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Azione Revocatoria: il coniugio non basta a provare

Una creditrice agisce con azione revocatoria per un trasferimento immobiliare tra coniugi in separazione. La Cassazione, con Ordinanza n. 3035/2024, cassa la decisione di merito, stabilendo che il solo rapporto di coniugio, senza altri elementi, non costituisce una presunzione sufficiente a dimostrare la consapevolezza del terzo acquirente (il coniuge) del pregiudizio arrecato al creditore.

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Azione Revocatoria: il Semplice Rapporto di Coniugio Non Basta a Provare la Malafede

L’azione revocatoria è uno strumento fondamentale per la tutela del credito, ma la sua applicazione richiede un attento bilanciamento degli interessi in gioco, specialmente quando coinvolge atti di disposizione patrimoniale tra coniugi. Con l’Ordinanza n. 3035 del 1° febbraio 2024, la Corte di Cassazione ha offerto un importante chiarimento sui limiti della prova presuntiva, stabilendo che il solo vincolo matrimoniale non è sufficiente a dimostrare la ‘scientia damni’ del coniuge acquirente. Questa pronuncia è cruciale per comprendere i requisiti probatori in materia.

I Fatti del Caso

La vicenda trae origine dall’azione legale di una lavoratrice nei confronti del suo datore di lavoro, presidente di un’associazione. La lavoratrice, vantando un credito, decideva di agire in revocatoria contro un atto di trasferimento immobiliare. Nello specifico, il debitore, nell’ambito di un accordo di separazione consensuale, aveva trasferito alla moglie la sua quota di proprietà (50%) di un immobile.
Secondo la creditrice, tale atto era stato posto in essere con l’unico scopo di sottrarre il bene alla garanzia patrimoniale, pregiudicando così le sue possibilità di recuperare il credito.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda, ritenendo non provata la diminuzione della garanzia patrimoniale del debitore. La Corte d’Appello, invece, ribaltava la decisione, accogliendo la domanda della creditrice. Secondo i giudici di secondo grado, la consapevolezza della moglie (terzo acquirente) del danno arrecato alla creditrice poteva essere desunta da due elementi: l’atto di disposizione aveva ad oggetto un bene immobile e, soprattutto, sussisteva un rapporto di coniugio tra le parti.
Contro questa sentenza, gli eredi della moglie (nel frattempo deceduta) proponevano ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione sull’Azione Revocatoria

La Suprema Corte ha accolto i motivi di ricorso relativi al vizio di motivazione e alla violazione delle norme sulla prova presuntiva (artt. 2727 e 2729 c.c.), cassando la sentenza d’appello e rinviando la causa ad un’altra sezione della stessa Corte per un nuovo esame.

I giudici di legittimità hanno ritenuto errato il ragionamento della Corte d’Appello, giudicandolo basato su una motivazione ‘meramente apparente’. La critica si è concentrata sul modo in cui è stata desunta la prova della scientia damni, ovvero la consapevolezza da parte della moglie acquirente del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni della creditrice.

Le Motivazioni

La Cassazione ha chiarito che, sebbene la prova della consapevolezza del terzo possa essere fornita tramite presunzioni, queste devono essere ‘gravi, precise e concordanti’. Una presunzione è grave quando è fondata su elementi altamente probabili; è precisa quando non è equivoca; è concordante quando più indizi convergono verso la stessa conclusione.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva basato il suo convincimento su due soli elementi:
1. Il fatto che l’atto dispositivo riguardasse un bene immobile, da cui discenderebbe una consapevolezza del pregiudizio in re ipsa (nella cosa stessa).
2. Il rapporto di coniugio tra il debitore e l’acquirente.

Secondo la Cassazione, questo ragionamento è fallace. Il solo rapporto di coniugio, specialmente in un contesto di separazione, non può costituire, da solo, un indizio grave e preciso per affermare che il coniuge acquirente fosse a conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori dell’altro coniuge. Il giudice di merito avrebbe dovuto fornire una motivazione più approfondita, spiegando perché, nel caso specifico, quel rapporto coniugale (peraltro in via di scioglimento) implicasse una sicura condivisione di informazioni sullo stato debitorio del disponente.

In sostanza, la Corte territoriale non ha adeguatamente argomentato il passaggio logico dal ‘fatto noto’ (il matrimonio) al ‘fatto ignoto’ da provare (la consapevolezza del danno). Si tratta di una motivazione apparente, che non permette di comprendere l’iter logico-giuridico seguito dal giudice, violando così l’obbligo di motivazione sancito dalla Costituzione e dal codice di procedura civile.

Le Conclusioni

La pronuncia in esame riafferma un principio fondamentale in tema di prova presuntiva nell’ambito dell’azione revocatoria: la qualità personale delle parti (come il rapporto di coniugio) può essere un indizio rilevante, ma non è di per sé risolutivo. È necessario che il giudice lo valuti nel contesto di tutti gli elementi emersi, fornendo una motivazione concreta e non stereotipata che giustifichi l’inferenza della conoscenza del pregiudizio.

Questa decisione impone ai giudici di merito un maggior rigore nell’analisi probatoria, evitando automatismi e valorizzando le specificità di ogni singola vicenda. Per i creditori, significa che per esperire con successo un’azione revocatoria contro un atto tra coniugi, è necessario fornire elementi concreti, ulteriori rispetto al semplice vincolo familiare, che dimostrino la partecipazione o almeno la consapevolezza del coniuge acquirente nell’operazione fraudolenta.

Che cos’è l’azione revocatoria?
È un’azione legale prevista dall’art. 2901 del codice civile che consente a un creditore di chiedere al giudice di dichiarare ‘inefficaci’ nei suoi confronti gli atti con cui il debitore ha disposto del proprio patrimonio, se tali atti pregiudicano la possibilità del creditore di essere pagato.

Il rapporto di matrimonio è una prova sufficiente per dimostrare la malafede del coniuge che acquista un bene dal coniuge-debitore?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il solo rapporto di coniugio non è una presunzione sufficientemente grave e precisa per dimostrare la consapevolezza (scientia damni) del coniuge acquirente del danno arrecato ai creditori. È necessario che il giudice motivi in modo specifico perché, in quel determinato contesto, il rapporto familiare implicava tale consapevolezza.

Qual è stata la decisione finale della Corte di Cassazione in questo caso?
La Corte ha accolto i motivi di ricorso relativi alla prova della consapevolezza del terzo, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello e ha rinviato la causa allo stesso giudice, in diversa composizione, affinché riesamini il caso attenendosi al principio secondo cui il rapporto di coniugio da solo non basta a provare la malafede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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