Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 19358 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 3 Num. 19358 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/07/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 32309/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dal prof. avv. COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) e dal prof. avv. COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente principale-
contro
RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) e COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
LEASING. AFFITTO DI AZIENDA. CESSIONE DI CREDITI IN GARANZIA.
R.G. 32309/2020
COGNOME.
Rep.
U.P. 18/4/2024
C.C. 14/4/2022
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa come sopra
-controricorrente al ricorso incidentale- avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di TORINO n. 1053/2020 depositata il 23/10/2020.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Udito il AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, con rigetto del primo e assorbimento degli altri, nonché per il rigetto del ricorso incidentale.
FATTI DI CAUSA
La causa odierna si fonda su di una complessa vicenda che vede coinvolte più parti e che ha ad oggetto la locazione e il leasing di un’importante struttura immobiliare sita in Roma.
Per quanto è dato comprendere dalla lettura della sentenza impugnata e degli atti di parte, la premessa in fatto è così riassumibile: la RAGIONE_SOCIALE, cui poi succedeva per atto di scissione parziale del dicembre 2009 la RAGIONE_SOCIALE, acquistò dalla RAGIONE_SOCIALE, con atto di compravendita del 29 novembre 2004, un complesso immobiliare a vocazione alberghiera, denominato ‘RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE‘, sito in Roma nel quartiere Prati; tale immobile venne concesso contestualmente in leasing finanziario alla parte venditrice, con un contratto la cui scadenza fu fissata al 31 dicembre 2014; la RAGIONE_SOCIALE diede in locazione, con contratto del 1° dicembre 2004, il bene immobile alla RAGIONE_SOCIALE, società poi incorporata nella RAGIONE_SOCIALE, fallita nel marzo 2015; il contratto di leasing fu ceduto, con atto del 29 novembre 2005, dalla RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE, società di diritto lussemburghese, che così subentrò quale locatrice nel contratto di locazione suindicato; nell’accordo venne altresì pattuita la cessione dei canoni del contratto locativo alla
concedente (cioè all’allora RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE) a garanzia del pagamento del corrispettivo del leasing; il 28 aprile 2006 la RAGIONE_SOCIALE stipulò sull’immobile un contratto di affitto dell’azienda alberghiera in favore della RAGIONE_SOCIALE (poi divenuta RAGIONE_SOCIALE), comprensivo di tutti i beni e gli arredi necessari per lo svolgimento di tale attività (contratto di nove anni, decorrenti dal 1° giugno 2006 e, quindi, destinato a scadere il 31 maggio 2015); nel gennaio 2012 la RAGIONE_SOCIALE comunicò alla RAGIONE_SOCIALE di aver ceduto in garanzia, in favore della RAGIONE_SOCIALE, con l’accordo del 2 dicembre 2011, i canoni derivanti dal contratto di affitto di azienda, dando indicazioni all’affittuaria di versarli direttamente alla RAGIONE_SOCIALE; tali pagamenti ebbero luogo fino al 31 dicembre 2014; nel luglio 2014 la RAGIONE_SOCIALE comunicò alla RAGIONE_SOCIALE di rinunciare alla proroga dell’affitto di azienda, di talché quel contratto andò a cessare alla data del 31 maggio 2015; nel frattempo, il contratto di leasing tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE era cessato alla data del 31 dicembre 2014 (come stabilito).
2. Così riassunti, per sommi capi, i presupposti in fatto della vicenda, la causa odierne prese avvio, con ricorso ai sensi dell’art. 702bis cod. proc. civ., su iniziativa della RAGIONE_SOCIALE, la quale convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Torino, la RAGIONE_SOCIALE, chiedendo che fosse condannata al pagamento della somma di euro 3.000.000 o, in subordine, di euro 2.800.000, a titolo di indennità di occupazione dell’immobile dal 1° gennaio al 31 maggio 2015, oltre ad ulteriori importi a titolo di risarcimento danni conseguenti al deterioramento dell’immobile; chiese altresì, in via subordinata, che la stessa somma venisse pagata dalla parte convenuta in forza di una diversa causa petendi, costituita dal suindicato contratto di cessione dei crediti del 2 dicembre 2011.
A sostegno della domanda espose, tra l’altro, che, cessato alla data del 31 dicembre 2014 il contratto principale, anche quelli
ulteriori e derivati dovevano avere la stessa scadenza; che l’ultimo canone pagato dalla convenuta era quello del dicembre 2014 e che, pertanto, l’ulteriore detenzione fino al 31 maggio 2015 doveva ritenersi sine titulo .
La RAGIONE_SOCIALE non si costituì e fu dichiarata contumace.
Il Tribunale, senza svolgimento di attività istruttoria, condannò la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di euro 2.027.548,04 a titolo di indennità per occupazione sine titulo dell’immobile per il periodo dal 1° gennaio al 31 maggio 2015, rigettò le ulteriori domande di parte attrice e condannò la convenuta al pagamento delle spese di lite.
Avverso detta sentenza è stato proposto appello principale dalla RAGIONE_SOCIALE e appello incidentale dalla RAGIONE_SOCIALE e la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 23 ottobre 2020, ha respinto l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, ha condannato la RAGIONE_SOCIALE al pagamento della maggiore somma di euro 2.802.919,35, con gli interessi e con il carico delle ulteriori spese del grado.
3.1. La Corte territoriale ha innanzitutto osservato che l’appellante principale aveva, nel secondo motivo di impugnazione, negato che la detenzione dell’immobile, da parte sua, nel periodo tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2015 potesse considerarsi sine titulo , poiché tale detenzione non derivava né da una sublocazione né dalla cessione di tale contratto in suo favore, quanto piuttosto dal contratto di affitto di azienda dalla RAGIONE_SOCIALE concluso con la RAGIONE_SOCIALE alla quale era succeduta la società NOME.
A tal proposito la Corte di merito, dopo aver richiamato il contenuto del contratto di affitto di azienda alberghiera del 28 aprile 2006, ha rilevato che la sentenza del Tribunale aveva stabilito, alla luce dell’art. 1595, terzo comma, cod. civ., che il diritto della RAGIONE_SOCIALE ad ottenere la restituzione dell’immobile era divenuto attuale già alla data del 31 dicembre 2014, «in
coincidenza con lo spirare del contratto principale di locazione finanziaria concluso dapprima con la RAGIONE_SOCIALE che l’aveva poi ceduto alla RAGIONE_SOCIALE, a sua volta locatrice del bene in favore dell’RAGIONE_SOCIALE». Tuttavia, dopo aver ricordato che l’art. 1595, terzo comma, cit. limita gli effetti estensivi nei confronti del subconduttore unicamente alle ipotesi di nullità e risoluzione del contratto principale, la Corte torinese ha concluso nel senso che l’accordo intervenuto in data 28 maggio 2014 (relativo alla locazione finanziaria, cioè al rapporto principale) rimaneva, rispetto alla società RAGIONE_SOCIALE, una res inter alios acta . E da tanto ha dedotto che la scadenza dell’affitto di azienda rimaneva fissata al 31 maggio 2015 nonostante la locazione finanziaria si fosse conclusa il precedente 31 dicembre 2014; sicché «la perdurante detenzione, da parte dell’affittuaria, dell’immobile in questione non poteva reputarsi, sotto nessun profilo, connotato da illiceità», e a carico della detentrice non poteva sorgere alcuna obbligazione risarcitoria ai sensi dell’art. 1591 codice civile.
Tanto premesso, la Corte torinese ha ricordato che la società RAGIONE_SOCIALE aveva fondato la propria domanda di pagamento anche su altre causae petendi , una delle quali era costituita dalla cessione, in suo favore, dei canoni periodici di affitto; tale cessione, risultante dal suindicato contratto del 2 dicembre 2011, era stata rispettata dalla RAGIONE_SOCIALE, che vi aveva dato esecuzione pagando il dovuto «sino a tutto dicembre 2014». La RAGIONE_SOCIALE, in verità, aveva sostenuto di aver versato anche il canone del gennaio 2015, ma la relativa eccezione di pagamento era stata sollevata tardivamente ed era da ritenere, pertanto, inammissibile. Ne conseguiva che, calcolando l’importo mensile dovuto dalla RAGIONE_SOCIALE (sulla base del carteggio intercorso tra le parti), la Corte territoriale ha individuato detta somma in quella di euro 560.583,97; e pertanto il canone dovuto per i cinque mesi decorrenti dal 1° gennaio al 31 maggio 2015 è stato fissato nella somma di euro 2.802.919,35, in
accoglimento dell’appello incidentale della società RAGIONE_SOCIALE e rigettando, dunque, integralmente l’appello principale.
3.2. La sentenza ha poi esaminato, in ultimo, il problema dell’ulteriore domanda proposta dalla società RAGIONE_SOCIALE, volta ad ottenere la condanna della società RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni asseritamente derivanti dal pessimo stato di manutenzione dell’immobile verificato al momento della riconsegna.
A questo proposito, la Corte d’appello ha premesso una distinzione tra le due fattispecie di cui all’art. 1595, primo e terzo comma, cod. civ., trattandosi di due ipotesi diverse. Pur non potendosi negare, da un punto di vista oggettivo, «un collegamento negoziale tra una locazione immobiliare ed un successivo affitto stipulato da un ulteriore soggetto subcontraente», l’art. 1595 cit. presuppone l’esatta corrispondenza della res locata , elemento che non sussisteva nel caso di specie. Ha osservato la Corte d’appello, al riguardo, che il contratto originario era di locazione, mentre quello stipulato con la società RAGIONE_SOCIALE era un affitto di azienda; e anche la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che nella locazione di immobile con pertinenze l’immobile viene considerato «come l’oggetto principale della stipulazione», mentre nell’affitto di azienda l’immobile «non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo». E nel caso specifico il fondamento giuridico in base al quale la società RAGIONE_SOCIALE era subentrata nel rapporto è stato individuato nell’art. 36 della legge 27 luglio 1978, n. 392, «che si limita a rendere coobbligato il conduttore cedente qualora il cessionario si sia reso inadempiente».
Tutto ciò premesso, la Corte torinese è pervenuta alla conclusione in base alla quale nella vicenda in esame non era ravvisabile una stretta derivazione tra la locazione finanziaria
stipulata dalla società RAGIONE_SOCIALE (cui era succeduta la società RAGIONE_SOCIALE) e l’affitto di azienda stipulato dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, quanto piuttosto, e più semplicemente, un’ipotesi di collegamento negoziale. Collegamento che, com’è noto, non dà luogo ad un autonomo contratto, quanto piuttosto al permanere, per ciascuno dei singoli contratti, di una propria causa e di una propria individualità giuridica; tanto più che l’art. 1595 cod. civ. si riferisce alla sola ipotesi della sublocazione, e non anche a quella di cessione del contratto. D’altra parte, la RAGIONE_SOCIALE non aveva «seriamente contestato l’assunto del Tribunale» secondo cui essa era estranea al rapporto obbligatorio tra la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE «e quindi in nessun modo titolata ex latere creditoris ad avanzare pretese di sorta nei confronti della prima».
Ad ulteriore conforto della decisione di rigettare l’appello incidentale in relazione alla domanda risarcitoria avanzata dalla società RAGIONE_SOCIALE, la Corte di merito ha aggiunto che una parte della domanda aveva ad oggetto soltanto alcuni complementi d’arredo; mentre l’obbligo di manutenzione delle facciate non poteva gravare sull’affittuaria, dal momento che il contratto prevedeva la permanenza di tale obbligo in capo all’RAGIONE_SOCIALE. Ha poi osservato la sentenza che, a norma dell’art. 2561 cod. civ. applicabile anche all’affitto di azienda, in considerazione del rinvio di cui all’art. 2562 cod. civ. -la differenza tra le consistenze d’inventario all’inizio e al termine viene regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine del rapporto. Ne consegue che nessuna azione diretta era da ritenere esistente in capo al locatore principale «nei confronti dell’affittuario immesso nel godimento dell’immobile che ospita l’azienda»; e tanto perché, al momento della cessazione del rapporto, «insorgerà in capo all’uno o all’altro dei contraenti (RAGIONE_SOCIALE o affittuario) un diritto di credito, a seconda che la contestuale e complessiva valutazione dell’azienda denoti un decremento oppure un supero rispetto a quella iniziale». Tale
diritto, ha osservato la Corte d’appello, poteva sorgere, quindi, solo tra la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE alla quale, non a caso, il complesso aziendale era stato restituito alla scadenza del 31 maggio 2015.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino propone ricorso principale la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) con atto affidato a quattro motivi.
Resiste la RAGIONE_SOCIALE con controricorso contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo.
La RAGIONE_SOCIALE resiste al ricorso incidentale con controricorso.
Hanno depositato memorie la RAGIONE_SOCIALE e il Banco BPM di RAGIONE_SOCIALE (subentrato alla società RAGIONE_SOCIALE).
Il AVV_NOTAIO generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del secondo motivo del ricorso principale, con rigetto del primo e assorbimento degli altri, nonché il rigetto del ricorso incidentale.
RAGIONI COGNOMEA DECISIONE
Ricorso principale.
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza e violazione degli artt. 112, 345 e 346 cod. proc. civ., in relazione all’accoglimento dell’appello incidentale sotto il profilo dell’incremento della condanna, posta a capo dell’allora RAGIONE_SOCIALE, per canoni di affitto fino al 31 maggio 2015 a titolo di cessione in garanzia.
La ricorrente osserva che la sentenza impugnata -dopo aver respinto, contrariamente a quanto deciso dal Tribunale, la domanda principale della società RAGIONE_SOCIALE, avente fondamento extracontrattuale nell’asserita occupazione illegittima del bene ha tuttavia incrementato l’entità della condanna richiamando un’ulteriore causa petendi posta a fondamento della domanda, costituita dalla cessione dei crediti in garanzia da parte della RAGIONE_SOCIALE
in favore della RAGIONE_SOCIALE. In questo modo la sentenza avrebbe commesso due violazioni. In primo luogo, infatti, essa avrebbe ripreso in esame la domanda subordinata (fondata, appunto, sulla cessione in garanzia) che non era stata riproposta in appello ai sensi dell’art. 346 cit., per cui la Corte d’appello avrebbe dovuto considerarla rinunciata, senza potervi provvedere. In secondo luogo, anche ammettendo che la riproposizione vi fosse stata, non poteva trattarsi di altro che della stessa domanda già posta in primo grado ; mentre la sentenza avrebbe accolto l’appello incidentale sulla base di un fatto costitutivo mai proposto in primo grado, e quindi in violazione dell’art. 345 citato. Contestando quanto deciso dalla Corte d’appello, la parte ricorrente rileva che nell’appello incidentale la RAGIONE_SOCIALE non aveva mai fatto alcun cenno alla domanda subordinata fondata sulla cessione dei canoni di affitto; e dal dispositivo della sentenza non sarebbe possibile dedurre in accoglimento di quale specifico motivo di appello fosse stata pronunciata quella condanna. La RAGIONE_SOCIALE, poi, aggiunge che la decisione impugnata sarebbe errata anche per un ulteriore profilo. Poiché la domanda subordinata si fondava su due elementi, costituiti l’uno dalla stipula dell’atto di cessione in data 2 dicembre 2011 e l’altro dalla perdurante efficacia del contratto di leasing, la sentenza sarebbe incorsa in un palese errore dal momento che, pur avendo affermato che il leasing era cessato alla data del 31 dicembre 2014, ha tuttavia considerato permanente l’obbligo di garanzia anche dopo quella data, condannando la RAGIONE_SOCIALE al pagamento di una somma aumentata rispetto al primo grado.
La Corte osserva che il motivo pone diverse censure.
2.1. La prima violazione di legge prospettata riguarda la presunta lesione dell’art. 346 cod. proc. civ., e si fonda sull’assunto per cui la Corte d’appello, accogliendo la domanda risarcitoria formulata dalla società RAGIONE_SOCIALE per un titolo diverso da quello accolto dal Tribunale, si sarebbe pronunciata su una domanda non
riproposta nel giudizio di appello. Mentre il Tribunale, infatti, aveva condannato la società RAGIONE_SOCIALE a titolo di occupazione illegittima (art. 1591 cod. civ.), la Corte d’appello ha fondato analoga pronuncia sulla base del diverso titolo costituito dalla cessione in garanzia dei crediti derivanti dal contratto di affitto di azienda.
Questa prima censura è priva di fondamento.
Giova ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 12 maggio 2017, n. 11799, hanno affermato il principio secondo cui in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed in modo inequivoco, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, secondo comma, cod. proc. civ. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, secondo comma, cod. proc. civ.), né sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, secondo comma, del codice di rito (tale principio è stato sostanzialmente ribadito anche nelle successive sentenze 25 maggio 2018, n. 13195, e 21 marzo 2019, n. 7940, delle medesime Sezioni Unite).
La successiva ordinanza 20 dicembre 2021, n. 40833, richiamando tale insegnamento, ha affermato che l’appellante che impugni la sentenza con la quale il giudice di primo grado non si sia
espressamente pronunciato su una domanda condizionata di garanzia, ritenuta assorbita da un’altra decisione di carattere logicamente preliminare, non ha l’onere di formulare uno specifico motivo di gravame sulla questione assorbita, ma soltanto quello di riproporre, nel rispetto dell’art. 346 cod. proc. civ. e, dunque, pur nella libertà delle forme, in modo specifico, non essendo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice -tanto la domanda, quanto i mezzi di prova non ammessi in prime cure.
A simile consolidata giurisprudenza la pronuncia odierna intende dare piena continuità. Ne consegue che nel caso in esame nessuna violazione dell’art. 346 cit. è imputabile alla Corte d’appello, dal momento che le conclusioni rassegnate dalla società RAGIONE_SOCIALE in secondo grado, integralmente trascritte nell’epigrafe della sentenza, dimostrano senza ombra di dubbio che la domanda di condanna venne riproposta in appello, nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, in via principale ai sensi dell’art. 1595 cod. civ. e, in via subordinata, sulla base dell’atto di cessione dei crediti del 2 dicembre 2011. E poiché in primo grado la domanda di risarcimento fondata sulla cessione dei crediti non era stata affatto scrutinata nel merito, avendo il Tribunale accolto la domanda principale, è pacifico che l’aver riprodotto nelle conclusioni anche la domanda subordinata costituisce prova più che sufficiente ad affermare che la previsione dell’art. 346 cit. è stata pienamente rispettata (la Corte d’appello, del resto, ha indicato, a p. 12 della motivazione, i punti nei quali la domanda subordinata era stata riproposta).
2.2. La seconda censura prospettata attiene alla presunta violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per ultrapetizione.
Ritiene il Collegio che anche questa censura sia priva di fondamento.
Ed invero, una volta accertato, come si è appena detto, che la domanda subordinata di condanna fondata sulla cessione in garanzia era stata riproposta in appello, la circostanza per cui la Corte di merito ha accolto tale domanda in (ritenuto) contrasto con la scadenza del contratto di leasing al 31 dicembre 2014 non integra comunque il vizio di ultrapetizione. In altre parole, la causa petendi sulla quale la Corte d’appello ha fondato l’accoglimento della domanda di condanna, e cioè il negozio di cessione del credito, era stata posta; per cui le modalità del suo accoglimento non possono integrare violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ma, semmai, riguardano il merito di tale accoglimento. Il che, non a caso, è oggetto del secondo motivo di ricorso, che si va adesso ad esaminare.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza e violazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., nonché degli artt. 1260, 1939, 1941 e 1353 cod. civ., per avere -sotto il primo profilo -la Corte d’appello accolto la domanda subordinata, fondata sulla cessione del credito in garanzia, «del tutto a sorpresa» e senza contraddittorio tra le parti, e -sotto il secondo profilo -per aver violato le norme sostanziali indicate.
Osserva la ricorrente che, anche ammettendo che la Corte d’appello potesse pronunciarsi sulla domanda della RAGIONE_SOCIALE fondata sulla cessione dei canoni di affitto in suo favore, tale questione era rimasta «assorbita e dunque del tutto ignorata dalla pronuncia di primo grado», mentre sul punto non si era sviluppato alcun contraddittorio nel giudizio di appello. Oltre tutto, rileva la ricorrente, se la Corte d’appello avesse correttamente tenuto presente che la cessazione del contratto di leasing (al 31 dicembre 2014) comportava in via automatica la retrocessione del credito dalla RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE, mai avrebbe potuto accogliere la domanda
di condanna fondata sulla cessione del credito. Doveva considerarsi pacifico in base agli atti di causa, infatti, che la cessione dei crediti aveva una funzione di garanzia, che l’obbligazione garantita si era pacificamente estinta (essendo venuto meno, come si è detto, il contratto di leasing) e che la società RAGIONE_SOCIALE aveva regolarmente pagato i propri debiti fino a tutto dicembre 2014, cioè fino alla scadenza del contratto di leasing. La Corte d’appello, in definitiva, avrebbe errato 1) nel ritenere efficace il contratto di cessione, con permanenza della garanzia, senza che vi fosse alcun inadempimento da parte della RAGIONE_SOCIALE relativamente al contratto di leasing e 2) nel ritenere che la RAGIONE_SOCIALE potesse rimanere creditrice in forza del contratto di cessione dei crediti in garanzia, essendosi il contratto di leasing (garantito) pacificamente concluso il 31 dicembre 2014.
3.1. Il motivo contiene due censure.
La prima ha ad oggetto la presunta violazione dell’art. 101 cit., ed è priva di fondamento.
La norma ora richiamata esige che la decisione su di una determinata questione non intervenga, come suol dirsi, a sorpresa ; ma è evidente che, proposta in primo grado la domanda subordinata di condanna fondata sulla cessione dei canoni in garanzia e ribadita la stessa in appello, non si era in presenza di una questione rilevata d’ufficio dal giudice, sulla quale doveva essere stimolato il contraddittorio. Il contraddittorio c’era già e l’odierna ricorrente principale era ben consapevole del fatto di doversi difendere anche rispetto a quella domanda, sicché la lamentata violazione di legge non sussiste.
3.2. La seconda censura, invece, è fondata.
La vicenda in fatto è complessa, caratterizzata dall’intreccio tra una pluralità di parti e di contratti.
È opportuno ricapitolarne rapidamente i principali passaggi: la società RAGIONE_SOCIALE acquistò l’immobile dalla società RAGIONE_SOCIALE,
cedendolo alla stessa in leasing; quest’ultima concesse in locazione l’immobile alla RAGIONE_SOCIALE, incorporata nella società RAGIONE_SOCIALE, poi fallita; la società RAGIONE_SOCIALE cedette il contratto di leasing alla RAGIONE_SOCIALE, società lussemburghese, la quale subentrò quindi nella posizione di locatrice dell’immobile; la società RAGIONE_SOCIALE stipulò con la società RAGIONE_SOCIALE il contratto di affitto di azienda, comunicandole poi di aver ceduto in favore della società RAGIONE_SOCIALE, col contratto del 2 dicembre 2011, i canoni derivanti dall’affitto, a garanzia del pagamento del corrispettivo del leasing. È pacifico dagli atti di causa che, mentre il contratto di leasing tra la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE andò a scadere alla data del 31 dicembre 2014, quello di affitto di azienda intercorso tra la società RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE, decorrente dal 1° giugno 2006 per la durata di nove anni (non prorogati), andò a scadere il 31 maggio 2015.
Può dirsi che il cuore della causa odierna risieda tutto in questa diversa scansione temporale dei due contratti, per cui l’affitto di azienda si protrasse per cinque mesi in più rispetto al contratto di leasing.
Tutto ciò premesso in punto di fatto, la questione giuridica sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se, cessato il contratto di leasing alla data del 31 dicembre 2014 -a garanzia del quale c’era stata la cessione del 2 dicembre 2011 intercorsa tra la società RAGIONE_SOCIALE e la società RAGIONE_SOCIALE -la società RAGIONE_SOCIALE, rimasta nella detenzione dell’immobile a titolo di affittuaria dell’azienda fino al 31 maggio 2015, fosse tenuta o meno al pagamento dei canoni di quei cinque mesi in favore della società RAGIONE_SOCIALE.
Si tratta, in altri termini, di stabilire se, pacifica essendo la diversità delle parti che hanno stipulato i contratti di cui si discute, la società RAGIONE_SOCIALE abbia diritto o meno di pretendere dalla società RAGIONE_SOCIALE (oggi RAGIONE_SOCIALE), a titolo di garanzia, il pagamento dei canoni suindicati.
La Corte ritiene che la risposta sia negativa.
Deve essere richiamata in proposito -come correttamente ha rilevato il AVV_NOTAIO generale nelle sue conclusioni scritte -la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la cessione del credito, avendo causa variabile, può avere anche funzione esclusiva di garanzia, comportando in tal caso il medesimo effetto, tipico della cessione ordinaria, immediatamente traslativo del diritto al cessionario, nel senso che il credito ceduto entra nel patrimonio del cessionario e diventa un credito proprio di quest’ultimo; sicché egli è legittimato ad azionare sia il credito originario sia quello che gli è stato ceduto in garanzia, sempre che persista l’obbligazione del debitore garantito. Qualora, invece, si verifichi l’estinzione, totale o parziale, dell’obbligazione garantita, il credito ceduto a scopo di garanzia, nella stessa quantità, si ritrasferisce automaticamente nella sfera giuridica del cedente, con un meccanismo analogo a quello della condizione risolutiva, senza quindi che occorra, da parte del cessionario, un’attività negoziale diretta a tal fine (così già la risalente sentenza 2 aprile 2001, n. 4796; ma in senso conforme sono da richiamare l’ordinanza 28 maggio 2020, n. 10092, la sentenza 25 maggio 2022, n. 16837, e, da ultimo, l’ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35918).
In base a tale giurisprudenza, alla quale la pronuncia odierna intende dare ulteriore continuità, la cessione del credito può sì avvenire anche a titolo di garanzia, ma in tal caso, se l’obbligazione garantita si estingue, si verifica un meccanismo paragonabile a quello della condizione risolutiva, con conseguente retrocessione del credito garantito nella sfera giuridica del cedente. Ne consegue che, applicando detto principio al caso in esame, una volta venuto meno il contratto di leasing al 31 dicembre 2014, la società RAGIONE_SOCIALE non poteva più far valere l’obbligazione di garanzia, nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, allo scopo di ottenere da questa il pagamento dei cinque mesi di canone relativi al diverso contratto di affitto di
azienda. Né l’accertata occupazione, da parte della RAGIONE_SOCIALE, dell’immobile fino al 31 maggio 2015 poteva costituire titolo idoneo, in capo alla società RAGIONE_SOCIALE, per esigere un pagamento che era stato ceduto a garanzia del pagamento dei canoni di leasing. È appena il caso di osservare, d’altronde, che una simile pretesa avrebbe potuto essere avanzata -ragionando in via di mera ipotesi -solo se vi fosse stata, da parte della società RAGIONE_SOCIALE, una contestazione riguardante l’inadempimento del contratto di leasing (per il quale la garanzia era stata costituita). Ma tale contestazione certamente non vi fu, posto che risulta pacificamente dalla sentenza -e non sembra ci sia discussione sul punto -che la società RAGIONE_SOCIALE pagò regolarmente i canoni di affitto (ceduti in garanzia) fino al 31 dicembre 2014, data in cui il leasing ebbe termine (v. anche i rilievi del ricorso principale a p. 30).
Come emerge dal ricorso principale, d’altra parte, né vi sono state contestazioni sul punto, la società RAGIONE_SOCIALE concluse un accordo transattivo con il Fallimento della società RAGIONE_SOCIALE avente ad oggetto il pagamento dei cinque mesi di affitto di cui si discute; e questo elemento, che rimane peraltro sullo sfondo, irradia sulla vicenda una luce ulteriore, corroborando la bontà della conclusione raggiunta.
In base a tutte queste considerazioni il secondo motivo di ricorso deve essere accolto.
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza e violazione degli artt. 112, 167 e 345, secondo comma, cod. proc. civ., nonché per violazione dei principi giurisprudenziali in tema di rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di pagamento.
La ricorrente osserva che la sentenza avrebbe errato anche nella parte in cui -dando atto che la RAGIONE_SOCIALE aveva eccepito di aver pagato il canone mensile relativo a gennaio 2015 -ha poi
affermato che tale eccezione era tardiva e, come tale, inammissibile. Per pacifico orientamento della giurisprudenza, infatti, il pagamento inteso come fatto estintivo non costituisce un’eccezione in senso stretto, ma in senso lato, ed è dunque rilevabile d’ufficio.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza per intrinseca contraddittorietà del dispositivo rispetto alla motivazione e per radicale carenza di una motivazione a sostegno della decisione.
La sentenza, secondo la parte ricorrente, è pervenuta al rigetto totale dell’appello principale, rendendo in tal modo una statuizione intrinsecamente contraddittoria con conseguente nullità della stessa, data l’impossibilità di comprendere quale sia l’effettivo contenuto complessivo della decisione. Ne deriva che dall’accoglimento, in tutto o in parte, del primo o secondo motivo dell’odierno ricorso, dovrebbe dedursi la necessità di un ripensamento anche della condanna alle spese del giudizio di primo grado.
L’accoglimento del secondo motivo determina l’evidente assorbimento dei motivi terzo e quarto del ricorso principale, come richiesto anche dal AVV_NOTAIO generale nelle sue conclusioni scritte.
Ricorso incidentale.
Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., nullità della sentenza per intrinseca contraddizione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ., nonché degli artt. 817, 818, 934, 939, 1590, 1595, 2041, 2043 e 2561 cod. civ., in relazione al rigetto dell’appello incidentale proposto dalla RAGIONE_SOCIALE limitatamente alla domanda di risarcimento dei danni da
deterioramento del complesso immobiliare oggetto di affitto in favore della RAGIONE_SOCIALE.
Osserva la società RAGIONE_SOCIALE che la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso il diritto di RAGIONE_SOCIALE ad ottenere da RAGIONE_SOCIALE il risarcimento dei danni conseguenti al danneggiamento dell’immobile all’interno del quale la stessa aveva esercitato l’attività aziendale alberghiera sulla base del contratto di affitto di azienda concluso con la RAGIONE_SOCIALE. La ricorrente premette che a carico della RAGIONE_SOCIALE sussisteva comunque l’obbligo di manutenzione dell’immobile, ai sensi dell’art. 1590 cod. civ. o, in alternativa, sulla base del contratto di cessione dei canoni di affitto dell’azienda. La Corte d’appello, pur riconoscendo l’esistenza di un collegamento negoziale tra il contratto di leasing, quello di locazione e quello di affitto di azienda, avrebbe erroneamente respinto la domanda risarcitoria. Doveva, infatti, ritenersi pacifico che la RAGIONE_SOCIALE fosse proprietaria dell’immobile il cui godimento formava oggetto dell’affitto di azienda; che la RAGIONE_SOCIALE fosse titolare degli altri componenti dell’azienda affittata; che a carico della RAGIONE_SOCIALE sussistesse un obbligo di mantenere la buona conservazione dei beni aziendali e dell’immobile, obbligo che essa non aveva adempiuto. Ciò premesso, la ricorrente rileva che il risarcimento dei danni dovrebbe spettare comunque al proprietario e non alla RAGIONE_SOCIALE; la ratio dell’art. 1595 cod. civ., infatti, è nel senso che il conduttore sublocatore non possa ottenere il risarcimento dei danni da parte del subconduttore occupante (cioè, appunto, la RAGIONE_SOCIALE) senza riconoscerli al proprietario, «ultimo legittimato della catena ad ottenerli».
7.1. La Corte ritiene che il ricorso incidentale sia inammissibile per le seguenti ragioni.
Occorre innanzitutto sgomberare il campo dalla censura che ha ad oggetto la presunta violazione dell’art. 2043 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., relativa alla sussistenza di una responsabilità
della società RAGIONE_SOCIALE a titolo extracontrattuale. Come correttamente è stato affermato dal AVV_NOTAIO generale nelle sue conclusioni per iscritto, la società RAGIONE_SOCIALE non ha dimostrato di aver proposto (e ribadito in appello) simile domanda risarcitoria. Dal tenore delle conclusioni riportate dalla Corte torinese nell’epigrafe della sentenza impugnata emerge che quella domanda non fu proposta e che la domanda di risarcimento danni fu avanzata solo ai sensi dell’art. 1595, primo comma, cod. civ., sicché questa parte della censura è inammissibile.
Il resto del complesso motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione di legge che deriverebbe, nella specie, dall’omessa applicazione, da parte della Corte d’appello, dell’art. 1595, primo comma, cit.; norma, questa, che abilita il locatore ad agire direttamente nei confronti del subconduttore per esigere il prezzo della sublocazione e per costringerlo all’adempimento delle altre obbligazioni derivanti da tale contratto. Si dovrebbe quindi stabilire l’esatta portata della norma richiamata e se, in particolare, essa sia applicabile anche al contratto di affitto (posto che, come si è visto, la società RAGIONE_SOCIALE era affittuaria dell’azienda).
Osserva la Corte, però, che la censura del ricorso incidentale risulta non conferente rispetto alla motivazione della sentenza impugnata. Ed invero la Corte d’appello ha svolto sul punto una lunga motivazione nella quale ha affermato, tra l’altro, che l’art. 1595 cod. civ. non poteva applicarsi perché qui si trattava di cessione di contratto e non di sublocazione (nel senso che il conduttore sublocatore era la RAGIONE_SOCIALE), e che vi è una chiara differenza tra «la semplice locazione di un bene materiale non produttivo e l’affitto di un’azienda che ricomprenda tra le sue varie utilità (…) il diritto di conseguire e mantenere la detenzione di detto bene». Per cui, in definitiva, appariva di «ardua ravvisabilità» un rapporto di stretta derivazione tra il leasing concluso dalla società RAGIONE_SOCIALE e l’affitto di azienda stipulato dalla RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, con la società RAGIONE_SOCIALE. Non solo; la Corte d’appello ha anche dato rilievo, correttamente, al fatto che la società RAGIONE_SOCIALE non aveva «seriamente contestato» l’assunto del Tribunale secondo cui essa era estranea al rapporto obbligatorio tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, di talché non poteva avanzare pretese dirette nei confronti di quest’ultima, con la quale non era legata da un vincolo contrattuale diretto.
A fronte di questo complesso di argomenti, il ricorso incidentale si svolge attraverso una serie di considerazioni che: da un lato, omettono di individuare con precisione la specifica parte della motivazione che si intende censurare, di modo che dovrebbe questa Corte, di sua iniziativa e sopperendo ad un compito che spettava a parte ricorrente incidentale, ricercare ciò che nelle pagine dalla 31 del ricorso, dopo gli asterischi e sino alla fine, dovrebbe essere l’oggetto della censura; e, dall’altro lato, sollecitano una serie di valutazioni di merito che esulano chiaramente dai limiti del presente giudizio di legittimità.
Dal che deriva l’inammissibilità di tale ricorso.
8. In conclusione, è rigettato il primo motivo del ricorso principale, è accolto il secondo, con assorbimento del terzo e del quarto; è dichiarato inammissibile il ricorso incidentale; la sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione personale, affinché torni ad esaminare il merito dell’appello attenendosi alle indicazioni della presente decisione.
Al giudice di rinvio è affidato anche il compito di liquidare le spese del presente giudizio di cassazione.
Sussistono peraltro le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo, con assorbimento del terzo e del quarto, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza