Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 24239 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 24239 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/08/2025
Oggetto: Consob -Amministratore senza delega.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16662/2019 R.G. proposto da
COGNOME rappresentato e difeso dal prof. avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE – Commissione Nazionale per RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME, anche disgiuntamente, ed elettivamente domiciliata nello studio dei predetti in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia n. 90/2019, depositata il 15/1/2019 e notificata il 28/3/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3
aprile 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME.
Rilevato che:
Con delibera n. 20033 del 14/06/2017, come modificata dalla delibera n. 20057 del 06/07/2017, la Consob, all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 195 d.lgs. n. 58 del 1998, applicò a NOME COGNOME nella sua qualità di componente del Consiglio di Amministrazione di Veneto Banca s.p.a., per il periodo dal 20/4/2012 al 26/4/2014, la sanzione pecuniaria di euro 140.000,00 per la violazione delle seguenti norme:
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F., e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), del T.U.F. e degli artt. 39 e 40 dal Regolamento Consob n. 16190 del 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-31/12/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di valutazione di adeguatezza delle operazioni;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. (periodo di riferimento: 18/12/2012-31/08/2015), per avere la Banca tenuto comportamenti irregolari, tra l’altro, nell’ambito dei ‘trasferimenti tra privati’ delle azioni Veneto Banca e dei finanziamenti concessi ai clienti per l’acquisto delle azioni di propria emissione;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F. e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29/10/2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F., e dell’art. 49, commi 1 e 3, del Regolamento Consob n. 16190 dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-10/2/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di gestione degli ordini dei clienti;
violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), del T.U.F., e dell’art. 15, comma 1, del Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob
dal 29/10/2007 (periodo di riferimento: 01/06/2011-18/04/2015), per avere la Banca omesso di dotarsi di procedura adeguate in materia di pricing delle azioni di propria emissione.
Il giudizio di opposizione, proposto da NOME COGNOME, si concluse, nella resistenza della Consob, con la sentenza n. 90/2019, del 20/11/2018, con la quale la Corte d’Appello di Venezia, in parziale accoglimento dell’opposizione, rideterminò l’ammontare della sanzione irrogata, portandola da euro 140.000,00 a euro 120.000,00.
In particolare, i giudici di merito esclusero che fosse applicabile il principio del favor rei e, dunque, della novella del 2015 (d.lgs. n. 72 del 2015), in ragione della non equiparabilità delle sanzioni amministrative previste dall’articolo 195 T.U.F. e concretamente irrogate dalla Consob alle sanzioni di indole penale; che vi fosse il lamentato frazionamento dei procedimenti, atteso che gli stessi avevano ad oggetto fatti distinti e autonomi; che rilevasse la qualifica del ricorrente come amministratore senza delega, considerati gli obblighi stringenti posti a carico dei componenti del C.d.A. e la posizione centrale degli amministratori non esecutivi nel sistema governance della Banca, con conseguente onere degli stessi di dimostrare di avere adempiuto al dovere di tenersi informati sulla gestione e organizzazione della Banca.
Ritennero sussistenti tutte le violazioni contestate, sia con riferimento alle operazioni di profilatura della clientela; sia agli ‘accordi tra privati’ (ingerenza della Banca e ruolo proattivo dell’intermediario onde ottenere liquidità del titolo), ai finanziamenti c.d. baciati (finalizzati a favorire l’adesione alla Aucap o all’acquisto di azioni sul mercato secondario) e alle iniziative commerciali volte al collocamento delle azioni della Banca (lettere di garanzia o di rendimento garantito, promesse di indennizzo e rimborsi contabili e riliquidazioni e impegni alla vendita), per le
quali i campanelli di allarme erano dati dai rilievi della Banca d’Italia; sia alle violazioni procedurali (mancanza di presidi procedurali sulla gestione degli ordini di acquisto e vendita di azioni VB) e comportamentali (irregolarità compiute nell’evasione degli ordini relative alle azioni della Banca); sia all’assenza di procedure adeguate e idonei presidi atti a garantire un appropriato governo dell’attività di determinazione del prezzo delle azioni VB.
Ritennero altresì sussistente l’imputabilità, escludendo la dedotta applicabilità dell’art. 194 sexies T.U.F., sia perché non contemplava le sanzioni rilevanti in questa sede, sia perché la disposizione, entrata in vigore con il d.lgs. n. 72 del 2015, non poteva era applicata alla fattispecie, sia perché difettava il requisito della ‘assoluta mancanza di pregiudizio per la tutela degli investitori e per la trasparenza del mercato’, sia perché il criterio penalistico della offensività non rilevava nelle fattispecie di illecito amministrativo.
Contro la predetta sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, affidato a otto motivi. Consob – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa si difende con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 Cost. e 2, cod. pen., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., o, in subordine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 72 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost., e 6 e 7 CEDU, per avere i giudici di merito omesso di applicare il principio del favor rei e, segnatamente, le novità normative sopravvenute con il d.lgs. n. 72 del 2015, che considerano imputabili delle violazioni degli artt. 8 e 21 del T.U.F.
soltanto l’ente e solo in via residuale – e in presenza di certi presupposti – i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo e il personale, limitandosi a richiamare il costante insegnamento del giudice di legittimità, senza considerare che la sanzione applicata dalla Consob è qualificabile, alla stregua degli indici sostanziali individuati dalla CEDU (natura dell’infrazione; funzione deterrente e punitiva della sanzione; grado di severità di quest’ultima), come pena ai sensi dell’art. 7 CEDU, stante l’entità della sanzione irrogata in concreto e la suscettibilità della stessa di ledere l’immagine, l’onorabilità e il prestigio dell’esponente, sì da essere soggetta alle garanzie proprie del sistema penale e in particolare al principio di retroattività della lex mitior .
Il ricorrente, in caso di ritenuta inapplicabilità del principio della retroattività favorevole alla sanzione amministrativa irrogata dalla Consob nei confronti del ricorrente in virtù del citato art. 6 d.lgs. n. 72 del 2015, ha anche evidenziato la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale di questa norma per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost., 6 e 7 CEDU, anche alla luce della recente pronuncia della Corte costituzionale n. 63/2019, depositata il 21 Marzo 2019, che ha considerato punitiva la sanzione amministrativa prevista dall’art. 187bis d.lgs. n. 58 del 1998.
1.2 Il primo motivo è infondato, così come infondata è la questione di legittimità costituzionale che esso solleva, dovendosi dare continuità all’orientamento consolidato di questo Corte, secondo cui trova applicazione, nella specie, ratione temporis , il testo dell’art. 190 TUF antecedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 72/2015, secondo il regime transitorio di cui all’art. 6, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 72 del 2015 (Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243).
Non è, infatti, possibile l’equiparazione delle sanzioni amministrative in oggetto, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate per manipolazione del mercato ex art. 187 e ss. T.U.F., sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti (cfr. Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833; Cass. Sez. 1, 30/06/2016, n. 13433; Cass. Sez. 1, 02/03/2016, n. 4114; Cass. Sez. 2, 22-09-2017 n. 27837 e Cass. Sez. 2 24/02/2016, n. 3656, tutte in rapporto a Corte Europea dei diritti dell’uomo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia).
Non si può condividere, pertanto, l’assunto della difesa del ricorrente secondo cui le suddette sanzioni devono essere considerate afflittive, e dunque, sostanzialmente penali.
Al riguardo si richiama integralmente quanto già affermato da Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154, sia in ordine alla natura amministrativa della sanzione relativa all’art. 190 T.U.F., sia alla insussistenza dei presupposti per disporre il sollecitato rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul punto, condividendosi integralmente le relative argomentazioni, valevoli anche per la sollecitata questione di legittimità costituzionale.
In particolare, la suddetta pronuncia è partita dai principi affermati dalla Corte costituzionale, secondo cui rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità «punitiva», il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior – non potrà che estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU, atteso che, mentre l’irretroattività
in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011), con conseguente retroattività della lex mitior in materia penale, sia in ragione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., sia dell’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia; Corte EDU, sentenza 24 gennaio 2012, NOME COGNOME c. Romania; Corte EDU, sentenza 12 gennaio 2016, COGNOME c. Andorra; Corte EDU, sentenza 12 luglio 2016, COGNOME c. Ucraina), sia di altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l’Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e l’art. 49, par. 1, della CDFUE (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019).
E’ stato anche ricordato quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 193 del 2016, che ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito «per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata «amministrativa» dal diritto interno) come «convenzionalmente penale», alla luce dei criteri Engel»,
precisando che la retroattività in mitius della legge penale, così come delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo, è ormai affermata non soltanto, a livello di legislazione ordinaria, dall’art. 2 cod. pen., ma trova ampiamente riconoscimento nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione europea, siccome enunciata tanto dall’art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall’art. 49, par. 1, terzo periodo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (‘CDFUE’).
Ciò ha indotto la Consulta a concludere, con la sentenza n. 393 del 2006, che il valore tutelato dal principio in parola «può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo . Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al trasgressore deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (Corte cost.).
Con specifico riguardo alle sanzioni ex art. 190 T.U.F., di cui l’orientamento costante di questa Corte ha escluso la natura penale (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17574 del 2022; Cass. Sez. 2, n. 8855 del 05/04/2017; Rv. 643735 – 01; Cass. Sez. 2, n. 23945 del 2019, con richiami), Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154 ha analizzato i criteri, alternativi e non cumulativi, c.d. Engel, elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e dati dalla qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale e dalla natura e grado di severità della «sanzione», per poi escludere a sua volta – pur nella consapevolezza che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la
disposizione punitiva si inserisce e alla natura penale delle sanzioni in esame, sia in ragione della qualificazione giuridica (illecito amministrativo) attribuita chiaramente dal legislatore; sia della natura (assenza di un divieto generale di generale applicabilità, essendo la norma indirizzata ad una platea ristretta di possibili destinatari -i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche -; assenza di finalità retributive, trattandosi di illeciti derivanti da trasgressioni di norme che impongono obblighi comportamentali riferiti all’organizzazione dei servizi finanziari), sia del grado di severità (assenza della connotazione dell’afflittività economica).
Sotto quest’ultimo profilo, si è anche detto che, secondo la formulazione applicabile ratione temporis , valevole peraltro anche nel caso di specie, l’importo delle sanzioni è compreso nella forbice edittale da euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila e che la valutazione sull’afflittività economica di una sanzione non può comunque essere svolta in termini totalmente astratti e assoluti, ma deve essere necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce e al bene giuridico tutelato, dovendo considerarsi, da un lato, che nell’ordinamento sezionale del credito e della finanza sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che possono ascendere a molti milioni di euro; dall’altro lato, la tutela dei consumatori degli investitori e del mercato finanziario e del risparmio.
In questi stessi termini si sono pronunciate, tra le tante, anche Cass., Sez. 2, 3/10/2023, n. 27833, secondo cui la sanzione prevista da tali norme, non corredata da sanzioni accessorie, né da confisca, non ha un’afflittività ‘così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale’ (vedi anche Cass., Sez. 2, 10/8/2023, n. 24375) e Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855, secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla
CONSOB ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF) non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle inflitte ai sensi dell’art. 187ter del TUF per manipolazione del mercato, sicché non hanno la natura sostanzialmente penale, che appartiene a queste ultime, né pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, in particolare quanto alla violazione del ne bis in idem tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti.
Come già osservato da Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243, neppure induce a diversa conclusione quanto statuito dalla Corte Cost. con la sentenza 21 marzo 2019, n. 63, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72, nella parte in cui tale norma, appunto, escludeva l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187bis e dall’art. 187 -ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58.
La Corte Costituzionale, premessa l’applicabilità del principio della retroattività della lex mitior in materia penale – fondato sull’art. 3 Cost. e sull’art. 117, primo comma, Cost. – anche alle sanzioni amministrative che abbiano natura “punitiva”, quali appunto sono le sanzioni amministrative previste per l’abuso di informazioni privilegiate di cui all’art. 187bis del d.lgs. n. 58 del 1998, ha così affermato che la deroga alla retroattività in mitius stabilita dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015 non supera il “vaglio positivo di ragionevolezza” ed è, pertanto, costituzionalmente illegittima. La natura sostanzialmente punitiva della sanzione pecuniaria stabilita dall’art. 187 -bis del d.lgs. n. 58 del 1998, è stata ravvisata dalla Corte Costituzionale alla luce della sua ‘elevatissima carica afflittiva’, giacché ‘ destinata, nelle intenzioni del legislatore, ad
eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore, a sua volta oggetto di separata confisca ‘, ‘ in funzione di una finalità di deterrenza, o prevenzione generale negativa, che è certamente comune anche alle pene in senso stretto ‘. La natura «penale» di tale sanzione, ai sensi dell’art. 50 CDFUE, proprio in considerazione del suo «elevato carico di severità», è stata, peraltro, conclamata anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE sentenza 20 marzo 2018, COGNOME e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38; nello stesso senso, ancora Cass. Sez. 2, 06/12/2018, n. 31632).
Corte Cost. 21 marzo 2019, n. 63, ha quindi negato la legittimità della deroga, contenuta nell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, alla retroattività in mitius del più favorevole regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 (il cui principale effetto pratico è consistito nella “dequintuplicazione” delle sanzioni amministrative previste dal d.lgs. n. 58 del 1998), risultandone irragionevolmente sacrificato il diritto degli autori dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate a vedersi applicare una sanzione proporzionata al disvalore del fatto, secondo il mutato apprezzamento del legislatore, che riflette, evidentemente, la consapevolezza del carattere non proporzionato di un minimo edittale di centomila euro.
Come chiarito da Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243, cit., l’interpretazione secondo cui non trovano applicazione, nel caso in esame, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015, trattandosi di violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, come dispone l’art. 6 del d.lgs. n. 72 cit., discende, allora, dalla considerazione che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 190 T.U.F. (testo vigente ratione temporis ) non sono equiparabili,
quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate dalla CONSOB ai sensi degli 187bis e 187ter del TUF, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate dall’art. 7 CEDU ai fini dell’applicazione all’imputato della legge più favorevole (si vedano Cass. Sez. 2, 09/08/2018, n. 20689; Cass. Sez. 2, 24/09/2019, n. 23814, anche per la motivazione sulla manifestamente infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015; Cass. Sez. 2, 05/04/2017, n. 8855; Cass. Sez. 2, 21/03/2019, n. 8046).
E’ allora evidente, alla stregua di tali principi, l’infondatezza della censura e, correlatamente, la correttezza della sentenza impugnata allorché ha escluso l’applicabilità del principio del favor rei , richiamando all’uopo la sentenza di questa Corte n. 20689/2018 e la relativa motivazione.
2.1 Con il secondo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 del Regolamento Consob n. 18750 del 19/12/2013, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito respinto la censura riguardante l’avvio, da parte della Consob, di distinti e separati procedimenti nei confronti del ricorrente, così da rendere più gravosa l’attività difensiva con una valutazione inevitabilmente astratta dell’illecito e priva di un reale apprezzamento dell’effettivo disvalore della sua condotta, limitandosi ad osservare che i due procedimenti avevano ad oggetto fatti distinti e autonomi e che l’art. 7 prevedeva una mera facoltà per l’autorità di procedere alla riunione, lasciata a un giudizio di opportunità.
Il ricorrente ha ricordato che erano stati avviati due procedimenti, quello n. 46239/2016 della Divisione Informazione Emittenti-Ufficio Prospetti Equity e Ipo e quello n. 42948/2016 della Divisione
Intermediari-Ufficio Vigilanza Banche RAGIONE_SOCIALE, originati entrambi dalla medesima Divisione e affidati ciascuno alla competenza di un diverso responsabile, confluiti in distinte e cumulabili proposte sanzionatorie e terminati con l’irrogazione di due diversi provvedimenti.
Il frazionamento dei procedimenti rendeva più gravosa l’attività difensiva dei destinatari – tenuti a predisporre programmi di difesa differenti sia negli adempimenti preliminari, sia nei contenuti difensivi delle memorie -, dava luogo a inevitabile astrattezza sulle proposte sanzionatorie e impediva di valutare la complessiva posizione del destinatario, alterando il metodo di giudizio, con violazione del principio di economia processuale e del divieto di aggravare il procedimento amministrativo.
2.2 Il secondo motivo è parimenti infondato.
Sul punto vanno richiamate le argomentazioni, che qui si condividono, contenute nell’ordinanza n. 10228 del 16/4/2024, con la quale questa Corte, nell’ambito di un procedimento che vedeva ugualmente contrapposto l’odierno ricorrente alla Consob, ha rigettato analoga censura, affermando che «l’art. 7 del Regolamento Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013 (Regolamento generale sui procedimenti sanzionatori della CONSOB, ai sensi dell’articolo 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 e successive modificazioni), rimette all’Ufficio Sanzioni Amministrative, a condizione che ciò non determini un ritardo nella definizione dei procedimenti, la facoltà di disporre la riunione di procedimenti nei casi in cui la violazione contestata sia stata commessa da più persone, in concorso o in cooperazione fra loro, ovvero se essa sia stata commessa da più persone con condotte indipendenti. La riunione dei procedimenti può essere altresì disposta qualora per la natura delle violazioni contestate sia
opportuna una valutazione congiunta delle singole posizioni dei soggetti interessati.
La disposizione regolamentare contempla, quindi, situazioni di ‘cumulo soggettivo’ dei procedimenti sanzionatori, e non si riferisce all’ipotesi in cui la stessa persona abbia commesso più violazioni.
Si tratta all’evidenza, in ogni caso, di riunione di procedimenti che è rimessa alla discrezionalità dell’autorità amministrativa, in quanto si fonda su ragioni di opportunità, restando distinte ed autonome, sul piano sostanziale e processuale, la posizione di ciascuno dei soggetti interessati e le diverse infrazioni oggetto di contestazione, con la conseguenza che il provvedimento di irrogazione delle sanzioni contiene tante statuizioni quante sono le violazioni contestate, anche agli effetti del successivo giudizio di opposizione avverso.
Non è quindi sindacabile in sede di ricorso per cassazione la mancata riunione di distinti procedimenti di irrogazione di sanzioni amministrative in tema di intermediazione finanziaria promossi nei confronti dello stesso soggetto, purché in ciascuno siano state effettuate le contestazioni degli addebiti e siano state valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato, essendo poi assoggettato ciascun provvedimento applicato dall’autorità amministrativa ad un successivo sindacato giurisdizionale pieno».
3.1 Col terzo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2381 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto che nella struttura di governo della Banca fossero proprio gli amministratori non esecutivi ad assumere una posizione centrale, essendo ad essi affidato il compito di favorire l’assunzione di decisioni che, nelle materie di supervisione strategica, erano il frutto di un confronto effettivo con gli amministratori esecutivi, così omettendo di
distinguere il ruolo dei consiglieri esecutivi da quelli semplici e di considerare che questi ultimi rispondevano solo per non aver impedito fatti pregiudizievoli di cui fossero stati a conoscenza e ponendo a carico del ricorrente obblighi, riguardanti, invece, condotte di soggetti preposti alle funzioni operative, a lui non spettanti in quanto non munito di delega. Infatti, i giudici avevano trascurato il fatto che l’omesso intervento potesse assumere rilevanza soltanto in presenza di specifici segnali d’allarme in relazione a situazioni sottoposte all’attenzione dell’amministratore senza deleghe dai soggetti preposti alla gestione della società o dagli organi di controllo, prova questa che non era stata fornita, emergendo anzi che il ricorrente non poteva in alcun modo essere a conoscenza delle criticità rilevate in sede ispettiva, sia perché si parlava di operazioni ideate e avviate prima che diventasse amministratore, sia perché tali criticità non erano state segnalate dalle funzioni operative e di controllo.
3.2 Il terzo motivo è infondato.
Proprio con riferimento alla delibera in esame, Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243 (non massimata), ha precisato che «l’art. 190 T.U.F., in base alla versione applicabile ” ratione temporis ” anteriormente alla modifica introdotta dal d.lgs. n. 72 del 2015, nel sanzionare le violazioni poste in essere dai ” soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione e i dipendenti di società o enti abilitati “, adotta un criterio di responsabilità effettiva dei soggetti che agiscono nell’ambito dell’organizzazione dell’intermediario, individuando una serie di fattispecie destinate a salvaguardare procedure e funzioni e incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, che ricollega il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limita l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” della condotta
inosservante, sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Così, in particolare, doveri di particolare pregnanza sorgono in capo al Consiglio di Amministrazione di una società bancaria, doveri che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi (fra le tante, Cass. Sez. 2, 26/09/2019, n. 24081; Cass. Sez. 2, 18/06/2019, n. 16323)».
«Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi terzo e sesto, e 2392 cod. civ., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.
Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i
medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 cod. civ.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento.
Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto, il quale afferma la responsabilità, allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione, la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno» (cfr. Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243; in questi stessi termini, anche Cass. Sez. 2, 16/4/2024, n. 10228; Cass., Sez. 2, 16/4/2024, n. 10222; Cass., Sez. 2, 6/3/2024, n. 10363).
Nella specie, la Corte d’Appello di Venezia ha respinto in via generale la censura proposta in relazione all’assenza di responsabilità dell’amministratore non operativo, richiamando i suddetti principi ed evidenziando altresì come la circolare della Banca d’Italia n. 285/2013 prevedesse espressamente che, indipendentemente dalla presenza di segnali d’allarme, gli amministratori non esecutivi avessero il dovere di assumere informazioni sulla gestione e organizzazione aziendale, sia
avvalendosi di comitati interni, sia in via diretta dal management , dalla revisione interna e dalla altre funzioni aziendali di controllo, oltre ad avere specificamente individuato una condotta omissiva nell’analizzare i singoli illeciti contestati.
4. Col quarto motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21 comma 1, lett. d), T.U.F., e 15 Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 19/10/20007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. e degli artt. 39 e 40 del Regolamento Consob n. 16190 del 29/10/2007 con riguardo alla prima violazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto sussistente il comportamento omissivo del ricorrente con riferimento all’adozione e all’implementazione di procedure idonee a garantire l’adempimento degli obblighi di correttezza e trasparenza nella prestazione dei servizi di investimento (collocamento di prodotti finanziari e delle azioni della banca; iniziative commerciali volte a sollecitare la clientela alla sottoscrizione di azioni in sede di aumento di capitale anche attraverso l’impiego del finanziamento; meccanismi di monitoraggio sulla rete commerciale con diffuso fenomeno di raccolta delle manifestazioni di interesse prima del periodo dell’offerta), ritenendo esistente la carenza procedurale in relazione al manuale operativo MIFID del 2010, ricadente nel periodo in cui il ricorrente era componente del Consiglio di Amministrazione, con riguardo ai sistemi di profilatura della clientela, lasciati, specie in occasione dell’aumento di capitale della Banca, ad un applicativo informatico che adottava un sistema meramente formalistico e privo di funzionalità bloccanti, sottratti a verifiche di coerenza interna ed esterna e incapaci di chiarire il peso assegnato alle risposte date. Il ricorrente ha, in merito, evidenziato che le procedure seguite dalla Banca (quanto a Piano industriale, budget di esercizio e Piani commerciali) non
presentavano particolari criticità; che la sottoscrizione delle azioni da parte dei soci, derivanti dall’aumento del capitale sociale, non lasciavano libertà di azione da parte dell’intermediario emittente, privo della possibilità di limitare l’esercizio del diritto di opzione e prelazione in capo ad essi spettante, con conseguente inconferenza del richiamo dell’Autorità a meccanismi di adeguatezza e appropriatezza; che i criteri di classificazione e profilatura della clientela erano disciplinati dal Manuale Mifid in vigore dal 17/6/2014 e dalla procedura operativa in vigore dal 1/1/2015, oltreché da altre attività avviate dalla Banca improntate a logiche di prudenza, sicché eventuali operazioni inadeguate avrebbero dovuto essere imputate al singolo addetto e non alla politica della Banca; che pianificazione commerciale, budgeting e profilatura clientela erano state soltanto in parte adottate con la partecipazione del ricorrente ed erano in ogni caso espressione del Consiglio di Amministrazione volta a migliorare l’assetto organizzativo e strutturale della Banca onde favorire i bisogni della clientela; che nessuna responsabilità poteva essere imputata al ricorrente con riguardo alle operazioni finalizzate alla sottoscrizione delle azioni nell’ambito dell’aumento del capitale sociale connesse ad iniziative del cliente, ma proposte dall’addetto, né alle pressioni esercitate dalla rete commerciale in vista degli obiettivi di collocamento, né alle proposte commerciali riservate ai soci con tassi di rendimento allettanti; e che la condotta dello stesso, privo di poteri esecutivi, avrebbe dovuto essere censurata solo in caso di comportamenti omissivi in presenza di segnali di allarme, di cui però non era stata fornita alcuna prova.
Col quinto motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21, comma 1, lett. a) T.U.F., relativamente alla seconda violazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, con riguardo alle condotte relative al
coinvolgimento della Banca, quale intermediario, nei c.d. trasferimenti tra privati, nell’impego di finanziamenti come forma di pressioni sui clienti per assicurare il buon esito dell’aumento del capitale sociale e nell’utilizzazione di strumenti destinati a contenere il fenomeno dell’invenduto (lettere di garanzia e clausole di salvaguardia), avevano ritenuto sussistente, in capo al ricorrente, gli elementi oggettivi e soggettivi delle violazioni ascrittegli, sia con riguardo ai ‘trasferimenti tra privati’ sia ai c.d. finanziamenti baciati. Il ricorrente ha, in merito, considerato che la Banca, fino al dicembre 2015, era una società cooperativa per azioni a capitale variabile, con natura di banca popolare e carattere e finalità mutualistiche, sicché perseguiva gli interessi dei soci onde ottenere condizioni più vantaggiose di quelle operanti sul mercato; che la fornitura di beni e servizi era connessa alla qualifica di socio; che, per questo, la disciplina per l’acquisto di azioni proprie era più permissiva di quella dettata dall’art. 2357 cod. civ.; che la propria responsabilità si sarebbe potuta ravvisare soltanto in caso di omesso intervento in presenza di segnali di allarme la cui prova non era emersa; che le comunicazioni intercorse tra i diversi uffici operativi (unica prova offerta) non coinvolgevano il ricorrente, né mai gli erano pervenute, essendo state scambiate tra Direzione generale, Capi area e Filiali, senza l’avallo del Consiglio di Amministrazione e senza che questo ne fosse a conoscenza; che il ricorrente, pur essendo chiamato a deliberare sulle operazioni di finanziamento e sulle iniziative commerciali della Banca, non era in grado di intercettare gli episodi irregolari contestati, sia perché privo di competenze tecniche, sia perché le anomalie avevano riguardato gli uffici operativi che avrebbero dovuto riportarle al Consiglio di Amministrazione; che l’aumento del capitale sociale era stato deliberato il 3/6/2014, mentre il ricorrente era cessato il 26/4/2014, con conseguente non imputabilità ad esso dell’omessa
attività di monitoraggio sui finanziamenti concessi a valle e in funzione dell’aumento del capitale successivi alla sua cessazione.
6. Col sesto motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F. e 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, 21, comma 1, lett. a) T.U.F., e 49, commi 1 e 3, del Regolamento Consob n. 16190 del 29/10/2007 con riguardo alla terza violazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto sussistente la terza violazione in ordine alla gestione degli ordini di vendita e annullamento delle azioni, sostenendo che fossero state accertate irregolarità sia di carattere procedurale, per l’assenza di idonei presidi sulle modalità di gestione degli ordini di acquisto-vendita di azioni proprie della Banca, sia sotto il profilo comportamentale, in ragione delle irregolarità nell’evasione degli ordini di azioni proprie. Il ricorrente, dopo avere premesso che il rispetto del principio cronologico nella vendita e acquisto di azioni proprie poteva essere derogato in relazione a particolari interessi dei clienti, cui la discrezionalità della Banca era funzionale, e che il riacquisto non era obbligatorio per una banca, ha spiegato quali fossero le modalità con cui erano processati gli ordini di cessione e annullamento delle azioni proprie, precisando che le irregolarità non potevano essere ricondotte all’eccessiva discrezionalità dell’ ex Direttore generale dovuta a carenze procedimentali, come contestato, e che avrebbero dovuto essere sanzionati i soli diretti responsabili degli episodi censurati e non il predetto in assenza di specifici segnali di allarme, mai comunicati al Consiglio di Amministrazione dall’ ex Direttore generale, considerazione che valeva anche per il c.d. blocking period .
Col settimo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. degli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F. e 15 del
Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, con riguardo alla quarta violazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto sussistente la responsabilità del ricorrente anche con riguardo alla Policy della Banca in ordine alle procedure per la determinazione del prezzo delle proprie azioni (metodi valutativi di base; modalità di acquisizione del parere dell’esperto e del C.d.A. e del preventivo parere del Collegio Sindacale), sostenendo che, dopo i rilievi della Banca d’Italia del 2013 che aveva segnalato l’inidoneità della Policy adottata, nulla era stato fatto per porvi rimedio fino al 2015. Ad avviso del ricorrente, invece, non era stato considerato che la Policy era stata adottata dal C.d.A. il 9/2/2010, in seguito a interlocuzioni intercorse con le funzioni operative e previo parere delle strutture di controllo, che egli aveva contribuito attivamente a risolvere le criticità riscontrate dalla Banca d’Italia nel corso della verifica ispettiva del 2013, che l’emanazione della procedura soltanto nel 2015, come affermato, non era a lui imputabile, che, quanto alle irregolarità sulle procedure di nomina degli esperti, non era stato considerato che il prof. NOME COGNOME era considerato uno dei massimi esperti sul campo e che la nomina degli altri due (prof. COGNOME e prof. COGNOME) era avvenuta quando egli era già uscito dal C.d.A.
Il quarto, quinto, sesto e settimo motivo, da trattare unitariamente in quanto vertenti sulla medesima questione relativa alla configurabilità della responsabilità del ricorrente, quale amministratore senza deleghe della Banca, e alla stessa illegittimità delle procedure relative ai servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti, del servizio di negoziazione in conto proprio delle azioni Veneto Banca e della procedura di determinazione del prezzo delle azioni di Veneto Banca, sono infondate.
Le tre censure sono formulate in forma di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e devono quindi intendersi come denuncia della negazione o affermazione erronea dell’esistenza o inesistenza di tali norme, ovvero dell’attribuzione ad esse di contenuti che non posseggono, o, ancora, della sussunzione della fattispecie concreta giudicata sotto norme che non le si addicono, mentre in realtà allegano un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, ricognizione che è esterna all’esatta interpretazione delle norme di diritto e inerisce, piuttosto, alla tipica valutazione del giudice di merito, in quanto sollecitano questa Corte a propendere per una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti dai quali era originata la contestazione delle sanzioni amministrative.
La Corte d’Appello di Venezia ha, infatti, accertato in fatto la mancata adozione di idonee procedure circa la valutazione di adeguatezza e appropriatezza delle operazioni di profilatura della clientela e di presidi volti a tracciare le relazioni con la stessa clientela con funzionalità di blocco di condotte elusive o anomale; la violazione dell’obbligo di comportarsi con diligenza e correttezza riferiti agli ‘accordi tra privati’ e ai finanziamenti c.d. baciati; la mancanza di idonei presidi procedurali sulle modalità di gestione degli ordini di acquisto vendita delle azioni BV e la violazione di codici comportamentali quanto alle irregolarità compiute nella evasione degli ordini relativi alle azioni della Banca; l’irregolarità delle procedure di pricing delle azioni.
I fatti delineati nelle censure sono stati ampiamente trattati, rispettivamente, nelle pgg. 8-14, quanto alla prima violazione e quarta censura; nelle pgg. 15-24, quanto alla seconda violazione e quinta censura; nelle pgg. 24-28, quanto alla terza violazione e sesta censura; nelle pgg. 28-30, quanto alla quarta violazione e settima censura. Il fondamento della responsabilità del ricorrente
è, invece, tratteggiato alle pgg. 12-13, quanto alla prima sanzione, nel quale si far riferimento alle procedure avviate alla stregua del Manuale operativo MIFID 2010, riguardante il periodo in cui il predetto esercitava le funzioni di componente del Consiglio di Amministrazione, e ai segnali di allarme rappresentati dai rilievi sollevati dalla Consob prima dell’avvio della verifica ispettiva e non contestata dall’appellante; alla pg. 16 quanto alla seconda sanzione, nella quale si evidenzia come le operazioni di cessione tra soci, peraltro ampiamente diffuse, risalissero al 14/1/2014, quando il ricorrente era ancora nel C.d.A. della Banca, come il C.d.A. provvedesse a deliberare pur in assenza di elementi, tant’è che il ricorrente non aveva neppure dedotto la completezza della documentazione sottoposta alla sua attenzione, ciò che gli avrebbe, invece, consentito di verificare i rilievi già sollevati dalla Consob, e come, quanto ai finanziamenti c.d. baciati, la Banca d’Italia avesse richiesto la convocazione di apposito consiglio; alla pg. 27 quanto alla terza violazione, nella quale si fa presente che era proprio la previsione del flusso informativo al C.d.A. a non essere idoneamente disciplinata, che il numero degli ordini ‘scavalcati’ presentava un notevole incremento a partire dal C.d.A. del 27/7/2013 e si era ulteriormente ampliato nel 2014; alla pg. 29 quanto alla quarta violazione, nella quale si evidenzia che, nel periodo in cui il ricorrente era in carica, la Policy presentava le criticità rilevate dalla Consob, alle quali si era posto rimedio solo nel 2015 e che la contestazione non riguardava le qualità dell’esperto nominato, ma la carenza dell’iter seguito per pervenire alla sua designazione, l’assenza di un incarico formale e la predisposizione della fairness opinion successiva alla approvazione del C.d.A.
Quanto poi alla riconducibilità al ricorrente delle dedotte violazioni si richiama quanto espresso nel precedente punto 3.2 in ordine agli
obblighi gravanti sugli amministratori senza deleghe, per i quali si precisa ulteriormente che il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega, con la conseguenza che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392, secondo comma, cod. civ., che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. n. 24851/2019; conf. Cass. n. 5606/2019) e che, proprio in ragione delle peculiarità del settore bancario, è tenuto, in quanto componente dell’organo collegiale, ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché risponde del mancato utile attivarsi (Cass., Sez. 2, 16/5/2022, n. 15585).
9.1 Con l’ottavo motivo, infine, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. degli artt. 194 sexies T.U.F. e 131 bis cod. pen., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito respinto il motivo di opposizione, con
cui era stato chiesto l’annullamento della sanzione per mancanza dell’elemento della offensività, sostenendo che la disciplina invocata fosse applicabile solo alle sanzioni indicate nell’art. 194 quinques T.U.F., tra cui non erano indicate quelle contestate nella specie; che la disciplina entrata in vigore con il decreto n. 72 del 2015 non fosse applicabile alle violazioni antecedenti alla sua entrata in vigore, stante il disposto dell’art. 6; che non fosse riscontrabile la mancanza di pregiudizio per la tutela degli investitori e la trasparenza del mercato; che il principio della necessaria offensività dell’illecito non fosse applicabile alle sanzioni amministrative. Ad avviso del ricorrente, i giudici non avevano considerato che il d.lgs. n. 72 del 2015 aveva introdotto l’art. 194 -sexies , secondo cui la Consob non poteva procedere alle contestazioni in caso di assoluta mancanza di pregiudizio per la tutela degli investitori e trasparenza del mercato; che detta disposizione, ancorché limitata ad alcune tipologie di illecito, conteneva un principio generale di necessaria offensività della condotta illecita, stante il disposto di cui all’art. 131 -bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. 16 marzo 2015 n. 28; e che questa disposizione era applicabile alla specie, stante l’applicabilità della stessa, alla quale era stata ispirata la disposizione di cui all’art. 194sexies T.U.F., a tutte le tipologie di illecito.
9.2 L’ottavo motivo è parimenti infondato.
L’art. 194 sexies d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.), introdotto dall’art. 5, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, e in vigore dal 27/6/2015, stabilisce che « Nei casi previsti dall’articolo 194quinquies , la Consob non procede alla contestazione delle violazioni nei casi di assoluta mancanza di pregiudizio per la tutela degli investitori e per la trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, ovvero per il tempestivo esercizio delle funzioni di vigilanza ».
Come già osservato nel punto 1.2, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72 del 2015 stabilisce che: « Le modifiche apportate alla parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi dell’articolo 196-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo ».
In base alla sopra riportata disciplina transitoria, pertanto, che non fa altro che riaffermare il principio del tempus regit actum operante nel campo delle sanzioni amministrative ( ex plurimis Sez. 2, 4/10/2019, n. 24850, Sez. 6-2, 28/12/2011, n. 29411), alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d’Italia (avvenuta in data 3 maggio 2016) continua ad applicarsi la precedente disciplina del T.U.B., e, dunque, non può trovare applicazione l’art. 194 -sexies del T.U.F., introdotto dal medesimo d.l.gs. n. 72 del 2015 (in termini Cass., Sez. 2, 18/9/2020, n. 19558), dovendosi confermare l’insegnamento di questa Corte, già ribadito, peraltro, al precedente punto 1.2, secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998 (cd. TUF) non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle inflitte ai sensi dell’art. 187ter del TUF per manipolazione del mercato, sicché non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime ( ex plurimis Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855; Cass., Sez. 1, 30/6/2016, n. 13433).
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura, avendo i giudici di merito respinto il motivo d’appello proposto sul punto, tenendo conto della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 72 del 2015 e del disposto del ridetto art. 6, oltreché della tipicità delle fattispecie richiamate dall’art. 194 sexies T.U.F. (ossia quelle di cui all’art. 194 quinquies) e, in fatto, dell’assenza del requisito dell’assoluta mancanza di pregiudizio.
10. In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 3 aprile 2025.
Il Presidente NOME COGNOME