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Permesso premio negato: la Cassazione è inflessibile

Un detenuto in regime di ergastolo per reati di mafia si è visto negare un permesso premio. Il Tribunale di Sorveglianza aveva revocato la concessione iniziale, sottolineando la mancanza di prove concrete di un distacco dall’organizzazione criminale e una insufficiente revisione critica del proprio passato. La Corte di Cassazione ha confermato questa decisione, ribadendo i rigidi requisiti della Riforma Cartabia per i condannati per reati ostativi che non collaborano: è necessario non solo provare l’assenza di legami attuali con la criminalità, ma anche adempiere pienamente agli obblighi di riparazione verso le vittime, o dimostrarne l’impossibilità assoluta. L’atteggiamento di minimizzazione dei propri crimini da parte del detenuto è stato considerato un elemento decisivo contro la concessione del beneficio.

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Pubblicato il 6 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Permesso premio negato: la Cassazione ribadisce i requisiti per i reati ostativi

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, torna a pronunciarsi sulla delicata questione della concessione del permesso premio a detenuti condannati per reati ostativi, specialmente alla luce delle modifiche introdotte dalla Riforma Cartabia. Il caso riguarda un detenuto condannato all’ergastolo per gravi reati, tra cui associazione mafiosa e omicidi, che si è visto negare il beneficio a causa di una valutazione negativa del suo percorso di revisione critica e del mancato adempimento degli oneri di riparazione. Questa pronuncia offre importanti chiarimenti sui rigorosi presupposti che i giudici devono verificare.

I fatti del caso: Dalla concessione al rigetto

Un uomo, detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo per crimini legati al clan Santapaola-Ercolano, aveva inizialmente ottenuto un permesso premio dal magistrato di sorveglianza. Tuttavia, il Procuratore della Repubblica aveva proposto reclamo, che è stato accolto dal Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, ribaltando la decisione.

Il Tribunale ha motivato il diniego evidenziando che il detenuto non aveva fornito elementi concreti per escludere l’attualità dei collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza, ancora operativa. Inoltre, dalle osservazioni psicologiche era emerso un atteggiamento di minimizzazione della propria condotta criminale: pur ammettendo di aver fatto parte del clan, l’uomo sosteneva di aver solo eseguito ordini e negava di essersi macchiato di delitti di sangue. Questo atteggiamento è stato interpretato come assenza di un reale percorso di riflessione critica sul proprio passato.

La decisione della Cassazione sul permesso premio

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso del detenuto infondato, confermando in toto la decisione del Tribunale di Sorveglianza. La sentenza si snoda attraverso due pilastri argomentativi fondamentali, rafforzati dalla recente Riforma Cartabia.

Il ruolo della “revisione critica”

Uno degli aspetti centrali della decisione è l’importanza attribuita alla revisione critica del proprio passato deviante. La Cassazione ha ritenuto pienamente logica la deduzione del Tribunale secondo cui un detenuto che minimizza il proprio ruolo criminale e non ammette la gravità delle sue azioni dimostra di non aver intrapreso un serio percorso di riflessione. Questa mancanza è un elemento indicativo negativo per la valutazione della pericolosità sociale. Non basta un comportamento formalmente corretto in carcere; è necessaria una profonda e sincera riconsiderazione del disvalore delle proprie azioni passate. Un atteggiamento adesivo ma superficiale, come quello riscontrato nel caso di specie, non è sufficiente per accedere a benefici come il permesso premio.

Gli oneri di riparazione dopo la Riforma Cartabia

La Corte ha inoltre sottolineato l’inequivocabile rigore introdotto dalla Riforma Cartabia per i condannati per reati ostativi che non collaborano. La legge ora richiede, come condizione per l’accesso ai benefici, la dimostrazione dell’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria verso le vittime, oppure la prova dell’assoluta impossibilità di adempiervi.
Nel caso specifico, il detenuto si era limitato a documentare alcuni versamenti a un’associazione anti-mafia e il pagamento rateale delle spese di giustizia, manifestando una generica “volontà di adempiere nei limiti delle proprie possibilità”. Per la Cassazione, questo non basta. La norma esige una prova rigorosa che vada oltre le mere dichiarazioni di intenti o gesti simbolici, imponendo al condannato di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per risarcire le vittime o di trovarsi in una condizione di totale indigenza che gli impedisce ogni forma di riparazione.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano sull’assoluta solidità degli argomenti del Tribunale di Sorveglianza. La Cassazione ribadisce che, per verificare l’assenza di pericolosità sociale, non si può prescindere da una valutazione concreta della rivisitazione critica del comportamento deviante. L’atteggiamento di minimizzazione tenuto dal ricorrente è stato considerato un elemento dirimente, che giustifica la necessità di proseguire l’osservazione intramuraria.
Inoltre, la Corte ha giudicato ineccepibile l’applicazione dei nuovi e più gravosi oneri imposti dalla Riforma Cartabia. I comportamenti riparatori del condannato sono stati ritenuti del tutto insufficienti a soddisfare il requisito di legge, che non si accontenta di gesti parziali ma esige un adempimento completo o la prova stringente della sua impossibilità. Di conseguenza, il mancato riscontro di elementi pregnanti, capaci di attestare la recisione dei collegamenti con il contesto mafioso e un sincero percorso di ravvedimento, ha portato al rigetto del ricorso.

Le conclusioni

Questa sentenza consolida un orientamento giurisprudenziale sempre più rigoroso nei confronti dei condannati per reati ostativi che scelgono la via della non collaborazione. La concessione di un permesso premio non è un automatismo legato al tempo trascorso in detenzione o alla sola buona condotta, ma il risultato di un percorso trattamentale complesso e verificabile. La Riforma Cartabia ha codificato criteri severi, spostando l’onere della prova sul detenuto, che deve fornire elementi specifici e concreti per dimostrare di aver reciso ogni legame con la criminalità e di aver intrapreso un autentico cammino di riparazione verso le vittime e la società. La minimizzazione del proprio passato criminale si configura, in questa prospettiva, come un ostacolo insormontabile.

Quali sono i requisiti per ottenere un permesso premio per reati ostativi senza collaborare con la giustizia?
Secondo la sentenza, dopo la Riforma Cartabia, il detenuto deve dimostrare: 1) l’adempimento delle obbligazioni civili e di riparazione pecuniaria o l’assoluta impossibilità di farlo; 2) fornire elementi specifici, diversi dalla buona condotta, che escludano collegamenti attuali con la criminalità organizzata; 3) l’esistenza di iniziative concrete a favore delle vittime.

Perché la “revisione critica” del proprio passato è così importante per la concessione dei benefici?
La revisione critica è un indicatore fondamentale del reale percorso rieducativo del condannato. Un atteggiamento che minimizza o giustifica i crimini commessi, come nel caso esaminato, dimostra l’assenza di un’autentica presa di coscienza e, di conseguenza, una persistente pericolosità sociale che osta alla concessione del beneficio.

È sufficiente versare somme a un’associazione anti-mafia per dimostrare la volontà di riparazione?
No, la Corte ha chiarito che tali gesti, pur positivi, sono insufficienti. La legge richiede la prova dell’adempimento integrale degli obblighi risarcitori verso le vittime o la dimostrazione rigorosa dell'”assoluta impossibilità” di provvedervi. Una generica volontà di contribuire “nei limiti delle proprie possibilità” non soddisfa questo requisito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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