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Codice Civile
Codice Penale

Stato di detenzione del lavoratore, impossibilità della prestazione

Stato di detenzione del lavoratore, temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, sospensione del rapporto di lavoro.

Pubblicato il 10 November 2018 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte di Appello di L’Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, composta dai seguenti magistrati:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 712/2018 pubblicata il 08/11/2018

nella causa per reclamo ex art.1, comma 58 della legge 28 giugno 2012 n.92 promossa con ricorso depositato in data 02.08.2018, e vertente

TRA
XXX, residente in, rappresentato e difeso dall’Avv., presso il cui studio in Vasto è elettivamente domiciliato, come da procura in atti

RECLAMANTE CONTRO
YYY, con sede in, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv., presso il cui studio in Vasto è elettivamente domiciliato, come da procura in atti

RECLAMATA

OGGETTO: reclamo ex art.1, comma 58 della legge 28 giugno 2012 n.92 avverso la sentenza n°103/2018 emessa dal Tribunale di Lanciano, in funzione di giudice del lavoro, in data 03.07.2018.

CONCLUSIONI

Per la parte reclamante: “1)- ritenere e dichiarare la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per l’effetto annullare il licenziamento intimato al ricorrente con missiva datata 18 dicembre 2015 e condannare la YYY […] a reintegrare il ricorrente dal momento della cessazione dello stato di detenzione nel posto di lavoro con la condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria – pari a dodici mensilità – commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto (€.1.717,20) dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione oltre interessi e rivalutazioni come per legge nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dalla data dell’illegittimo licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione; 2)- accertare e dichiarare, in alternativa, l’insussistenza della giusta causa di licenziamento in quanto i fatti contestati non sussistono e per l’effetto annullare il licenziamento intimato al ricorrente con missiva datata 18 dicembre 2015 e condannare la YYY […] a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro. 3)- In via del tutto gradata e solo per mero tuziorismo difensivo, accertato che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, condannare la YYY […] al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (€.1.717,20) in considerazione dell’anzianità di servizio del ricorrente e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica nonchè del comportamento e delle condizioni delle parti; 4)- in via meramente gradata, dichiarare inefficace il licenziamento con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (€.1.717,20); 5)- condannare la resistente al pagamento delle spese e dei compensi professionali di tutti i gradi del giudizio come per legge”.

Per la parte reclamata: “1) dichiarare il reclamo e l’azione ivi attivata inammissibile; 2) comunque rigettare il reclamo perché infondato in fatto e diritto; 3) con vittoria di spese e competenze di grado”.

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con reclamo ex art.1, comma 58, della legge 92/2012, XXX ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe, con cui è stata respinta la sua l’opposizione avverso l’ordinanza emessa ex art.1, comma 49, della legge 92/2012 dal Tribunale di Vasto in data 01/06/2017, con cui era stata respinta la sua domanda tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato dalla YYY in data 18 Dicembre 2015 per giustificato motivo oggettivo (assenza prolungata per stato di detenzione).

Il reclamante ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui, erroneamente interpretando la normativa applicabile e facendo cattivo uso delle risultanze istruttorie di causa, ha ritenuto che nella fattispecie la carcerazione preventiva integrasse gli estremi per ritenere sussistente un giustificato motivo oggettivo di recesso ovvero una impossibilità sopravvenuta della prestazione. Ha quindi concluso come in epigrafe.

La parte reclamata si è costituita in giudizio ed ha resistito all’appello, del quale ha chiesto il rigetto, assumendone l’infondatezza in fatto ed in diritto, in riferimento a ciascuna delle censure sollevate.

Il reclamo non è fondato.

In punto di fatto, risulta per tabulas, e non è comunque controverso che:

– il reclamante ha prestato attività lavorativa, con mansioni di operaio ed inquadramento nel livello III° del C.C.N.L. Metalmeccanica, alle dipendenze della YYY nel periodo dal 10.05.2000 al 18.12.2015;

– in data 01.10.2015, al XXX è stata applicata la misura cautelare della custodia cautelare in carcere, in quanto ritenuti sussistenti a suo carico gravi indizi di colpevolezza per il reato p. e p. dagli artt.609 bis e ter c.p. (violenza sessuale aggravata in danno di minore), punito con pena edittale della reclusione da sei a dodici anni;

– il XXX era stato già precedentemente condannato nel 2013 dal Tribunale di Vasto, con pena sospesa, per un reato della stessa indole;

– con nota in data 20.10.2015 la YYY ha comunicato al XXX un preavviso di risoluzione del rapporto di lavoro “per aver appreso a seguito della comunicazione ricevuta via fax del 12.10.2015, che il Sig. XXX sarebbe assente dal lavoro perché trattenuto in custodia cautelare che non risulta di breve durata in ragione della natura del reato contestato per come divulgato dagli organi di informazione. Di conseguenza si vede costretta a comunicare l’intenzione di risolvere il rapporto di lavoro con lo stesso intercorrente per giustificato motivo oggettivo, in ragione del fatto che proprio la presumibile durata della restrizione e la conseguente impossibilità a rendere la prestazione contrattuale fa venire meno l’interesse aziendale nella prosecuzione del rapporto”;

– esaurita con esito negativo la fase conciliativa dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro, con nota in data 18.12.2015 la YYY ha quindi comunicato al XXX il licenziamento per giustificato motivo oggettivo “per i motivi già esplicitati …..per quanto sopra e perdurando, nonostante il rinvio accordato dalla Commissione di Conciliazione il 06.11 scorso, il suo stato di restrizione, ci vediamo costretti a comunicare la risoluzione del rapporto di lavoro per i motivi oggettivi sopra riassunti, sollevandola sin d’ora dal prestare attività lavorativa nel periodo di preavviso contrattuale”;

– il licenziamento veniva tempestivamente impugnato dal lavoratore;

– con sentenza in data 23.11.2016 il Tribunale di Lanciano, riqualificato il reato in atti sessuali, ha condannato il XXX, per i fatti di cui sopra, alla pena di due anni e sei mesi di reclusione;

In punto di diritto, è noto che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, lo stato di detenzione del lavoratore determina una temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, dovuta allo stato di privazione della libertà personale, da cui deriva la sospensione necessaria del rapporto di lavoro e di tutte le contrapposte obbligazioni. Il rapporto di lavoro, in queste ipotesi, non si risolve in modo automatico, potendo il datore di lavoro licenziare il lavoratore solo laddove, in conseguenza della temporanea impossibilità sopravvenuta della prestazione, venga a mancare per lui un apprezzabile interesse alla prosecuzione del rapporto, con riferimento alle oggettive esigenze dell’impresa, da valutarsi ex ante, in relazione alle dimensioni dell’impresa, al tipo di organizzazione tecnico produttiva, alla natura ed importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni, della durata della carcerazione già sofferta e del prevedibile termine della stessa (cfr. Cass., Sez. Lav., n. 9239 del 1.9.1999, n. 6803 del 5.5.2003).

Nella fattispecie, il licenziamento non risulta essere stato intimato per una prolungata assenza ingiustificata, e quindi per motivi disciplinari, essendo fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello “status custodiae” del prestatore d’opera, e quindi su una situazione di sopravvenuta impossibilità della prestazione (art. 1464 c.c.), dovuta a carcerazione del prestatore, e quindi su un giustificato motivo oggettivo (art. 3 legge n. 604 del 1966). In altri termini, nell’ipotesi di detenzione del lavoratore, come nel caso in esame, l’assenza dal lavoro del medesimo non costituisce un inadempimento contrattuale, ma solo un impedimento materiale ad eseguire la prestazione lavorativa.

Così correttamente inquadrata la questione, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata meriti di essere condivisa, avendo fatto corretta applicazione dei principi sopra enunciati, in relazione alle circostanze di fatto dedotte in giudizio.

Appare infatti evidente che il datore di lavoro, operata una disamina della situazione del XXX, assente dal lavoro perché sottoposto a carcerazione preventiva, abbia operato, ex ante, una valutazione prognostica circa la presumibile durata della assenza, che appariva evidentemente di non breve durata, ove si consideri che il lavoratore era ristretto in custodia cautelare (alla data del licenziamento, da oltre due mesi), in quanto sussistenti a suo carico gravi indizi di colpevolezza per il reato p. e p. dagli artt.609 bis e ter c.p. (violenza sessuale aggravata in danno di minore), punito con pena edittale della reclusione da sei a dodici anni (con verosimile contestazione anche della recidiva, per essere stato il XXX già precedentemente condannato nel 2013 dal Tribunale di Vasto, con pena sospesa, per un reato della stessa indole). Tale valutazione, pacificamente operata ex ante dal datore di lavoro (come risulta per tabulas sin dalla prima lettera di preavviso di licenziamento), è risultata corretta all’esito del giudizio penale, in cui il XXX è stato condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione.

Ciò premesso, ritiene il Collegio che nella fattispecie sia palesemente insussistente un “apprezzabile interesse datoriale alla prosecuzione del rapporto”, atteso che la situazione che si prospettava ex ante alla YYY era quella di una detenzione di non breve durata, e quindi di una assenza prolungata del lavoratore (come in effetti avvenuto), assenza che alla data del licenziamento aveva già superato i due mesi. E’ pur vero che la YYY ha nell’immediatezza ovviato a tale assenza attraverso temporanee misure organizzative interne (cfr. deposizioni testimoniali testi *** e ***), ma è altrettanto che vero che deve essere pur sempre individuato un limite temporale oltre il quale tale situazione organizzativa possa definirsi non più temporanea, e quindi tale da comportare uno stabile deficit nell’apparato organizzativo aziendale e da determinare il venir meno di un apprezzabile interesse datoriale alla prosecuzione del rapporto (a nulla rilevando la natura fungibile della mansioni disimpegnate dal lavoratore detenuto).

A tal fine, appare condivisibile la decisione impugnata nella parte in cui individua come parametro di riferimento il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro stabilito dalla contrattazione collettiva di settore per il caso di malattia (c.d. periodo di comporto), che il C.C.N.L. dell’industria metalmeccanica fissa, per il personale avente anzianità di servizio superiore a sei anni (come il reclamante), in 365 giorni di calendario (v. art.2). Non si tratta, come sostiene il reclamante, dell’applicazione analogica di una norma pattizia, bensì della individuazione di una parametro di riferimento (costituito dalla volontà delle parti sociali) idoneo a stabilire quale sia il massimo sacrificio esigibile dal datore di lavoro in ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione da parte del lavoratore.

In quest’ordine di concetti, appare evidente che, tenuto conto della gravità del reato contestato, della sua pena edittale, della ricorrenza di circostanze aggravanti, della possibile contestazione della recidiva e della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (che hanno condotto all’applicazione della misura custodiale), la prognosi effettuata (ex ante) dal datore di lavoro non poteva che essere in favore di una detenzione verosimilmente superiore ai 365 giorni, e quindi di una impossibilità di rendere la prestazione lavorativa di durata presumibilmente superiore al periodo massimo di conservazione del posto di lavoro stabilito dalla contrattazione collettiva di settore per il caso di malattia (c.d. periodo di comporto).

Alla luce delle considerazioni che precedono, trattandosi di licenziamento legittimamente intimato, il reclamo deve essere dunque respinto e la sentenza impugnata integralmente confermata.

Le spese della fase di reclamo seguono la regola generale della soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Appello di L’Aquila, Sezione Lavoro e Previdenza, definitivamente pronunciando sull’appello proposto avverso la sentenza n°103/2018 emessa dal Tribunale di Lanciano, in funzione di giudice del lavoro, in data 03.07.2018, contrariis reiectis, così decide:

– rigetta il reclamo;

– condanna la parte reclamante a rifondere alla controparte le spese della presente fase, che liquida in complessivi €.3.310,00, oltre spese generali nella misura del 15% del compenso totale per la prestazione (art.2 D.M.10.03.2014), I.V.A. e C.A.P..

Così deciso nella Camera di Consiglio tenuta in L’Aquila in data 8 Novembre 2018.

IL CONSIGLIERE EST. IL PRESIDENTE

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