Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20669 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20669 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CONDELLO NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11441/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: ) e dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: ), elettivamente domiciliata presso lo studio della seconda, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso con ricorso incidentale, dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: ) e dall’AVV_NOTAIO
COGNOME (p.e.c.:
)
avverso la sentenza del la Corte d’appello di Trento -Sezione Distaccata di Bolzano – n. 25/2021, pubblicata in data 26 febbraio 2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29 aprile 2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOMENOME COGNOME;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 506/2017 il Tribunale di Bolzano rigettava l’opposizione, proposta da NOME COGNOME, avverso il decreto ingiuntivo con cui RAGIONE_SOCIALE aveva chiesto -in relazione al contratto di leasing immobiliare da quest’ultima concluso con RAGIONE_SOCIALE (dichiarata fallita), a favore della quale l’opponente aveva prestato garanzia -il pagamento della somma di euro 53.316,16, di cui euro 43.835,75 a titolo di canoni mensili scaduti, euro 8.260,41 a titolo di interessi moratori scaduti ed euro 1.220,00 per spese di estinzione, oltre interessi di mora.
In particolare, il Giudice di primo grado, ritenendo di essere in presenza di un contratto autonomo di garanzia, reputava, da un lato, che all’opponente fosse preclusa l’opposizione di eccezioni che trovavano titolo nel rapporto contrattuale sottostante e, dall’altro, che le doglianze fatte valere non integrassero l’ exceptio doli generalis , unica difesa dallo stesso esperibile.
La Corte d’appello adita dalla soccombente, in riforma della sentenza gravata, ha revocato il decreto ingiuntivo.
A fondamento dell’adottata decisione, qualificando il contratto sottoposto al suo esame come leasing immobiliare traslativo, al quale era applicabile l’art. 1526 cod. civ, la Corte territoriale ha osservato
che, al punto 20.2, detto contratto, per l’ipotesi di risoluzione per inadempimento della utilizzatrice, prevedeva, in favore della concedente, una clausola penale commisurata all’importo dei canoni pagati, di quelli scaduti e di quelli a scadere sino alla fisiologica conclusione del contratto; pacifica essendo l ‘ intervenuta restituzione dell’immobile in data 22 ottobre 2012 , in difetto di una sua ricollocazione sul mercato, ha proceduto alla verifica della congruità della penale, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ., rilevando, in esito a ll’accertamento svolto dal consulente tecnico d’ufficio, che il mancato guadagno della concedente, dipeso dall’anticipata interruzione del rapporto, ammontava ad euro 231.367,28 e che il valore dell’immobile restituito, sulla base della stima effettuata (euro 555.162,50 alla data di risoluzione del contratto di leasing ed euro 367.155,30 nell’anno 2019), eccedeva il mancato guadagno della concedente, cosicché risultava ‹‹ incongruo attribuirle a titolo di penale l’ulteriore importo di euro 53.316,16›› , a titolo di canoni mensili scaduti, interessi moratori scaduti e spese d’estinz ione, oltre agli interessi di mora convenzionali.
RAGIONE_SOCIALE ricorre per la cassazione della sentenza d’appello, con quattro motivi.
NOME COGNOME resiste mediante controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, affidato ad un unico motivo.
Il ricorso è stato avviato per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1. cod. proc civ. e la ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo del ricorso principale RAGIONE_SOCIALE denunzia ‹‹violazione e/o falsa applicazione dei principi in materia di contratto autonomo di garanzia›› , lamentando che la Corte d’appello, dopo avere correttamente qualificato il contratto
intercorso tra le parti come contratto autonomo di garanzia, ha poi affermato essere ‹‹ nondimeno impossibile che ciò valga ad escludere negozialmente il controllo giudiziale sulla congruità della penale …›› . Assume che, così argomentando, la Corte territoriale si è posta in aperto contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di contratto autonomo di garanzia, l’assunzione da parte del garante dell’impegno di effettuare il pagamento a semplice richiesta del beneficiario della garanzia comporta la rinunzia a far valere eccezioni inerenti al rapporto principale, con il solo duplice limite dell’ exceptio doli e del caso in cui dette eccezioni siano fondate sulla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative o per illiceità della sua causa, ipotesi non ravvisabili nel caso di specie.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Con sentenza n. 2061 del 28 gennaio 2021, le Sezioni Unite, partendo dalla distinzione tra leasing di godimento (in cui i canoni hanno funzione eminentemente corrispettiva dello scopo di godimento che riveste il finanziamento, restando marginale e accessoria la pattuizione relativa al trasferimento del bene alla scadenza, dietro pagamento del prezzo d’opzione) e leasing traslativo (in cui i canoni hanno anche valenza corrispettiva del trasferimento del bene cui la funzione del rapporto è indirizzata, in ragione di un suo apprezzabile valore residuo al momento della scadenza contrattuale, notevolmente superiore al prezzo d’opzione), dalla quale è derivata una diversificazione delle rispettive discipline in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore (e ciò a partire da Cass. nn. 5569, 5571, 5573 e 5574 del 1989, con l’avallo di Cass., sez. U, n. 65 del 1993), hanno ritenuto che al primo si applica, in via analogica, la disciplina dettata dall’art. 1526 cod. civ.
nella vendita con riserva di proprietà, per cui l’utilizzatore è obbligato alla restituzione del bene e il concedente alla restituzione delle rate riscosse, avendo però diritto ad un equo compenso per la concessione in godimento del bene e il suo deprezzamento d’uso, oltre al risarcimento del danno. Sul punto, le Sezioni Unite hanno sottolineato come la ratio dell’applicazione analogica dell’art. 1526 cod. c iv. risieda nell’esigenza di «porre un limite al dispiegarsi dell’autonomia privata» nel caso di leasing traslativo, al fine di evitare l’ingiustificato arricchimento che sovente si verifica nella prassi commerciale in favore del concedente, il quale, sulla base di uno schema negoziale per lo più unilateralmente predisposto, ottiene sia la restituzione del bene, sia l’acquisizione delle rate riscosse, oltre all’eventuale risarcimento del danno, «ossia più di quanto avrebbe avuto diritto di ottenere per il caso di regolare adempimento del contratto da parte dell’utilizzatore stesso»; non è stata, tuttavia, trascurata l’esigenza di fornire un’equilibrata tutela anche al concedente, attraverso la previsione dell’equo compenso e del risarcimento del danno, ma, mediante il bilanciamento con l’istituto della riduzione della penale eccessiva, si è sempre avuta di mira l’equità contrattuale (Cass., sez. Un., n. 26531/2021).
Con la medesima sentenza si è pure rammentato che l’equo compenso contemplato dal primo comma dell’art. 1526 cod. civ. «comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e il logoramento per l’uso, ma non include il risarcimento del danno spettante al concedente, che, pertanto, deve trovare specifica considerazione» nella sua interezza, come danno emergente e lucro cessante, secondo il cd. principio di indifferenza incarnato dall’art. 1223 cod. civ., in modo «da porre il concedente medesimo nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse
esattamente adempiuto» (Cass., n. 1581/2020; Cass., n. 15202/2018; Cass., n. 888/2014; Cass., n. 73/2010, Cass., n. 4969/2007; Cass., n. 9162/2002); e che, potendo le parti, nell’esercizio dell’autonomia privata, determinare preventivamente il risarcimento del danno attraverso una clausola penale, ex art. 1382 cod. civ. , l’operazione integrativa per via analogica include il secondo comma dell’art. 1526 cod. civ., che consente l’acquisizione delle ‘rate pagate’ come indennità, a titolo di clausola penale (cd. clausola di confisca) e al tempo stesso contempla, conformemente al principio generale ex art. 1384 cod. civ., la riduzione giudiziale dell’indennità medesima ‘secondo le circostanze’, valutando cioè se tale penale risulti manifestamente eccessiva, sempre al fine di «ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela e riequilibrando, quindi, la posizione delle parti, avendo pur sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento integrale» (conf. Cass., sez. U, n. 18128/2015; Cass., n. 18326/2018).
Ma soprattutto le citate Sezioni Unite hanno evidenziato che, ove il contratto preveda una clausola penale manifestamente eccessiva, a causa del cumulo tra acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento della proprietà del bene (cd. clausola di confisca), essa, ai sensi dell’art. 1526, secondo comma, cod. civ., deve essere ridotta dal giudice, anche d’ufficio, «sempre che, naturalmente, la penale stessa sia stata fatta oggetto di domanda ovvero dedotta in giudizio come eccezione – in senso stretto – nel rispetto delle preclusioni di rito: Cass., 12 settembre 2014, n. 19272»; ciò, appunto, «nell’esercizio del potere correttivo della volontà delle parti contrattuali affidatogli dalla legge, al fine di ristabilire in via equitativa un congruo contemperamento degli interessi contrapposti (Cass., sez. U, n. 18128 del 2005, citata), operando una valutazione comparativa tra il
vantaggio che la penale inserita nel contratto di leasing traslativo assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto (tra le altre, Cass. n. 4969 del 2007, citata, e Cass., sez. 3, 21/08/2018, n. 20840)».
1.3. Dal quadro ermeneutico sopra delineato, emerge evidente che, nella specie, il giudice d’appello ben poteva accertare se la pattuizione contenuta nel contratto di leasing integrasse clausola penale eccessiva e procedere, conseguentemente, anche d’ufficio, alla sua riduzione ad equità ai sensi dell’art. 1384 cod. civ. , a tutela di un interesse generale dell’ordinamento ad avere contratti che siano equi.
Tale soluzione è, invero, condizionata dall’orientamento assunto da questa Corte sulla questione della riducibilità della penale e del rapporto che, rispetto alla clausola penale, si pone tra autonomia privata e poteri del giudice.
Questa Corte, ormai da tempo con una pronuncia a Sezioni Unite, ha affermato che ‹‹ in tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita, giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta ›› (Cass., sez. U, n. 18128/2005).
Da questo principio, che è stato ribadito da numerose pronunce successive (Cass., sez. L, 10/04/2006, n. 8293; Cass., sez. 1,
01/02/2007, n. 2202; Cass., sez. 1, 25/10/2017, n. 25334; Cass., sez. 6 -2, 15/06/2020, n. 11439), si desume l’ulteriore co nseguenza che la riduzione può operare anche contro la volontà delle parti, proprio perché è prevista non solo nell’interesse di una di essa, ma nell’interesse generale a che non si stipulino contratti eccessivamente iniqui; ciò che ha come corollario che la penale può essere ridotta anche se le parti la prevedano espressamente come irriducibile.
Alla luce di tali principi, ormai consolidati (in senso conforme, anche di recente, Cass., sez. 3, 05/02/2024, n. 3297), perdono rilevanza gli argomenti addotti dalla odierna parte ricorrente a supporto della censura in esame, incentrati sulla giurisprudenza di questa Corte che esclude la facoltà, per il garante, in ipotesi di contratto autonomo di garanzia, di opporre le eccezioni inerenti al rapporto principale, come pure sulla pretesa assenza di nullità della clausola penale e della sua inidoneità a contaminare, per illiceità derivata, il contratto di garanzia.
La circostanza, infatti, che la penale possa essere ridotta dal giudice d’ufficio anche ove le parti abbiano concordato la sua irriducibilità, significa che l’autonomia privata, secondo l’orientamento giurisprudenziale predetto, deve cedere di fronte all’ interesse generale alla stipula di contrati equi e che, ai fini che qui rilevano, come ritenuto dalla Corte d’appello, anche in presenza di un contratto autonomo di garanzia, che preclude al garante di far valere eccezioni afferenti l’obbligazione principale, il giudice possa comunque esercitare il potere di controllo sulla congruità della clausola, subordinatamente all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova circa le circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale che devono risultare ex actis, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo e, in caso di rilevata eccessività, procedere, d’ufficio, alla sua riduzione, a prescindere dalla volontà
delle parti e dalle eccezioni eventualmente dalle stesse sollevate.
Il rigetto del primo motivo del ricorso principale consente di dichiarare assorbito il ricorso incidentale condizionato proposto da NOME COGNOME, con il quale si censura la decisione gravata per violazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., per avere la Corte territoriale qualificato il contratto sottoscritto dal controricorrente come ‹‹ autonomo di garanzia ››, anziché com e ‹‹ fideiussione ›› .
Con il secondo motivo la ricorrente principale, in via subordinata, denunzia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 1384 cod. civ. e sostiene che il giudice d’appello avrebbe comunque errato a considerare la clausola prevista dall’art. 20.2 come una penale, posto che , con il ricorso monitorio ottenuto nei confronti del COGNOME in qualità di garante, si è limitata a far valere le sole pretese previste dalla lettera A) e dalla lettera C) dello stessa clausola, ossia a chiedere il pagamento dei canoni già maturati e scaduti e non ancora soddisfatti sino all’intervenuta risoluzione e gli interessi moratori fino al saldo, ma non le pretese previste alla lettera B), che costituivano appunto la clausola penale di cui all’art. 1382 cod. civ.
Assume che il giudice d’appello non ha distinto tra le diverse componenti, rispettivamente, remunerativa e risarcitoria presenti all’interno delle previsioni contenute nell’art. 20.2 del contratto di leasing, ed ha valutato in maniera cumulativa e indifferenziata le pretese esercitate nei confronti dell’odierno controricorrente.
1. Il secondo motivo è infondato.
3.2. A seguito del riferito arresto delle Sezioni Unite, in caso di leasing traslativo -come è stato qualificato il contratto per cui è causa -resta valida la soluzione adottata dal diritto vivente di individuare, nella disposizione dell’art. 1526 cod. civ., la disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore (Cass., n.
5754/2022), alla luce della quale devono quindi essere interpretate le pattuizioni contrattuali.
E proprio attraverso il filtro dell’art. 1526 cod. civ. la giurisprudenza di questa Corte (richiamata da Cass., sez. U, n. 26531/2021) ha selezionato, tra le varie clausole standardizzate, quelle meritevoli o meno di tutela, sempre alla luce della ratio di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente, nel perseguimento di un equilibrato assetto delle posizioni contrattuali delle parti.
Tra quelle meritevoli di tutela è stata fatta rientrare «la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito» (Cass., sez. U, n. 26531/2021; Cass., n. 15202/2018; Cass., n. 21762/2019; Cass., n. 25031/2019; Cass., n. 1581/2020); mentre è stata reputata «manifestamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene» (Cass., sez. U, n. 26531/2021; Cass., n. 19732/2011; Cass., n. 1581/2020).
Le stesse Sezioni Unite hanno sottolineato come resti fermo «il diritto dell’utilizzatore di ripetere l’eventuale maggior valore che dalla vendita del bene (a prezzo di mercato) ricavi il concedente, rispetto alle utilità» che quest’ultimo «avrebbe tratto dal contratto qualora finalizzato con il riscatto del bene», con l’ulteriore puntualizzazione che, nel caso in cui la clausola penale non faccia riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa «dovrà esser letta negli stessi termini alla luce del parametro della buona fede contrattuale, ex art. 1375 c.c.» (Cass. 15202/2018; conf., Cass., n.
28023/2022).
3.3. Ebbene, la clausola 20.2. del contratto di leasing in esame, ritrascritta in ricorso, prevede: ‹‹ Realizzatasi una delle ipotesi di risoluzione di cui al precedente art. 20.1 , l’utilizzatore, ferma restando l’obbligazione di restituzione immediata dell’immobile e salvo il risarcimento del maggior danno, sarà tenuto, entro cinque giorni dalla comunicazione del concedente di volersi avvalere della risoluzione: A) al pagamento di tutte le somme dovute al concedente per canoni, interessi ed altro già maturati e non ancora soddisfatti; B) al pagamento -a titolo di penale -della somma dei canoni non ancora scaduti maggiorato del prezzo di riscatto di cui all’art. 19, attualizzati al tasso di riferimento in vigore alla data di stipula del presente contratto ed indicato alla lettera H) delle premesse, più 1 punto; C) al pagamento degli interessi di mora di cui all’art. 14 , fino all’integrale adempimento di quanto previsto in questo articolo. Rimarranno inoltre definitivamente acquisite dal concedente tutte le somme pagate dall’utilizzatore fino alla data della risoluzione››.
Al successivo punto 20.3 il medesimo contratto stabilisce: ‹‹Peraltro, verificatasi l’ipotesi di cui sopra (ossia la risoluzione del contratto di leasing ) il concedente procederà alla vendita dell’immobile; all’utilizzatore verrà riconosciuta la facoltà di promuovere egli stesso la vendita. All’utilizzatore o ai suoi aventi causa verrà riconosciuto il ricavato d alla vendita dell’immobile oggetto del presente contratto, detratte le spese direttamente imputabili (p.e. provvigioni ad intermediario), a condizione che abbia pagato tutte le somme di cui alle precedenti lettere A), B) e C) ›› .
3.4. Al fine di valutare se la clausola pattizia sopra riportata
integri clausola penale occorre muovere dalla considerazione che, nel leasing traslativo immobiliare, i canoni costituiscono non il corrispettivo del mero godimento del bene, ma il versamento rateale del prezzo, in previsione dell’esercizio finale dell’opzione di acquisto, che l’interesse del concedente è quello di ottenere l’integrale restituzione della somma erogata a titolo di finanziamento, con gli interessi, il rimborso delle spese e gli utili dell’operazione, e che la riconsegna dell’immobile è insufficiente, quale risarcimento del danno, nel caso in cui il finanziamento non venga restituito ed il valore dell’immobile non valga a coprirne l’intero importo, ma costituisce un quid pluris r ispetto all’interesse e ai danni effettivi subiti dal concedente, ove si aggiunga all’integrale restituzione della somma erogata, con i relativi interessi e spese (Cass., sez. 3, n. 29840/2018).
3.5. Attenendosi a tali principi, la Corte territoriale, pur considerando che la clausola sopra menzionata prevedeva, in caso di risoluzione, il riconoscimento, in favore dell’utilizzatore, del ricavato della vendita (o del valore dell’immobile), ha rilevato, in fatto, che la concedente, alla quale l’immobile era stato riconsegnato sin dal 2012, non aveva di fatto proceduto alla vendita dello stesso e che la pretesa azionata in sede monitoria, volta a conseguire dal garante il pagamento di tutte le somme previste alle lettere A) e C) del punto 20.2 del contratto, determinava uno squilibrio tra le parti, poiché non teneva conto che il danno risentito dalla concedente in conseguenza dell’inadempimento della utilizzatrice e della anticipata interruzione del rapporto risultava già ristorato dal recuperato valore dell’immobile oggetto di leasing .
Per pervenire a tale conclusione i giudici d’appello, del tutto correttamente, sulla base delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, all’esito della comparazione tra l’entità de l danno patito dalla
concedente, ammontante ad euro 231.367,28, ed il valore dell’immobile, hanno accertato ch e questo eccedeva il mancato guadagno ed hanno, conseguentemente, ritenuto che l’attribuzione alla concedente dell’ulteriore importo di euro 53.316,16, portato dal decreto ingiuntivo per canoni mensili scaduti ed interessi moratori, avrebbe comportato una indebita locupletazione in favore dell’odierna ricorrente, in contrasto con la finalità dettata dall’art. 1526 cod. civ.
Ciò che consente di escludere la fondatezza del secondo motivo di ricorso, integrando la clausola sopra richiamata, valutata nella sua interezza, clausola penale.
4. Con il terzo motivo del ricorso principale NOME censura la decisione impugnata, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per ‹‹violazione e falsa applicazione degli artt. 1363 e 1362 cod. civ., nonché dell’art. 1384 cod. civ.››, lamentando che il Giudice d’appello non ha considerato, nel giudizio di manifesta eccessività dell’asserita clausola penale, quanto previsto nella successiva clausola 20.3. del contratto di leasing , così violando anche la regola dell’interpretazione sistematica, che impone di interpretare le clausole contrattuali ‹‹le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto››.
Fa rilevare che tale clausola prevedeva che, in caso di risoluzione del contratto, il concedente dovesse procedere alla vendita dell’immobile e che all’utilizzatore veniva riconosciuta la facoltà di promuovere egli stesso la vendita; e che, una volta pagate tutte le somme di cui alle lettere A), B) e C), all’utilizzatore era riconosciuto il ricavato dalla vendita; assume che questo meccanismo, essendo finalizzato ad evitare un indebito arricchimento del concedente, rendeva superflua l’applicazione sia della riduzione d’ufficio della penale, sia dell’applicazione analogica dell’art. 1526 cod. civ., perché impediva che il concedente potesse ottenere vantaggi maggiori di
quelli derivanti dalla regolare esecuzione del contratto.
Con il quarto motivo la ricorrente denunzia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 1362 cod. civ. e sostiene che la motivazione della sentenza impugnata si pone in contrasto con quanto disposto dall’art. 20.3 del contratto di leasing, che, al secondo capoverso, prevedeva che il riconoscimento all’utilizzatore del ricavato della vendita dell’immobile dovesse avvenire ‹‹a condizione che abbia (avesse) pagato tutte le somme di cui alle precedenti lettere A), B), C)››.
Contesta alla Corte territoriale di avere acriticamente aderito all’accertamento del c.t.u., senza considerare, come invece avrebbe dovuto fare, la peculiare disciplina prevista dal contratto con riguardo alle modalità di soddisfazione delle contrapposte pretese delle parti conseguenti alla risoluzione, dal momento che, secondo quanto disposto dall’art. 20.3 del contratto di leasing , dovevano essere dapprima soddisfatte le pretese della concedente e (soltanto) successivamente, una volta adempiute queste, poteva essere soddisfatta la pretesa dell’utilizzatore.
Non si sottraggono alla declaratoria d’inammissibilità le censure in esame, con le quali si contesta una asserita violazione dei criteri ermeneutici di interpretazione del contratto, perché manca l’allegazione dell’avvenuta deduzione delle relative questioni dinanzi al giudice del merito e l’indicazione degli atti specifici dei gradi precedenti in cui quelle sono state a quegli sottoposte, onde dare modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa; in mancanza di ottemperanza a un tale onere, non può che conseguirne la inevitabile sanzione di inammissibilità per novità delle censure (Cass., sez. 5, 02/04/2004, n. 6542; Cass., sez. 3, 10/05/2005, n. 9765; Cass., sez. 3, 20/10/2006, n. 22540; Cass., sez. 3,
27/05/2010, n. 12992; Cass., sez. 5, 11/05/2012, n. 7295; Cass., sez. 3, 05/06/2012, n. 8992; Cass., sez. U, 06/05/2016, n. 9138; Cass., sez. 6 -3, 10/08/2017, n. 19988).
7. All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso principale, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente COGNOME, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso principale e dichiara inammissibili il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale; dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente COGNOME, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per onorari, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione