Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25795 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25795 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: LA BATTAGLIA NOME
Data pubblicazione: 26/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 31671/2021 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME (anche quale erede di COGNOME), RAGIONE_SOCIALE (in persona della legale rappresentante NOME COGNOME), elettivamente domiciliati in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO (C.F. CODICE_FISCALE) per procura speciale in calce al ricorso per cassazione; – ricorrenti – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del procuratore speciale dr. NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso l o studio dell’AVV_NOTAIO; rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO NOME COGNOME (C.F. CODICE_FISCALE) e NOME COGNOME (C.F. CODICE_FISCALE) per procura speciale in calce al controricorso;
contro
ricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 735/2021, depositata il 23/06/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2024 dal dott. NOME COGNOME BATTAGLIA.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con contratto del 30/11/2006, RAGIONE_SOCIALE (successivamente incorporata in Banca Italease s.p.a., la quale poi, a sua volta, cedette il ramo d’azienda a RAGIONE_SOCIALE ) concesse in locazione finanziaria alla società RAGIONE_SOCIALE (garantita dai fideiussori NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE) gli arredi e i dispositivi tecnici per una discoteca in Chianciano Terme. A seguito del mancato pagamento dei canoni, la concedente comunicò la risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c., per poi successivamente ottenere dal Tribunale di Cuneo il decreto ingiuntivo n. 785/2014, con cui la società utilizzatrice venne condannata alla restituzione dei beni nonché (in solido con i fideiussori) a l pagamento della somma di € 256.677,80 a titolo di canoni insoluti fino alla naturale scadenza del contratto, in applicazione della clausola n. 18 del contratto (detratte le somme già versate da NOME).
Gli odierni controricorrenti proposero due distinte opposizioni (poi riunite), invocando, da un lato, l’ inderogabilità dell’art. 1526 c.c. (da applicarsi, dunque, in luogo della clausola pattizia), con conseguente restituzione dei canoni versati e accertamento della non debenza di quelli scaduti e non ancora pagati ; dall’altro, la nullità delle clausole dei contratti di fideiussione deroganti alla disciplina degli artt. 1955 e 1957 c.c., con la conseguente perdita del diritto alla garanzia per il creditore che aveva escusso con grande ritardo il debitore principale. La società concedente domandava, a sua volta, il pagamento dell’ulteriore somma di € 27.561,51. Entrambe le domande vennero rigettate dal Tribunale, il quale, sul presupposto
dell’irrilevanza della qualificazione del leasing come traslativo o finanziario, richiamò la clausola penale concordata dalle parti quale fonte della regolamentazione degli effetti economici della risoluzione del contratto, ritenendo inapplicabile l’art. 1526, comma 1, per non avere l’utilizzatore restituito il bene.
La Corte d’ Appello di Torino, in virtù della qualificazione del contratto come leasing traslativo (in ragione della circostanza che il valore dei beni, al momento della risoluzione, risultava ampiamente superiore all’importo pattuito per l’esercizio dell’opzione d’acquisto ), ritenne applicabile l’art. 1526 c.c., che (al secondo comma) consente che le parti concordino che le rate pagate restino acquisite al concedente (purché questi detragga da quanto dovutogli il controvalore della vendita del bene restituitogli dall’utilizzatore), ferm a restando la riducibilità della penale ai sensi dell’art. 1384 c.c. (nella specie, peraltro, non praticabile, in mancanza di allegazione e prova dei relativi presupposti da parte degli appellanti principali). Confermò, quindi, la sentenza di primo grado, ritenendo che la concedente avesse diritto (a titolo di risarcimento del danno) anche ai canoni dovuti fino alla ‘fisiologica’ durata del contratto, come quantificati nel decreto ingiuntivo, nonché la statuizione di inammissibilità della domanda riconvenzionale, siccome non proposta con la comparsa di costituzione e risposta dalla società concedente opposta.
Hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE Ha depositato controricorso RAGIONE_SOCIALE
Le parti hanno depositato rispettiva memoria ex art. 380bis .1 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere i giudici di secondo grado rigettato il motivo d ‘appello con cui avevano lamentato che il Tribunale di Cuneo, a fronte della domanda di pagamento dei canoni, li aveva invece
condannati al pagamento delle somme contemplate dalla clausola penale apposta al contratto di leasing .
Il secondo motivo censura – con riferimento agli artt. 132 e 360, n. 4, c.p.c. l’omessa motivazione in merito al suddetto motivo d’appello .
In sostanza, i ricorrenti sostengono che l’originaria domanda della concedente RAGIONE_SOCIALE (fondata sulla presupposta qualificazione del contratto alla stregua di leasing di godimento) avesse quale petitum la condanna al pagamento dei soli canoni, e non già di ulteriori somme a titolo di risarcimento del danno, di modo che, una volta qualificato il leasing come traslativo, il giudice di merito non avrebbe potuto condannare l’utilizzatrice al (non richiesto) pagamento delle somme contemplate dalla clausola penale.
I motivi (da esaminarsi congiuntamente, attesane l’evidente connessione) sono infondati.
In realtà, con ricorso per decreto ingiuntivo datato 25/03/2014, la concedente aveva richiesto il pagamento di tutti i canoni scaduti e non pagati fino al momento della fisiologica scadenza contrattuale (momento individuato nell’1/11/2011, e dunque già ampiamente decorso). A pag. 5 del ricorso per decreto ingiuntivo (prodotto sub doc. 3 in uno al ricorso per cassazione) si legge, infatti: ‘con la presente procedura monitoria -considerato che il contratto è da tempo giunto a termine -la ricorrente intende pertanto ottenere la riconsegna dei beni di sua proprietà ed il pagamento delle residue somme dovute per i canoni insoluti fatturati e/o maturati sino alla naturale scadenza del contratto pari complessivamente ad € 256.677,80 (..)’ . La clausola 18 del contratto (trascritta dalla controricorrente nella nota 3 a pag. 11 del controricorso) recita: ‘a seguito dell’anticipata risoluzione del contratto, fermo quanto previsto in ordine alla immediata consegna del bene/i, al concedente resteranno definitivamente acquisiti tutti gli importi corrisposti a qualunque titolo dall’utilizzatore, il quale dovrà altresì corrispondere
qualunque somma che risulti già maturata a suo carico per corrispettivi scaduti, interessi, spese, e quant’altro dovuto in forza del leasing. In aggiunta a quanto sopra e fatto salvo il diritto al risarcimento del maggior danno, l’utilizzatore è tenuto all’immediato pagamento nei confronti del concedente di una penale commisurata all’importo pari al valore attuale, (. ..), di tutto il restante corrispettivo contrattuale pattuito a carico dell’utilizzatore medesimo, nonché del valore di opzione e di un corrispettivo, ai sensi dell’art. 1591 c.c., per ogni mese di ritardo nella riconsegna del bene/i commisurato al relativo canone periodico di leasing. L’Utilizzatore, ove abbia spontaneamente riconsegnato il Bene/i, nei termini di cui all’art. 19 lett. a) potrà dedurre dal suo debito nei confronti della concedente così come sopra precisato, gli importi che il Concedente stesso abbia conseguito per la vendita o il riutilizzo del Bene/i oppure per indennizzi assicurativi o risarcimento da parte di terzi se il Bene/i non possa essere recuperato o sia irrimediabilmente danneggiato, al netto di ogni onere e spese. In ogni caso eventuali importi ricavati in esubero rispetto al credito del Concedente verranno corrisposti all’utilizzatore’. È evidente, dunque, come la pretesa azionata in via monitoria da RAGIONE_SOCIALE fosse modellata su( almeno parte de)l quantum previsto dalla clausola n. 18 summenzionata, come del resto riconosciuto dagli stessi ricorrenti i quali, a pag. 36 del ricorso, affermano testualmente che ‘la controparte chiedeva il pagamento delle somme a titolo di canoni scaduti e a scadere ex art. 18 del contratto e mai aveva chiesto il pagamento delle predette somme a titolo di penale e/o a titolo di risarcimento del danno’. Tale ultima notazione è -ad ogni evidenza -irrilevante, restando appannaggio del giudice la qualificazione giuridica della domanda: una volta sussunto il negozio posto in essere dalle parti nel tipo contrattuale del leasing traslativo (con conseguente applicazione analogica dell’art. 1526, comma 1), la riconduzione del petitum alla previsione convenzionale cristallizzata
nella citata clausola non può che ascriversi all’ambito risarcitorio di cui all’art. 1382 c.c. , non avendo senso , a fronte dell’intervenuta risoluzione, ipotizzare una domanda di adempimento della (non più esistente) obbligazione di pagamento dei canoni.
3. Il terzo motivo di ricorso si incentra sulla violazione dell’art. 1526 c.c., per avere la Corte d’ Appello di Torino ritenuta valida (e, come tale, suscettibile di derogare la disciplina prevista dalla norma codicistica appena indicata) la clausola n. 18, nella parte in cui consente al concedente non solo di incamerare i canoni già riscossi (che dovrebbe restituire) ma anche di pretendere quelli ancora a scadere al momento della risoluzione.
Il motivo è infondato.
Alla stregua dell’orientamento venutosi a consolidare nella giurisprudenza di legittimità, clausole siffatte devono considerarsi pienamente valide, in ragione della possibilità (riconosciuta, in via generale, dall’art. 1382 c.c.) che le parti predeterminino le conseguenze risarcitorie dell’inadempimento. Il limite correlato alla possibilità di riduzione giudiziale della penale (esplicitato, con riferimento al contratto di leasing traslativo risoltosi anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 124/2017 , dalla disposizione -analogicamente applicabile -dell’art. 1526, comma 2, c.c.) opera, dunque, a valle di una fattispecie che, quale frutto di una tipizzazione sociale atteggiantesi nelle forme successivamente consacrate dallo stesso legislatore, può ritenersi pienamente conforme ad una valutazione di ‘adeguatezza’ causale. La circostanza che la pattuizione convenzionale non preveda lo scomputo, dal quantum dovuto dall’utilizzatore inadempiente, del ricavato della vendita del bene o del suo valore di mercato (ovvero attribuisca al concedente la facoltà di determinare unilateralmente come e quando allocare il bene e quale corrispettivo ricavare dalla eventuale vendita dello stesso) non incide, allora, sulla validità della clausola che la contiene, ma abilita il giudice, attraverso il proprio potere correttivo (nel senso
della riduzione ex art. 1384 c.c.) ovvero interpretativo (sotto l’egida della buona fede ex art. 1366 c.c.) a ricondurre ex post il rapporto nei binari dell’equilibrio espresso dalla razionalità del tipo contrattuale.
Sulla scorta dei principi dettati dalle Sezioni unite nella sentenza n. 2061/2021, deve ritenersi, pertanto, definitivamente superato l’orientamento (affermatosi in alcuni precedenti della Prima sezione della Corte di cassazione) secondo cui ‘ il patto cd. di deduzione – per mezzo del quale deve essere riconosciuto al concedente l’importo complessivo dovuto dall’utilizzatore, a titolo di ratei scaduti e a scadere nonché quale prezzo del riscatto del bene, maggiorato degli interessi moratori convenzionali, anche se decurtato del prezzo di riallocazione del bene oggetto del contratto – è nullo per contrarietà all’ordine pubblico economico ed, in particolare, alla previsione di cui all’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica a tutti i casi di risoluzione anticipata del contratto, anteriormente alla dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore ‘ (Cass., n. 21476/2017, conformemente alla quale si sono successivamente pronunciate Cass., n. 27935/2018 e Cass., n. 3200/2019). Tale assunto è stato ribadito, da ultimo, da Cass., n. 14232/2024 (che richiama Cass. n. 26531/2021; Cass., n. 7367/2023 e Cass., n. 16632/2023) e Cass., n. 4299/2024, che rimanda, a sua volta, a Cass. n. 28022/2021, la quale ‘ ha approfondito anche questo profilo al § 3.2, per un verso, escludendo che la nullità per contrarietà all’ordine pubblico economico abbia autonomia concettuale e strutturale, per altro, negando che possa dichiararsi nulla una clausola per il mero fatto ch e risulti svantaggiosa per una delle parti, ove non si individuino ‘le concrete condotte od i concreti effetti che travalicano il legittimo esercizio dell’impresa commerciale’, senza considerare che l’assenza di contrarietà con l’ordine pubblico economico ‘internazionale’ emerge dall’art. 13, commi 2, 3 e 4, della convenzione di Ottawa sul leasing internazionale (ratificata con L. 14 luglio 1993, n. 259), le
cui regole, sebbene non immediatamente applicabili nella presente controversia, sono ritenute da questa Corte un indice interpretativo per la ricostruzione della disciplina dell’inadempimento dell’utilizzatore (Cass. 16/11/2007, n. 23794); di conseguenza, è da considerare superato il diverso orientamento di legittimità che ha trovato espressione nelle decisioni n. 27935 del 31.10.2018 e n. 21476 del 15.9.2017 e n. 3200 del 4.2.2019 che, invece, hanno dichiarato nulle “per contrarietà all’ordine pubblico economico” clausole molto simili a quella oggi in esame’ (si veda anche la recentissima Cass., n. 14232/2024, al punto 2.4.2 della motivazione). La stessa Cass., n. 4299/2024, ha, poi, affermato che ‘ dopo la pronuncia n. 2061 del 28/01/2021 delle Sezioni Unite la previsione di pattuizioni che prevedano l’acquisizione da parte del concedente dei canoni scaduti e impagati è ammessa, perché è conforme all’art. 1526, 2° comma, c.c., siccome è consentito statuire che i canoni non ancora scaduti siano dovuti al concedente (art. 1382 c.c.), sempre che il concedente indichi la somma ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto del contratto ovvero alleghi una stima attendibile del relativo valore di mercato all’attualità, onde consentire al giudice di apprezzare l’eventuale manifesta eccessività della penale ‘; con la conseguenza che ‘ a) se al momento in cui il concedente esige il proprio credito (restitutorio e/o risarcitorio) nei confronti dell’utilizzatore il bene è stato già rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il ricavato, salva la responsabilità del concedente ex art. 1227, 2° comma, c.c. nel caso di vendita ad un prezzo vile per propria negligenza; b) se al momento in cui esige il proprio credito nei confronti dell’utilizzatore il bene non è stato ancora rivenduto, il concedente dovrà portare in diffalco il valore commerciale del bene, stimato col criterio del valore equo di mercato ‘ (nel medesimo senso si veda anche, da ultimo, Cass., n. 18191/2024).
Con il quarto motivo, i ricorrenti denunziano la violazione dell’art. 1382 c.c., con riferimento alla pattuizione convenzionale che prevedeva l’applicazione d el saggio di interessi di mora pari a ll’8,5% anche sull’importo dovuto dall’utilizzatore a titolo di penale.
Anche questo motivo è infondato, alla luce dell ‘ affermazione giurisprudenziale per cui ‘ la penale di cui all’art. 1382 c.c. costituisce debito valuta e non di valore. Consegue che ove la prestazione oggetto della penale non sia eseguita o sia eseguita in ritardo, per essa sono dovuti, ricorrendone le rispettive condizioni, gli interessi moratori e l’eventuale maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., a ciò non ostando l’effetto, proprio della clausola penale, di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non è stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore, atteso che la penale, pur essendo obbligazione accessoria, ha una sua autonoma identità quale obbligazione pecuniaria, mentre la prevista limitazione del risarcimento attiene all’inadempimento o al ritardo nell’adempimento dell’obbligazione principale.’ (Cass., n. 3641/1998).
Con il quinto motivo di ricorso, i ricorrenti censurano la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art . 360, n. 4, c.p.c., per avere la C orte d’ Appello di Torino ritenuto di non poter procedere d’ufficio alla riduzione della penale, senza tener conto delle risultanze processuali da cui era dato desumere l’eccessività della stessa.
Il motivo è infondato.
Fermo restando quanto detto sopra in ordine alla validità della clausola penale come congegnata dalle parti, occorre evidenziare come l’individuazione dell’ammontare dell’equo compenso, per mezzo di una c.t.u., non valesse a segnare il limite della pretesa del concedente, proprio in considerazione della previsione di una clausola penale preordinata a coprire il (distinto) credito risarcitorio (legittimamente estendibile -per quanto s’è detto anche al controvalore dei canoni a scadere).
Quanto, poi, all ‘asserita vendita dei beni, manca qualsivoglia esplicitazione , da parte dei ricorrenti, dell’avvenuta dimostrazione, in seno al giudizio di merito, dell’avvenuta restituzione degli stessi (la quale, ai termini di Cass., n. 7367/2023, rappresenta condizione per la concreta riducibilità della penale), non essendo in alcun modo idoneo, allo scopo, il doc. 17 allegato al ricorso, dal quale si evince la vendita, in seno a una non meglio identificata procedura esecutiva immobiliare intentata da RAGIONE_SOCIALE, di beni per un valore di poche migliaia di euro (vendita che -di per sé -neppure dimostra l’avvenuto incameramento del ricavato in favore del concedente).
Con il sesto motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 1 d.p.r. n. 633/1972, per non avere il giudice di merito scorporato
l’Iva dalla somma richiesta dalla concedente a titolo risarcitorio.
Il motivo è inammissibile, non risultando la questione proposta con i motivi d’appello (riportati a pagg. 20 e s. del ricorso): del resto, se lo fosse stata, i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., non essendovi traccia della relativa trattazione nella sentenza in questa sede impugnata. Occorre, peraltro, rammentare, in linea generale, che, ‘ qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla RAGIONE_SOCIALE di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione ‘ (Cass., n. 15430/2018).
Con il settimo motivo, i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 1942 c.c., per aver e la Corte d’appello erroneamente ritenuto che la fideiussione si estendesse al di là delle obbligazioni discendenti dal contratto, ovvero a dire quelle di risarcimento del danno)
Anche questo motivo è da rigettare, sulla scorta d ell’insegnamento di cui a Cass., n. 1468/1963, secondo cui, ‘ a norma dell’art 1942 c.c. la fideiussione si estende, salvo patto contrario, a tutti gli accessori del debito principale; da ciò consegue che la fideiussione si estende anche alla garanzia per il pagamento della penale eventualmente stabilita nel contratto cui accede la fideiussione, per il caso di mancato adempimento del debitore ‘.
All’infondatezza (o inammissibilità) dei motivi consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente società RAGIONE_SOCIALE, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 9.200,00 ( di cui € 200,00 per esborsi ), oltre a spese generali e accessori di legge, in favore della controricorrente società RAGIONE_SOCIALE
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, del contributo unificato relativo al ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza sezione