Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 26955 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 26955 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 15/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME nato il 30/12/1966 NOME nato il 12/03/1961
avverso la sentenza del 09/10/2024 della CORTE APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME
CIMMINO
che ha concluso chiedendo il rigetto di entrambi i ricorsi udito il difensore
L’avvocato COGNOME conclude insistendo per l’accoglimento del ricorso.
L’avvocato COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma che, in data 14 novembre 2022, ha condannato per i reati di cui gli artt. 416, primo, secondo e terzo comma, cod. pen., art. 12, comma 1, 3 lett. a) e d), 3-ter, lett. b) del decreto legislativo n. 286 del 1998, 603 bis, primo e secondo comma, cod. pen., Munteanu NOME alla pena di anni cinque e mesi otto di reclusione ed euro 130.000,00 di multa e Spac Liuba alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed euro 128.000,00 di multa
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione entrambe le imputate.
NOME COGNOME per il tramite del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME ha dedotto quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati in conformità al disposto di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Con il primo motivo, la ricorrente ha eccepito la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’articolo 416 cod. pen. e la mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità per il reato associativo.
In primo luogo, la difesa ha evidenziato che la società RAGIONE_SOCIALE non può essere ritenuta una associazione per delinquere e che, in ogni caso, la ricorrente non ha mai avuto la consapevolezza di far parte di un sodalizio criminoso, potendo al più configurarsi una fattispecie di tipo concorsuale.
La sentenza, invece, ha affermato l’adesione dell’imputata al reato senza però specificare gli elementi dai quali trarre la consapevolezza della stessa di far parte di un impegno collettivo permanente o di svolgere i propri compiti al fine di compiere i reati programmati.
Solo assertivamente si affermerebbe che la ricorrente si sia stabilmente occupata del reclutamento dei cittadini moldavi dal paese di origine tramite annunci su alcuni siti moldavi e social network, finalizzati al collocamento presso i futuri di datori di lavoro, omettendo i giudici di considerare che l’imputata era assolutamente convinta di svolgere un’opera di mediazione e interpretariato per un’associazione riconosciuta, che godeva di buona fama presso il Caf di INDIRIZZO, evidenziando che la ricorrente era, altresì, convinta di aiutare i propri connazionali ad inserirsi nel tessuto lavorativo e sociale italiano proprio perché già radicata nel territorio nazionale. Pertanto, la difesa ha rilevato che la ricorrente non può essere ritenuta responsabile dello sfruttamento dei suoi connazionali
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NOME non essendo in alcun modo intervenuta sulla decisione dei propri connazionali di intraprendere il viaggio in Italia.
Anzi, si osserva che, apprese le condizioni di vita degradanti dei s connazionali – i quali vivevano, al freddo, presso la fabbrica di cuscini nutren di cibi scaduti, venendo inviati a raccogliere pomodori nei campi di Rossan Corigliano – li aveva esortata a pazientare in attesa di una migliore situazi aveva invitato NOME a intervenire presso i datori di lavoro per migliorassero le loro condizioni di vita. Soltanto dopo cinque mesi, compres meglio la realtà nella quale era costretta a lavorare, aveva deciso di abbandon l’associazione.
3.2. Con il secondo motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione dell’art 6 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 110 cod. pen. 12, c 1 e 3, lett. a) e d) e 3 ter lett. b), comma 5, d.lgs n. 286 del 1998 e all bis cod. pen., di cui ai capi B) C) e D) delle imputazioni.
Doglianze analoghe a quelle sopra riportate vengono rivolte anche in relazione all’affermazione di responsabilità in riferimento alla condotta consistita nell favorito l’ingresso e la permanenza nel territorio nazionale dei citt extracomunitari dei quali consentiva l’immigrazione clandestina.
In particolare, la difesa deduce che non è risultato in modo inequivoco ~ache tali stranieri fossero sprovvisti di regolare passaporto, godend maggior parte dei cittadini moldavi della doppia cittadinanza (moldava/rumena) sicché gli stessi avrebbero potuto avere libero accesso e transito nell’Un Europea.
Anche in relazione a tali condotte, si deduce che la sentenza non ha affronta il profilo concernente il modo in cui la ricorrente abbia inciso sulla ges dell’associazione omettendo di approfondire se la stessa, piuttosto, non doves eseguire le disposizioni da altri impartite.
Pertanto, conclude la difesa, la ricorrente doveva essere assolta anche da imputazioni con la formula più ampia per carenza assoluta dell’elemento soggettivo, essendosi invece limitata la Corte d’appello a richiamare la sente di primo grado, confermandola.
3.3. Con il terzo motivo la ricorrente ha dedotto l’insussistenza d circostanze aggravanti ritenute in sentenza, sia in relazione al numero d persone, delle quali la ricorrente avrebbe favorito l’ingresso in Italia, sia alla finalità di profitto.
Con riferimento alla prima aggravante si è evidenziato che nel numero considerato potrebbero essere calcolate persone con la doppia cittadinanza che
quindi, avrebbero avuto la possibilità di circolare liberamente nel territorio dell’Unione Europea; quanto alla finalità di profitto, se ne contesta la sussistenza non avendo la ricorrente alcuna capacità di incidenza nella gestione dell’associazione essendo semplicemente una dipendente, mal pagata e sfruttata.
Si è altresì dedotto che alla ricorrente doveva essere riconosciuta, come richiesto dalla difesa, la diminuente di cui all’articolo 114 cod pen. per il contributo certamente modesto, sulla quale, invece, la Corte non si è adeguatamente soffermata.
Infine, si è obiettato che in considerazione del mero ruolo di interprete – al quale non è possibile ricondurre alcun contributo causale rispetto all’evento tanto da risultare trascurabile nell’economia dell’iter criminoso – dovevano essere concesse le attenuanti generiche nella loro massima estensione e l’ aumento per la ritenuta continuazione doveva essere valutato in misura inferiore alla quantificazione effettuata nella sentenza impugnata stante la stretta connessione tra i fatti ascritti, avvinti dalla medesimezza del disegno criminoso e soprattutto per una più equa proporzione tra i fatti e la personalità e il ruolo svolto dalla ricorrente, ruolo che la stessa sentenza impugnata riconosce come ausiliario e complementare rispetto all’attività illecita svolta da NOME vertice del sodalizio.
3.4. Con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione dell’articolo 235 cod pen., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ordinato l’espulsione a pena espiata. La difesa ha evidenziato che lasentenza impugnata ha confermato la prognosi di pericolosità del giudice di primo grado, mentre avrebbe dovuto valutare il mancato pericolo che Ivicorrente possa commettere altri reati, non solo perché è persona incensurata e (s ‘uo carico non risultano procedimenti penali, ma anche perché ha reso ampio interrogatorio e inoltre dal suo apporto non è possibile quantificare il profitto introitato dall’associazione in esito alle condotte lei addebitate.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma ha, altresì, proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE per il tramite del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. la manifesta illogicità, contraddittorietà e incompletezza della motivazione, nonché la violazione di legge in riferimento al!’ art. 12, comma 1 e 5, d. Igs n. 286 del 1998, art. 416, 603 bis, 235 cod. pen.
4.1. Innanzitutto la difesa ha evidenziato, quanto al capo B) delle imputazioni, che i giudici di appello hanno errato nel ritenere che la condotta ascritta alla ricorrente (e ai correi) fosse inquadrabile nella fattispecie di cui all’articolo 1 comma 1, d. Igs n. 286 del 1998 e nelle aggravanti contestate, dovendo ad essa ascriversi soltanto la fattispecie di cui art. 12, comma 5, dl.gs cit. in quanto la condotta posta in essere è consistita nell’aver favorito la permanenza illegale e non anche nell’aver procurato illegittimamente l’ingresso nel territorio dello Stato delle persone.
A tal riguardo, si è rilevato che dalla sentenza censurata (pagina 7) emerge che tutte le persone offese avevano fatto ingresso in Italia con visto turistico valido per tre mesi e che, una volta giunte in Italia, erano state avviate a diverse attività lavorative; ed, ancora / risulta (pagina 9) che ciascuna delle persone offeseveniva accolta presso la sede del Caf, dove versava la quota di 200,00 euro, venendo registrato il relativo nominativo sul libro dei soci e le somme versate venivano annotate sul libro cassa e, poi, l’ulteriore quota di 150,00 euro veniva versata, una volta trovata l’occupazione lavorativa, dopo aver ricevuto il primo stipendio.
Ciò posto, la difesa ha dedotto che, accertato che l’ingresso delle persone offese era avvenuto regolarmente sula base di visto turistico valido per tre mesi, né il Gup, né la Corte d’Appello hanno valutato l’incidenza sulla qualificazione giuridica del fatto delle modifiche apportate all’art. 12 d. Igs. n. 286 del 1998 ad opera della legge n. 94 del 2009
Si è evidenziato, al riguardo, che sebbene nell’imputazione, di cui alla lett. B), si contesti la condotta di aver favorito l’ingresso di stranieri (facendo riferimento alla formulazione previgente), la disposizione di cui alli art. 12, comma 1, d. Igs cit. incrimina la condotta di aver procurato l’ingresso (e non anche la permanenza), in violazione delle disposizioni del testo unico.
Ad avviso della difesa, dunque, la condotta di «procurare» di cui al comma 1 dell’art. 12 d.lgs. cit. non può ricomprendere anche quella di favorire trattandosi di verbi dal diverso significato, sicché con la novella di cui alla legge n. 189 del ‘–) 2004, lo spettro di applicazione della precedente normativa (che indicava il verbo favorire) si è ristretto sottraendo dal penalmente rilevante la condotta di chi favorisce l’ingresso clandestino che, comunque, nella fattispecie non ha interessato gli stranieri collocati al lavoro in Italia per il tramite della ricorren dei correi.
Secondo la ricorrente, dunque, dal compendio probatorio risulta che nessun atto diretto a procurare l’ingresso illegale in Italia delle cittadine moldave è stato commesso, in quanto la conoscenza all’estero del Caf, New Abacus, facente capo
all’NOME si pone come elemento neutro che non può assumere il significato di attività finalizzata a procurare l’ingresso illegale, così come neutra sarebbe l’attività di accompagnamento presso la sede del citato Caf da parte della ricorrente di alcune cittadine moldave una volta giunte in Italia, attività questa che potrebbe integrare il minor grave reato di favoreggiamento della permanenza illegale se protrattasi per oltre tre mesi, contestato al capo B) e non oggetto di gravame.
Né, ha rilevato ancora la difesa, può assumere rilievo, diversamente da quello che hanno ritenuto i giudici dell’appello, la circostanza che l’elusione delle norme disciplinanti l’ingresso in Italia sia stata, comunque, consumata attraverso il collocamento al lavoro delle persone offese che, titolari di visto per turismo della durata di tre mesi, non potevano essere assunte, essendo vietata la conversione del permesso di turismo in permesso di lavoro.
In conclusione, la ricorrente si sarebbe rese responsabile soltanto di un comportamento rilevante sul piano del favoreggiamento della permanenza illegale, sicché la sentenza deve essere annullata con riferimento al capo B) delle imputazioni.
4.2. La ricorrente ha, poi, dedotto il vizio di motivazione della sentenza e la erronea applicazione degli artt. 110 e 603 bis cod. pen.
Si è affermato, in particolare, che la motivazione dei giudici di appello circa la responsabilità della ricorrente in relazione al capo E) dell’imputazione ripete, a pagina 12, pedissequamente le argomentazioni della sentenza del Gup, limitandosi ad affermare che le condizioni degradanti di lavoro alle quali sono stati sottoposti i cittadini moldavi – nella consapevolezza di tutti gli appartenenti al gruppo criminale in esame – consentono di ritenere configurato anche il delitto di cui all’art. 603 -bis, cod. pen.
La difesa ha dedotto che è stata completamente omessa da entrambi i giudicanti l’indicazione di elementi da cui desumere la consapevolezza della ricorrente delle condizioni di lavoro degradanti cui venivano sottoposte le persone offese collocate presso i datori di lavoro in Calabria; la consapevolezza dell’invio di tale manodopera presso il datore di lavoro De COGNOME; il contributo materiale fornito, nonché il vantaggio dal lei tratto.
Avrebbe, poi, significato neutro la circostanza valorizzata dal Gup, nell’ultima proposizione a p. 23 e all’inizio della p. 24, secondo cui uno dei lavoratori si sarebbe lamentato con la ricorrente delle condizioni di lavoro, vuoto motivazionale non colmato dalla sentenza di appello.
Sussisterebbe, pertanto, una palese violazione dell’art. 110 cod. pen. in riferimento all’art. 603-bis cod. pen., non avendo le sentenze di merito motivato in ordine alla configurabilità di tale reato in capo alla ricorrente.
4.3. La ricorrente ha, poi, dedotto con riferimento al reato associativo di cui al capo A), l’apodittica motivazione in relazione al suo ruolo di organizzatrice, quale colei che aveva il compito di contattare i cittadini moldavi per indurli a entrare in Italia e di assisterli durante la loro permanenza.
Ha dedotto, al riguardo, che alcuna prova dimostrerebbe che la ricorrente sia stabilmente inserita nel sodalizio e che il suo contributo era di aiuto per il fine perseguito; né, sarebbero indicate prove circa il movente, il vantaggio e il profitto conseguito, né che abbia indotto gli stranieri a entrare in Italia.
4.4. La difesa ha, inoltre, eccepito che nella determinazione del trattamento sanzionatorio il giudicante non avrebbe osservato i parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., con conseguente necessità di rideterminazione della pena; dovendosi annullare il capo della sentenza che ha ordinato l’espulsione della ricorrente in quanto l’ incensuratezza, il ruolo marginale la mancanza di un vantaggio e utilità, l’inserimento nel contesto sociale e lo svolgimento di attività lavorativa sarebbero elementi significativi della non pericolosità della ricorrente
Il Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
In data 21 marzo 2025, l’avv. NOME COGNOME ha depositato motivi aggiunti insistendo per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi seno entrambi infondati e vanno, pertanto, rigettati.
1.1. Le censure mosse dalle ricorrenti sono sostanzialmente sovrapponibili, ragione per cui le argomentazioni in punto di infondatezza possono essere svolte in modo unitario, salvo soffermarsi su specifici profili relativi a ciascuna imputata.
Ciò posto, va rilevato che nella fattispecie ricorre una ipotesi di cd. “doppia conforme” in quanto la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado resa in sede di giudizio abbreviato, sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nel valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218 – 01). Di conseguenza l’impianto
motivazionale articolato dai giudici di merito resiste alla totalità delle doglianze difensive per le ragioni di seguito esposte.
Tanto premesso, va rilevato che entrambe le ricorrenti si dolgono delle carenze motivazionali della sentenza di condanna della Corte di Appello di Roma, con riferimento alla ritenuta sussistenza nei loro confronti della fattispecie associativa.
Con motivazione approfondita e puntuale, i giudici di appello hanno fornito le ragioni della correttezza della decisione del Gup che ha ritenuto integrato il reato associativo di cui all’art. 416 cod. pen., nonché pienamente raggiunta la prova della partecipazione e dei ruoli qualificati delle due imputate.
La sentenza di appello (a pagina 5), anche attraverso il rinvio a quanto affermato alla pagina 17 e ss. della sentenza di primo grado, dà puntuale conto della configurabilità del reato associativo e del ruolo delle ricorrenti evidenziando che numerosi cittadini moldavi fin dal 2018 si rivolgevano al Caf di Roma, di INDIRIZZO che fungeva da base operativa dell’organizzazione criminosa al cui interno COGNOME NOME e Spac Liuba – insieme ad altri soggetti coordinati da NOME COGNOME e suoi familiari – ponevano in essere una serie di attività finalizzate al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non solo compiendo atti diretti a procurare l’ingresso dei moldavi nello Stato italiano ma anche a favorirne la permanenza.
Richiamandosi alla sentenza del primo grado, i giudici di appello hanno ricostruito l’esistenza di un traffico di cittadini stranieri provenienti dalla Moldavi i quali riuscivano ad entrare nel territorio italiano con il visto per turismo di validit trimestrale e di seguito, una volta scaduto il titolo, venivano collocati in diverse attività lavorative, come ragazze alla pari, come badanti; o ancora, venivano indirizzati presso un’azienda che produceva cuscini in provincia di Reggio Emilia di proprietà della famiglia COGNOME e presso terreni agricoli della provincia di Cosenza con relativo sfruttamento della loro attività lavorativa, espletata senza il rispetto della normativa lavoristica.
La sentenza impugnata, richiamando le evidenze probatorie individuate dal Gup, a pagina 6, ha ritenuto sussistente tutti gli elementi caratteristici della fattispecie associativa. Infatti, analizzando le intercettazioni telefoniche, gli esit dei servizi di osservazione pedinamento e controllo, le denunce provenienti dai cittadini moldavi e, ancora, le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti, l’esito della perquisizione espletata presso i locali del Caf, i giudici di appello hanno affermato la sussistenza di un sodalizio criminoso che si articolava in vari passaggi
a partire dal reclutamento dei cittadini moldavi, seguito dal lunghissimo viaggio in pullman dalla Moldavia fino all’arrivo alla stazione Anagnina di Roma.
Si è evidenziato che una volta giunti a Roma, i cittadini stranieri venivano trasportati al Caf indicato presso il quale avveniva l’accoglienza degli stessi e dove costoro versavano la quota associativa pari a 200 euro, che veniva registrata su appositi libri contabili, per poi versare successivamente altri 150 euro una volta collocati presso i datori di lavoro. Si trattava di un programma dell’associazione umanitaria denominata RAGIONE_SOCIALE dietro la quale in realtà si celava l’attività criminosa in questione.
Con specifico riferimento alla posizione delle ricorrenti all’interno dell’articolato sodalizio illecito decritto, la sentenza dei giudici di appello, co analisi puntuale, ha confermato la sussistenza di un solido quadro probatorio circa il loro ruolo di organizzatrici e non solo di mere partecipi.
Emerge, infatti, che entrambe le ricorrenti interloquivano con l’autista dell’autobus COGNOME quando il mezzo si trovava nei pressi di Orte, in modo da comunicare il previsto arrivo alla fermata della stazione Anagnina e proprio le due ricorrenti venivano individuate nelle persone che prendevano in consegna i cittadini moldavi.
L’affermazione del ruolo qualificato delle due ricorrenti si fonda anche sulla circostanza che le donne intervenivano per convincere i lavoratori moldavi – i quali si lamentavano con l’agenzia delle condizioni in cui erano costretti a vivere – a continuare a lavorare e ad accettare le condizioni imposte dalla famiglia COGNOME per essere pagati e per ottenere anche altre occupazioni lavorative.
Le deduzioni difensive, secondo cui le imputate fungevano semplicemente da interpreti di lingua italiana a beneficio dei connazionali presso il Caf, nell’inconsapevolezza delle finalità criminali, vengono smentite dai giudici d’appello dando risalto alle testimonianze delle molteplici vittime che affermavano che già dal paese di provenienza si rivolgevano al Caf per il tramite delle due ricorrenti, proprio perché perfettamente integrate nella realtà italiana.
Sul punto, con logica argomentazione, nella sentenza si evidenzia la mancanza di qualsiasi comportamento sintomatico di una eventuale inconsapevolezza del ruolo svolto e, quindi, di essere vittime della vicenda, né di comportamenti idonei a dimostrare una dissociazione dall’operato altrui e, comunque, non risultando elementi dai quali ritenere che ne fosse stata carpita la buona fede
Nel provvedimento impugnato si fornisce una esaustiva argomentazione idonea a dimostrare che le ricorrenti si occupavano del reclutamento dei cittadini moldavi nel paese di origine tramite annunci su siti moldavi o social network
finalizzati al collocamento presso i futuri datori di lavoro e, effettuata l’inserzione i lavoratori e le lavoratrici venivano contattati dalle ricorrenti che grazie all conoscenza della lingua madre spiegavano il procedimento per giungere in Italia per il tramite appunto del conducente dell’autobus.
I giudici di appello evidenziano che la COGNOME e la COGNOME erano in costante contatto con l’autista NOME COGNOME così da agevolare le comunicazioni e snellire la migrazione di centinaia di donne e uomini che dalla Moldavia giungevano in Italia e, nel provvedimento impugnato, si dà conto della significativa circostanza peri cui una volta arrivati in Italia, i cittadini moldavi venivano accompagnati dalle due ricorrenti e da altri soggetti appartenenti al sodalizio criminoso presso l’intermediario di INDIRIZZO NOME COGNOME.
La configurabilità di uno stabile rapporto tra i vari membri del sodalizio criminoso e le ricorrenti viene anche motivato alla luce del tenore delle conversazioni intercettate con l’NOME, vertice dell’organizzazione, dalle quali emergeva che costui aveva un rapporto fiduciario con le due imputate.
Ciò precisato, con specifico riferimento alla Spac, la sentenza – a pagina 9, rinviando alla pagina 21 della sentenza primo grado – ne pone in rilievo il ruolo di organizzatrice come risultante, in particolare, dalle dichiarazioni rese dalla cittadina moldava NOMECOGNOME che aveva riferito tutti i passaggi da lei effettuati per poter entrare illegalmente in Italia, grazie alla intermediazione della ricorrente.
Parimenti, richiamando la vicenda che ha riguardato una donna di nome NOME, la sentenza ha dato conto di come la Munteanu fosse un punto di riferimento in relazione ai problemi conseguenti alle disagiate condizioni di lavoro di tali stranieri, nella specie del marito della donna di nome NOME, ricevendo anche lamentele per avere versato i soldi all’associazione quale corrispettivo della procedura illegale.
In conclusione, la sentenza ha adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza di tutti gli elementi strutturali del reato associativo con ciò rendendo prive di pregio le doglianze difensive secondo le quali, nella fattispecie, si verterebbe in una ipotesi di concorso nel reato e non di sodalizio criminoso.
I giudici di appello hanno, infatti, dato conto di una motivazione conforme al principio secondo cui l’associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall’indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato, e dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur
minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira (Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, COGNOME, Rv. 255359 – 01).
Analogamente, hanno esaustivamente spiegato le ragioni della insussistenza di una mera ipotesi concorsuale, alla luce del principio, che va qui ribadito, secondo cui l’elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato, è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell’ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati (Sez. 5, n. 1964 del 07/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274442 – 01).
Pertanto, la sentenza impugnata, saldandosi con la decisione di primo grado, ha dato conto in concreto della sussistenza di tutti gli elementi necessari richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte perché sia configurabile il reato di cui all’art. 416 cod. pen. fornendo anche la prova, in concreto, della qualifica del ruolo di organizzatrici svolto dalle ricorrenti. (Sez. 6, n. 25698 del 15/06/2011, COGNOME, Rv. 250515 – 01).
Parimenti infondate sono le deduzioni difensive Si di entrambe le ricorrenti, con le quali si afferma, soffermandosi sulla distinzione tra la condotta di favorire e procurare l’ingresso nel territorio dello Stato, che nella fattispecie i giudici d appello avrebbero dovuto ritenere integrata la meno grave ipotesi di cui all’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, anziché quella di cui al primo comma, sul rilievo che a seguito della novella di cui alla legge n. 189 del 2002, 4 ,10 spettro di applicazione della precedente normativa (che indicava il verbo favorire) si è ristretto sottraendo dal penalmente rilevante la condotta di chi favorisce l’ingresso clandestino.
Tale ricostruzione interpretativa non è condivisibile. Infatti, «secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Sez. 1, n. 40624 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259922-01; sez. 1, n. 28819 del 22/05/2014, Pa .ncini, Rv. 25991501; sez. 1, n. 27106 del 16/06/2011, COGNOME, Rv. 250803-01; Sez. 3, n. 35629 del 19/05/2005, COGNOME, Rv. 232390 – 01), in seno alla disciplina dei flussi migratori verso il territorio nazionale, così come modificata dalla legge n. 189 del 2002,
restano penalmente rilevanti, ex art. 12 T.U. imm., tutti gli atti diretti ad ottenere l’ingresso illegale dello straniero e, quindi, anche le attività che, finalisticannente e univocamente orientate a conseguire tale scopo, non siano riuscite a realizzarlo. Non si è mai dubitato, dunque, del fatto che la novella legislativa testé richiamata non avesse, di per sé, inciso sulla struttura della fattispecie, connotantesi come reato di pericolo o a consumazione anticipata, e perfezionantesi per il solo fatto che fossero compiuti atti diretti a «procurare» l’ingresso illegale di cittadini non appartenenti all’Unione europea, a prescindere dall’effettività, durata e ragione dell’ingresso medesimo, ancorché funzionale al mero transito verso altre destinazioni (Sez. 1, n. 1082 del 04/12/2008, dep. 2009, Malik, Rv. 242487-01; sez. 1, n. 38936 del 03/10/2008, sasu, Rv. 241384-01; Sez. 1, n. 38159 del 23/09/2008, Dimcea, Rv. 241130-01). La nuova locuzione («atti diretti a procurare»), al pari di quella antecedente («attività diretta a favorire»)è del resto normalmente impiegata dal legislatore per istituire reati privi di necessario evento consumativo (Sez. U, n. 40982 del 21/06/2018, P., Rv. 273937-01)» (Sez. 1, n. 15531 del 05/02/2020, Rv. 278979 – 01).
Prive di pregio sono, altresì, le censure proposte da entrambe le ricorrenti, concernenti l’omessa motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 603-bis cod. pen.
Dal complessivo contesto argomentativo della sentenza censurata risulta chiaramente motivata la configurabilità, nei confronti di ciascuna imputata, del reato di illecito reclutamento di numerosi lavoratori che venivano inviati presso delle fabbriche, venendo alloggiati in ambienti malsani e inadeguati, come in particolare risulta dalla circostanza, approfondita a pagina 10 della sentenza, secondo cui le ricorrenti, grazie al loro ruolo di organizzatrici, intervenivano presso i lavoratori moldavi, che si lamentavano con l’agenzia delle condizioni in cui erano costretti a vivere, a lavorare e ad accettare le condizioni imposte dalla famiglia COGNOME.
La sentenzgtdi appello fornisce puntuale motivazione – a pagina 10, anche rinviando alle pagine 22 e ss della sentenza di primo grado – in ordine alla consapevolezza delle ricorrenti del fatto che lo scopo dell’associazione criminosa fosse quello di procurare l’ingresso nel territorio dello Stato dei cittadini moldavi, al fine di destinarli ad occupazioni presso terzi e della difficile realtà affrontata dai lavoratori non occasionalmente ma quotidianamente evidenziando che dalle intercettazioni telefoniche e dai servizi di osservazione della polizia giudiziaria è emerso che tali soggetti venivano inviati illegalmente a lavorare presso una
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fabbrica di cuscini in Reggio Emilia e presso campi agricoli nella Provincia di Cosenza, in condizioni non conformi alle norme in tema di lavoro, sia sotto il profilo dell’orario, che in termini di sicurezza, in assenza di contratto, con compensi non proporzionati e approfittando dello stato di bisogno.
A tal riguardo va rilevato che la sentenza di primo grado dà atto del fatto che la RAGIONE_SOCIALE ben sapeva (intercettazione in data 15 dicembre 2018) che due uomini moldavi, dei quali uno era il suo interlocutore, si lamentavano delle degradanti condizioni di lavoro e della paga pari a un euro per una cassa di mandarini.
Tanto premesso, deve concludersi che la sentenza censurata ha correttamente motivato anche in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, conformemente al principio secondo cui il delitto previsto dall’art. 603-bis, comma primo, n. 1, cod. pen. è caratterizzato dal dolo specifico, essendo necessario che l’intermediario recluti la manodopera al fine di destinarla al lavoro presso terzi, mentre per quello previsto dall’art.603-bis, comma primo, n. 2, cod. pen., è sufficiente il dolo generico, essendo richiesto che l’utilizzatore abbia agito con coscienza e volontà di sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento e di approfittare del loro stato di bisogno. (Sez. 4, n. 3554 del 18/01/2022, Siena, Rv. 282577 – 01).
Non sono, poi, fondate le molteplici censure concernenti il trattamento sanzionatorio applicato dalla sentenza impugnata, con pronuncia conforme alla sentenza del Gup, alla ricorrente COGNOME Elena.
Si tratta di censure già proposte con l’atto di appello, e in primo grado, in relazione alle quali la sentenza impugnata ha esaustivamente motivato con argomentazioni con le quali il ricorso non si è confrontato, limitandosi a reiterare le medesime doglianze, già ritenute in sede di appello generiche ed aspecifiche.
Quanto specificamente all’aggravante del numero dei cittadini, che sarebbe incerto, la Corte di appello ha risposto correttamente evidenziando che si tratta di censure generiche e prive di alcun riscontro probatorio.
Parimenti completa e lineare è la motivazione in punto di sussistenza dell’aggravante del fine di trarne profitto, la cui configurabilità risulta chiaramente dal complessivo impianto motivazionale, e che è analiticamente indicato avendo i giudici di appello rilevato come già il primo giudice avesse rilevato l’interesse di natura prettamente economica che ha unito i sodali e le due ricorrenti; profitto ricavabile non solo dalla consegna di cospicue somme di denaro, ma anche dal vantaggio tratto dagli associati per effetto dell’aumento delle adesioni, anche attraverso il passaparola dei lavoratori di volta in volta reclutati.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento alle ragioni del mancato riconoscimento della diminuente di cui all’art. 114 cod. pen., correttamente esclusa attraverso il richiamo del principio secondo cui in tema di concorso di persone nel reato, ai fini dell’integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione di cui all’art. 114 cod. pen., non è sufficiente una minore efficacia causale dell’attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell’assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell'”iter” criminoso. (Sez. 6, n. 34539 del 23/06/2021, I., Rv. 281857 01).
Generica e reiterativa è, infine, la censura proposta in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non essendosi confrontata la ricorrente con la sentenza di appello nella parte in cui afferma che le circostanze generiche sono già state riconosciute in primo grado nella massima estensione per la incensuratezza della stessa, evidenziando, altresì, l’operatività del divieto, ai sensi dell’art. 12, comma 3,-quater, d.lgs n. 286 del 1998, del giudizio di equivalenza o di prevalenza delle attenuanti con le aggravanti di cui al comma 3, ter, lett. b) dell’art. 12 d.lgs cit.
Anche le censure prospettate dalla ricorrente NOME COGNOME, concernenti il trattamento sanzionatorio, sotto il profilo del quantum della pena applicata non sono fondate, avendo la Corte di appello evidenziato che il giudice di primo grado ha applicato la riduzione di un terzo per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, evidenziando GLYPH per la Spac l’operatività del divieto, ai sensi dell’art. 12, comma 3, quater, d.lgs. n. 286 del 1998, del giudizio di equivalenza o di prevalenza con le aggravanti di cui al comma 3, ter. lett. b), e comunque dando atto di una pena inflitta conforme ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rispetto dei quali risulta dal complessivo analitico impianto motivazionale.
Infine, non sono meritevoli di accoglimento le doglianze difensive di entrambe le ricorrenti, in ordine alla misura di sicurezza dell’espulsione, disposta ai sensi dell’art. 235 cod. pen., avendo la Corte di appello fornito ampia ed esaustiva motivazione in ordine alla pericolosità sociale, che viene affermata diffusamente in relazione alla Munteanu, ma riferita, con motivazione che si ritiene sufficiente, anche alla Spac.
Con riferimento alla Munteanu, la sentenza impugnata formula un >
approfondita motivazione della sussistenza della pericolosità sociale a sostegno della decisione di espulsione/allontanamento della stessa come desumibile dal
complessivo percorso argonnentativo alla luce del quale i giudici di appello hanno evidenziato la disinvoltura con la quale la ricorrente manteneva abitualmente i
rapporti con i sodali, reiterati nel tempo, godendo di piena fiducia dei vertici dell’associazione, rilevando anche che l’imputata non ha mai manifestato una
rivisitazione critica della propria condotta.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla conferma della decisione di espulsione/allontanamento nei confronti della Spac, oggetto di motivo
di ricorso, la cui infondatezza appare argomentata in modo sufficiente dai giudici di appello non solo nella parte della sentenza in cui riferiscono espressamente
anche alla Spac la valutazione della pericolosità sociale, ma anche da quanto risulta dal complessivo impianto motivazionale attinente alla gravità delle condotte
e del ruolo espletato.
In conclusione, la sentenza impugnata ha assolto correttamente all’onere motivazionale, idoneo, pertanto, a sorreggere la scelta di applicare alle ricorrenti l’espulsione dal territorio dello Stato, che costituisce una misura di sicurezza personale di carattere facoltativo applicabile dal giudice solo nel caso in cui, con adeguata motivazione, come nel caso di specie, abbia verificato la sussistenza della pericolosità sociale (Sez. 2, n. 16400 del 17/02/2021, Pg, Rv. 281123 – 01).
Per le esposte ragioni i ricorsi proposti da COGNOME Elena e da RAGIONE_SOCIALE devono essere rigettati, con la conseguente condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 aprile 2025.