della concedente la vendita del bene e la devoluzione del suo ricavato alla utilizzatrice, non essendo indicata alcuna modalità attraverso cui la vendita avrebbe dovuto avvenire, né la modalità di pagamento della parte spettante alla utilizzatrice.
Inoltre, di fatto, la banca avrebbe operato in modo scorretto vendendo il bene a circa la metà del valore di mercato o a quello a cui è stato acquistato.
Il motivo è infondato.
La clausola penale, riportata dal ricorrente a pagina 18, indica un meccanismo di vendita a garanzia del concedente: è previsto l’obbligo della banca di avvisare per iscritto l’utilizzatore circa il prezzo di vendita o circa il valore del bene, ed è previsto il diritto dell’utilizzatore di opporsi, oltre a quello di cercare entro otto giorni un diverso acquirente.
E dunque: non si può dire che la vendita è rimessa all’arbitrio della banca, né è vero che l’utilizzatrice non avrebbe mai potuto collaborare con la banca nell’attività di vendita (p. 36 del ricorso), posto che invece era pattuito che lo facesse.
Né è errata la tesi secondo cui ai fini della valutazione del bene rileva la data di riconsegna, anziché quella di vendita, essendo principio di diritto che <> (Cass. 16632/ 2023).
Né il ricorrente ha dato prova della condotta non diligente o abusiva della banca nelle operazioni di vendita.
2.6.- Con il quinto motivo il ricorrente prospetta violazione degli articoli 91 e ss. cpc
Si duole della condanna integrale alle spese, ed osserva che in realtà sul primo motivo di gravame egli è risultato in grado di appello vincitore, avendo ottenuto che l’applicazione dell’articolo 1526 c.c., negata in primo grado; lamenta altresì che, dopo la decisione di primo grado, è intervenuta la decisione delle Sezioni Unite nel senso dell ‘ applicabilità di detta norma.
Il motivo è infondato.
La soccombenza si valuta rispetto all’esito della lite, non alla fondatezza di un singolo argomento.
Sulla prima il ricorrente è soccombente, anche se ha avuto riconoscimento sulla seconda, e può naturalmente accadere, come è accaduto, che la domanda venga rigettata comunque, pur condividendo il giudice di appello qualche argomento di censura della decisione di primo grado, senza comunque pervenire a una riforma della decisione.
Il ricorso va rigettato e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione segue la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi euro 7.200,00, di cui euro 7.000,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13
Così deciso in Roma, il 14/5/2024.