Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20780 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20780 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16150/2021 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE), COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME NOMECODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME
(CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE (GIÀ RAGIONE_SOCIALE), E PER ESSA LA MANDATARIA RAGIONE_SOCIALE
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 987/2021 depositata il 29/03/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 1° giugno 2021, illustrato da successiva memoria, RAGIONE_SOCIALE liquidazione e RAGIONE_SOCIALE propongono ricorso per cassazione della sentenza n. 320/2020 della Corte d’appello di Milano, pubblicata il 29/03/2021, pronunciata nei confronti di RAGIONE_SOCIALE San RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.p.a, qui intimata, in una controversia avviata da quest’ultima nei confronti dei ricorrenti e avente ad oggetto la risoluzione di un contratto di leasing immobiliare, di cui la banca intimata ha chiesto l’accertamento della risoluzione del contratto per inadempimento e la restituzione dell’immobile con trattenimento delle rate riscosse, scadute e a scadere, nonché degli interessi moratori, secondo il tenore della penale contrattuale, di cui i ricorrenti hanno eccepito in via riconvenzionale la nullità, chiedendo in via subordinata la dichiarazione di eccessiva onerosità, con riduzione della penale. La banca intimata ha notificato controricorso e depositato successiva memoria.
Confermando la sentenza del giudice di prime cure, la Corte di merito ha accertato l’intervenuta risoluzione per inadempimento del contratto di leasing -con funzione traslativa- stipulato da RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; ha ritenuto, per quanto ancora di interesse e con riferimento al primo motivo di appello, la insussistenza di un unico complessivo accordo negoziale riconducibile nella pratica commerciale al ‘ sale and lease back’, e conseguentemente della sua invocata nullità per violazione del divieto di patto commissorio, stante la mancata identità del soggetto venditore del bene con il soggetto utilizzatore (formato dalla famiglia COGNOME e dalle società ad essa riconducibili), reputando irrilevante e non conosciuta dall’ordinamento giuridico la nozione di ‘unico centro di interesse’ nonché la mancata conoscenza, da parte dell’Istituto concedente, dell’esposizione debitoria della RAGIONE_SOCIALE. Non riteneva, fondamentalmente, provata l’asserita conoscenza da parte della società concedente della situazione di difficoltà economica (in particolare, l’affermata esposizione debitoria della società RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME nei confronti del Banco RAGIONE_SOCIALE) asserita da RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e dal Sig. COGNOME, rilevante per quanto riguarda la legittimità del negozio stipulato e degli interessi applicati.
Quanto alla pretesa di riduzione della penale a fronte della restituzione del bene immobile nel corso del giudizio, la Corte di merito assumeva che la clausola contrattuale prevedente l’irripetibilità dei canoni riscossi, oltre al diritto del concedente al pagamento dei canoni scaduti e a scadere, nonché degli interessi di mora, con riaccredito all’utilizzatore delle somme ottenute dalla vendita sul mercato, sia valida e soddisfi pienamente l’esigenza di mantenere l’equilibrio negoziale, e ciò in base anche a quanto statuito dalla Convenzione di Ottawa sul leasing finanziario internazionale e da numerose decisione della
Corte di cassazione (citando Cass. 15202/2018; Cass. 21762/19 e Cass.1581/2020). In tal modo riteneva che non dovesse essere disposto alcun riequilibrio del sinallagma contrattuale ex art. 1526, co. 3 c.c., stante la corrispondenza agli interessi delle parti della scelta della concedente di soprassedere alla vendita del bene riconsegnato ove le condizioni di mercato non siano favorevoli – salvi i principi di buona fede -.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è affidato ai seguenti tre motivi:
violazione degli artt. 1344, 1414, 1418, 2697 e 2744 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di Appello escluso, erroneamente, che i collegati contratti di leasing e compravendita, stipulati dalle parti in data 25.11.2005, dissimulassero il contratto atipico noto nella pratica commerciale di sale and lease back nullo per illiceità della causa – non avendo ritenuto integrati i requisiti di un patto commissorio. Si denuncia la mancata considerazione dell’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di compravendita e il contratto di locazione finanziaria volto a dissimulare il contratto atipico di sale and lease back , da ritenersi a sua volta nullo per asserita illiceità della causa, costituita da patto commissorio.
violazione degli artt. 1322, 1344, 1418, e 2744 C.c. in relazione all’art. 360 C.p.c., n. 3 per avere la Corte di Appello escluso la illiceità della causa specifica dei singoli e collegati contratti di leasing e compravendita, stipulati dalle parti in data 25.11.2005, per violazione della norma che vieta i patti commissori. Il Giudice del gravame avrebbe implicitamente ritenuto irrilevante il collegamento negoziale tra il contratto di compravendita ed il contratto di leasing , escludendo, erroneamente, che lo stesso dissimulasse il contratto atipico noto nella pratica commerciale di sale and lease back , a sua
volta nullo per illiceità della causa costituita da un patto commissorio. Tale erronea conclusione nascerebbe dalla infondata considerazione che, per ipotizzare una violazione del divieto di cui all’art. 2744 c.c., sia necessaria l’identità del soggetto che abbia venduto al concedente il bene ed il soggetto che da quest’ultimo l’abbia ricevuto in locazione finanziaria, nonché dalla superficiale valutazione in punto di dedotta simulazione dei contratti. Si contesta che la causa riferibile ai medesimi si traduca nella causa c.d. di leasing e non di garanzia, vale a dire nell’esigenza di ottenere in tempi non eccessivamente dilatati liquidità, a fronte dell’alienazione di un bene strumentale alla propria attività, conservandone l’uso e con la facoltà di riacquistarne la proprietà, una volta conclusosi il rapporto di finanziamento;
in via subordinata, si deduce violazione degli artt. 1322, 1384 e 1526 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte di Appello escluso la eccessiva onerosità della clausola penale di cui all’art. 12 delle condizioni generali del contratto di leasing stipulato dalle parti in data 25.11.2005.
I primi due motivi vanno trattati congiuntamente in quanto, vertendo sulla medesima questione vista sotto diversi profili di nullità della sentenza, riguardano il mancato rilievo di nullità del contratto per violazione della norma che vieta il patto commissorio ex art. 2744 c.c., non essendo stato qualificato come sale and lease back in ragione di un collegamento negoziale intervenuto tra soggetti distinti che non potevano costituire ex se un centro unico di interessi.
I motivi sono inammissibili.
In tema di patto commissorio, l’art. 2744 c.c. deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il “patto” ivi descritto, ma qualunque tipo di convenzione, quale ne sia il
contenuto, che venga impiegata per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito (Cass. Sez. III, 2469/2024). L’intento elusivo del divieto legale del patto commissorio è configurabile allorché sussista, tra le diverse pattuizioni, un nesso di interdipendenza tale da far emergere la loro funzionale preordinazione allo scopo finale di garanzia piuttosto che a quello di scambio, sicché il giudice non deve limitarsi a verificare il solo tenore letterale delle clausole inserite nel contratto, o nei contratti, posti in essere dalle parti, ma è tenuto ad accertare la funzione economica sottesa alla fattispecie negoziale posta in essere, restando a tal fine irrilevanti sia la natura obbligatoria o reale del contratto, o dei contratti, sia il momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, sia, infine, quali siano gli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e perfino l’identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti (Cass. Sez. 2 – , Sentenza n. 27362 del 08/10/2021).
L’interpretazione offerta dalla Corte d’appello, che fa perno su sulla identità del soggetto che abbia venduto il bene al concedente, esclusa nel caso concreto, deve essere corretta, e ciò alla luce dei precedenti sopra richiamati.
Purtuttavia i motivi si rivelano inammissibili, e ciò con riferimento alla rilevante questione della consapevolezza o meno, da parte della banca concedente, della situazione debitoria verso altra banca in cui versava l’impresa che ha stipulato il contratto, del tutto esclusa sul piano probatorio dal giudicante. Le censure su questo punto, decisivo al fine della configurazione di un intento elusivo del divieto di patto
commissorio, tendono a indurre il giudice di legittimità a svolgere un inammissibile sindacato sulle valutazioni in fatto operate dai giudici di merito per escludere la finalità di realizzazione di un negozio illecito. Dette valutazioni, attinenti alla ricostruzione della volontà contrattuale rispetto al dedotto collegamento causale tra i vari negozi intervenuti, sono in questa sede incensurabili se non riferite a una denuncia di violazione di norme in tema di interpretazione del contratto ex art 1362 c.c. o di valutazione delle prove.
L’interpretazione del contratto, dal punto di vista strutturale, si collega anche alla sua qualificazione e la relativa complessa operazione ermeneutica si articola in tre distinte fasi: a) la prima consiste nella ricerca della comune volontà dei contraenti; b) la seconda risiede nella individuazione del modello della fattispecie legale; c) l’ultima è riconducibile al giudizio di rilevanza giuridica qualificante gli elementi di fatto concretamente accertati. Le ultime due fasi, che sono le sole che si risolvono nell’applicazione di norme di diritto, possono essere liberamente censurate in sede di legittimità, mentre la prima che configura un tipo di accertamento che è riservato al giudice di merito, poiché si traduce in un’indagine di fatto a lui affidata in via esclusiva – è normalmente incensurabile nella suddetta sede, salvo che nelle ipotesi di motivazione inadeguata o di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come previsti negli artt. 1362 e seguenti cod. civ. (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 27000 del 07/12/2005; Cass. Sez. 3 – , Ordinanza n. 10612 del 04/05/2018).
Con il terzo subordinato motivo la ricorrente lamenta che la corretta interpretazione della clausola penale inserita nel contratto, alla luce dell’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica al fine di riequilibrare il contratto di leasing con funzione traslativa, avrebbe dovuto indurre il giudice di merito a
desumere, con riferimento ai criteri di interpretazione funzionale e di buona fede, l’eccessiva onerosità della medesima e la necessità di una sua riconduzione ad equità. In merito, i ricorrenti denunciano che agli atti del giudizio è stata acquisita una perizia di stima attestante che all’atto dell’introduzione del giudizio l’immobile di causa aveva un valore di € 2.895.000,00 e che il Giudice del gravame avrebbe dovuto, se del caso disponendo CTU ed anche d’ufficio ex art. 1384 c.c., accertare l’eccessivo squilibrio economico venutosi a creare a seguito della risoluzione del contratto di leasing , adottando ogni conseguenziale provvedimento per ridurre ad equità gli effetti della risoluzione. Tanto soprattutto in ragione della documentata circostanza che la RAGIONE_SOCIALE, nella esecuzione del contratto, aveva già corrisposto, oltre a € 616.000,00 di canone anticipato iniziale e €. 729.140,83 per canoni periodici, pari ad un totale di €. 1.345.140,83 (ovvero circa l’85% del capitale sborsato/finanziato), sicché la valutazione della eccessiva onerosità della penale avrebbe dovuto tener conto che, all’atto della avvenuta risoluzione, la società concedente, a fronte di un esborso di € 1.600.000, si trovava in una situazione di possibile ingiustificato arricchimento di oltre € 4.000.000, così configurandosi un chiaro ed abnorme squilibrio del rapporto sinallagmatico e degli effetti della risoluzione.
Il motivo è per quanto di ragione fondato e va accolto nei termini di seguito indicati.
Vale al riguardo considerare che ai sensi dell’art. 1384 c.c. in caso di manifesta eccessività della penale, tenuto conto dell’entità dell’adempimento dell’obbligazione principale e dell’interesse del creditore all’adempimento, il giudice può anche d’ufficio- diminuirla, riducendola ad equità (v. Cass., 28/8/2007, n. 18195; Cass., Sez. Un., 13/9/2005, n. 18128; Cass., 21/8/2018, n. 20840; Cass SU 2061/2021).
In proposito, le SU della Suprema Corte di Cassazione hanno sancito che ‘nello stesso “diritto vivente” si coglie la maturata consapevolezza di quale sia la declinazione di quella causa in concreto e, quindi, dell’interesse del concedente di ottenere, nel caso di risoluzione contrattuale per inadempimento dell’utilizzatore, “l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione; non quello di ottenere la restituzione dell’immobile, che normalmente non rientrava fra i beni di sua proprietà alla data della conclusione del contratto, né costituiva oggetto della sua attività commerciale” (Cass., 17 gennaio 2014, n. 888). Di qui, anzitutto il rilievo per cui l’equo compenso, ai sensi del primo comma dell’art. 1526 c.c., comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione (Cass., 24 giugno 2002, n. 9162, Cass., 2 marzo 2007, n. 4969, Cass., 8 gennaio 2010, n. 73, Cass., 24 gennaio 2020, n. 1581) e, secondo la sua ordinaria configurazione di danno emergente e di lucro cessante (art. 1223 c.c., che impone che il danno patrimoniale sia integralmente ristorato, in applicazione del principio di indifferenza), tale da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto (Cass. n. 888 del 2014 – che, tra l’altro, evoca al riguardo, sebbene soltanto in guisa di utile supporto ermeneutico e non già come diritto positivo applicabile alla fattispecie, la Convenzione Unidroit sul leasing finanziario internazionale stipulata ad Ottawa il 28 maggio 1988 e ratificata dalla legge n. 259 del 1993 e Cass. n. 15202 del 2018)’ (cfr. Cass. SU.n. 2061/2021 in motivazione).
I criteri indicati dalla giurisprudenza sulla meritevolezza di tutela della clausola penale inserita nel contratto di leasing con funzione traslativa, sono così enucleabili sulla base della menzionata pronuncia delle Sezioni Unite:
15.1. È manifestamente eccessiva e non meritevole di tutela (ex art. 1322 c.c.) la clausola che consente al concedente di mantenere la proprietà del bene e di trattenere tutti i canoni percepiti fino al momento della risoluzione, costituendo un indebito vantaggio il cumulo tra il residuo valore del bene e la somma dei canoni percepiti e (tra le molte, Cass.,27 settembre 2011, n. 19732, nonché la citata Cass. n. 1581 del 2020);
15.2. E’, invece, da reputarsi coerente con la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 1526 c.c., la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla vendita del bene restituito (tra le altre, le citate Cass. n. 15202 del 2018 e Cass. n. 1581 del 2020, nonché Cass., 28 agosto 2019, n. 21762 e Cass., 8 ottobre 2019, n. 25031).
15.3. Qualora la vendita o altra allocazione sul mercato non avvenga, resta fermo il diritto dell’utilizzatore di detrarre dai canoni versati l’eventuale maggior valore ricavabile dalla vendita del bene, a condizione che avvenga ‘a prezzi di mercato’.
15.4. Qualora manchino tali clausole il giudice, se la penale sia stata oggetto di domanda od eccezione, deve ridurre d’ufficio la penale adottando come parametro una valutazione comparativa tra il vantaggio della penale inserita nel contratto di leasing (cosiddetta clausola di confisca) assicura al contraente adempiente ed il margine
di guadagno che il locatore si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto.
15.5. Lo strumento per addivenire a tale valutazione è una stima del valore di mercato che il bene ha al momento della restituzione con la specificazione che: a) se il bene è stato venduto dal concedente il valore è quello conseguito; b) se non è stato venduto occorrerà stimarlo.
In particolare, nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 2061/2021, per quello che interessa in questa sede, è ribadito il principio per cui alla risoluzione del ‘leasing’ traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 cod. civ., sicché, ove detta risoluzione consegua all’inadempimento dell’utilizzatore, dal principio di salvaguardia del corretto equilibrio contrattuale discende che l’utilizzatore abbia diritto alla restituzione delle rate pagate previa restituzione del bene al concedente, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare l’equo compenso spettante per il godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto (cfr. anche Cass 17752/2023). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Conseguentemente, la riconsegna del bene al concedente, nel contratto di ‘leasing’ con funzione traslativa, è condizione di efficacia dell’obbligo restitutorio gravante sul concedente per effetto della risoluzione contrattuale regolata dall’ art. 1526 , co. 1 e 2 , cod. civ., afferente al ricavato dalla riallocazione del bene, se avvenuta, o al valore di stima di mercato in caso di mancata liquidazione (cfr. Cass., 20/09/2017, n. 21895, e Cass., 22/03/2022, n. 9210), in quanto espressione dell’inderogabile divieto d’indebita locupletazione del concedente in cui diversamente si tradurrebbe il cumulo tra canoni e valore
del bene ( v. SU 2061/2021 che parla di restituzione del bene quale ‘presupposto del pagamento’).
In proposito è stato confermato, anche da successive pronunce, l’orientamento secondo il quale, nella risoluzione del leasing traslativo, acquista un ruolo decisivo la restituzione del bene, perché tale evento consente al meccanismo delineato dall’art. 1526 cod. civ. (primo e secondo comma) di esplicarsi nella sua pienezza. Sicché la restituzione del bene comporta, per l’utilizzatore inadempiente, il diritto alla restituzione delle rate pagate, salvo il versamento dell’equo compenso al concedente; mentre, qualora sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al concedente, il giudice potrà provvedere alla riduzione d’ufficio dell’indennità convenuta (v., sul punto, la ordinanza n. 26531 del 2021 circa il carattere officioso di tale potere, derivante dalla previsione generale dell’art. 1384 cod. civ., nonché Sezioni Unite n. 2061 del 2021, p. 35, sulla c.d. clausola di confisca; Cass. Sez.III Ord. n.7367/2023 ).
In questa cornice ricostruttiva, deve darsi pertanto continuità alla giurisprudenza a mente della quale, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo ha diritto alla restituzione delle rate riscosse solo dopo la restituzione della cosa da parte dell’utilizzatore (Cass.7367/2023; Cass. 9210/2022; Cass., 20/09/2017, n. 21895, e succ. conf. quali Cass., 07/03/2019, n. 6606, e Cass., 14/03/2019, n. 7337). L’obbligo di previa restituzione della cosa, pertanto, è da ritenere fondamentale nell’equilibrio del contratto, perché in tal modo da un lato il concedente, rientrato nel possesso del bene, potrà trarne ulteriori utilità nel prosieguo; dall’altro, solo dopo che la restituzione è avvenuta, è possibile determinare l’equo compenso a lui spettante per il godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto, salva la prova del danno ulteriore (Cass., n. 21895 del 2017, pagg. 3-4, Cass.,
6606/2019, § 7, Cass., n. 7337 del 2019, pag. 5); non si tratta, cioè, di profilo legato, in termini di esclusiva perimetrazione, alla ricostruzione e applicazione della correlata disciplina precettiva dell’equo compenso, ma di una ricaduta del principio di mantenere un corretto equilibrio anche nella fase risolutoria del contratto, espresso nell’art. 1526, co.2, cod. civ.
Orbene, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha in parte disatteso i suindicati principi.
Nel fare espressamente richiamo a Cass. SU n. 2061/2021 a proposito dell’applicabilità dell’art. 1526, 2° comma, c.c. ai contratti con funzione traslativa risolti prima della riforma operata dalla l. 124/2017, la corte di merito ha ritenuto che la clausola penale contrattuale (prevedente l’irripetibilità dei canoni riscossi, oltre il diritto del concedente al pagamento degli altri canoni scaduti, di quelli a scadere e degli interessi di mora, e la restituzione del bene con riaccredito all’utilizzatore delle somme ottenute dalla sua vendita sul mercato) fosse nella specie pienamente satisfattiva dell’esigenza di mantenere l’equilibrio negoziale, citando a sostegno la sua corrispondenza alla Convenzione di Ottawa in tema di contratti internazionali.
Ha tuttavia per altro verso affermato che <>.
Orbene, nel ritenere la clausola penale in astratto idonea a garantire gli interessi delle parti e l’equilibrio contrattuale, la corte di merito non ha in realtà conformato il giudizio ai criteri indicati dalla giurisprudenza per verificare, al momento della relativa applicazione, l’effettiva idoneità della penale
contrattuale di evitare nel suo concreto operare un ‘ indebita locupletazione della concedente.
Alla luce dei sopra richiamati principi, ove il bene sia stato come nella specie restituito dall’utilizzatore al concedente e quest’ultimo abbia tra ttenuto tutti i canoni riscossi in attesa di tempi migliori per la vendita del bene, in ossequio a quanto previsto all’art. 1526, 2° comma, cod. civ. applicabile alla fattispecie in questione il meccanismo riequilibratore indicato nella clausola penale non può essere impedito dalla scelta unilaterale del concedente di differire sine die la vendita del bene ( cfr. Cass., 16/2/2024, n. 4299, e, da ultimo, Cass., 2/7/2024, n. 18191 ).
Ferma restando la affermata meritevolezza di tutela di una clausola penale come nella specie prevedente il diritto del concedente di trattenere all’esito della risoluzione contrattuale i canoni versatigli e di ottenere il risarcimento del danno e la restituzione del bene, il giudice avrebbe dovuto anche d’ufficio -considerare il corrispondente diritto dell’utilizzatore di vedersi detratto il valore di mercato del bene riconsegnato e rimasto invenduto, con diritto alla restituzione della somma eventualmente in eccesso versata.
Alla fondatezza nei suindicati termini e limiti del terzo motivo di ricorso, dichiarati inammissibili il 1° e il 2°, consegue la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo del suindicato disatteso principio applicazione.
Il giudice del merito provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso terzo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione; dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo.
Cassa in relazione l’impugnata sentenza, e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 29/4/2024.