Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20209 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20209 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 24/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a ROMA il 31/08/1970
avverso l’ordinanza del 19/02/2025 del TRIB. LIBERTA’ di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni scritte del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Roma, in sede di riesame di provvedimenti impositivi di misure cautelari personali, in parziale riforma dell’ordinanza del medesimo Tribunale, emessa il 3 febbraio 2025, ha sostituito la misura degli arresti domiciliari in origine applicata con quelle del divieto di dimora e dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Il ricorrente è indagato in relazione al reato di tentata truffa aggravata nei confronti di persona anziana, commesso in concorso con COGNOME NOME inducendo la vittima, con artifici e raggiri e prospettandole il rischio di un pericol
immaginario, a consegnare loro una somma di danaro, senza riuscirvi a causa dell’intervento dei carabinieri.
Il Tribunale ha escluso la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 5 cod.pen.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME, deducendo:
vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza.
Il Tribunale non avrebbe tenuto conto delle argomentazioni contenute nei motivi aggiunti, siccome volte a mettere in evidenza che gli artifici e raggiri posti in essere nei confronti della vittima, non sarebbero stati opera del ricorrente e della coindagata ma di un ignoto interlocutore telefonico che aveva chiamato l’anziana signora chiedendole denaro per un fantomatico malessere della di lei figlia.
Non sarebbero state tenute in debito conto le giustificazioni fornite dal ricorrente in relazione alle ragioni della sua presenza presso l’abitazione della persona offesa all’atto dell’intervento dei carabinieri, dovuta ad un incarico avuto da una agenzia di servizi, finalizzato ad effettuare una riparazione presso la casa della vittima, essendo egli un fabbro.
Inoltre, il ricorrente, introducendosi presso l’abitazione della persona offesa in compagnia della di lei figlia nel frattempo sopraggiunta, aveva manifestato totale assenza di malizia, circostanza incompatibile con il fatto di essere stato lui l’autore della telefonata precedente;
2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di artifici e raggiri, tenuto conto che la persona offesa aveva immediatamente scoperto l’inganno, reagendovi prontamente attraverso l’immediata interlocuzione con la figlia, sicché in astratto non sussisterebbe l’elemento oggettivo del reato;
3) vizio della motivazione in ordine al ritenuto pericolo di reiterazione del reato, dal momento che l’indagata COGNOME non annovera precedenti penali, mentre il ricorrente sarebbe munito di attività lavorativa.
Ci si duole, altresì, della mancanza di motivazione quanto al cumulo delle due misure cautelari, che si ritiene non essere adeguato al caso concreto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché proposto con motivi manifestamente infondati.
In ordine al primo motivo, il ricorrente articola argomentazioni che non intaccano la logicità della motivazione dell’ordinanza impugnata in punto di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.
In particolare, viene trascurato il dato decisivo che la vittima aveva dichiarato di aver ricevuto la telefonata ingannevole di un soggetto sconosciuto pochi minuti
prima che si presentassero presso la sua abitazione i due indagati, esattamente come l’interlocutore telefonico aveva preannunciato.
Se a questa circostanza si sommano quelle secondo cui la persona offesa non aveva chiesto alcun intervento a casa propria per effettuare riparazioni ed i due indagati erano privi di qualunque attrezzo a ciò indirizzato e non avevano giustificato adeguatamente la loro presenza sul luogo, si comprende come l’ordinanza impugnata abbia ricostruito la vicenda in termini logici ineccepibili, che relegano al merito e ad una diversa ricostruzione del fatto ogni ulteriore argomento difensivo.
E’ manifestamente infondato anche il secondo motivo, dal momento che i raggiri commessi dagli indagati – nel rispetto della sequenza dei fatti ricostruita dal Tribunale con precisi e non rivedibili indicazioni fattuali – erano risultati idone al raggiungimento del fine illecito, scongiurato solo attraverso l’intervento dei carabinieri.
In questo senso, milita la circostanza che la vittima aveva risposto affermativamente alla inusitata domanda dell’interlocutore telefonico di conoscere se nella sua abitazione vi fosse una cassaforte ed, in stato di preoccupazione, aveva telefonato alla figlia per sincerarsi delle sue condizioni di salute, che lo sconosciuto le aveva riferito essere precarie.
Il ricorrente adombra il dubbio che si fosse trattato di atti non idonei senza addurre argomenti specifici e convincenti idonei a supportare il suo assunto, tralasciando i dati essenziali.
Quanto al terzo motivo, il ricorso è generico nel censurare esclusivamente la motivazione dell’ordinanza impugnata, dal momento che sorvola sulle decisive circostanze, valorizzate dal Tribunale come idonee a giustificare il pericolo di recidiva, quali le modalità gravi del fatto, la personalità del ricorrente in quanto soggetto gravato da precedenti specifici, il ritrovamento nella sua autovettura di strumenti atti allo scasso, a dimostrazione della non occasionalità del fatto.
Fornendo questa rappresentazione, il Tribunale è giunto a mitigare l’originaria misura cautelare ritenendo adeguate alla salvaguardia del pericolo di recidiva quelle meno gravi del divieto di dimora con obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, attraverso un giudizio immune da vizi logico-giuridici e non contraddetto dalle generiche affermazioni difensive, che si riferiscono, eccentricamente, anche alla posizione della coindagata COGNOME.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso, il 24/04/2025.