Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 820 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 820 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 17/10/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Conversano il 19/9/1999
COGNOME NOME nata a Triggiano il 13/1/1998
COGNOME NOMECOGNOME nato a Putignano il 4/5/1981
NOMECOGNOME nato a Mola di Bari il 6/7/1992
avverso la sentenza del 19/7/2022 della Corte di appello di Bari
Visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità dei ricorsi; letta la memoria depositata dal difensore di NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso proposto dal proprio assistito.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19 luglio 2022, la Corte di appello di Bari, per ciò che rileva in questa sede, ha confermato la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME ha assolto NOME COGNOME dal reato di cui al capo 1) della rubrica, perché il fatto non sussiste, e dai reati di cui ai capi 23) e 32) del rubrica, per non aver commesso il fatto, mentre per i residui capi di imputazione, concesse le attenuanti generiche, ritenuta la continuazione, ha rideterminato la pena con revoca della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni 5; ha assolto NOME COGNOME dal reato di cui al capo 1) della rubrica, perché il fatto non sussiste, e per i residui capi di imputazione, concesse le attenuanti generiche, ritenuta la continuazione, ha rideterminato la pena con revoca della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni 5; ha assolto NOME COGNOME dal reato di cui al capo 1) della rubrica, perché il fatto non sussiste, e per i residui capi di imputazione, concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e ritenuta la continuazione, ha rideterminato la pena con revoca della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni 5.
I reati per cui i ricorrenti hanno riportato condanne concernono episodi di cessione di sostanza stupefacente.
Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorsi per cassazione i difensori degli imputati.
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto i seguenti motivi:
4.1. violazione di legge nonché vizi della motivazione, per avere la Corte di appello, in violazione della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e dei criteri di valutazione della prova indiziaria, ritenuto sufficiente l’esito del intercettazioni ambientali, non riscontrate da alcun elemento. Inoltre, la Corte di appello non avrebbe indicato gli elementi atti a dimostrare che l’imputata avesse agevolato e/o coadiuvato il genitore nell’attività di spaccio e non avrebbe fornito una plausibile spiegazione alternativa al contenuto delle dichiarazioni auto accusatorie rese dal padre;
4.2. violazione di legge e vizi della motivazione, essendo stata applicata una pena base superiore al minimo edittale e non essendo stato concesso all’imputata, infraventunenne all’epoca dei fatti, il beneficio della sospensione condizionale della pena, senza fornire adeguata giustificazione.
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto i seguenti motivi:
5.1. mancanza della motivazione con riguardo alla sussistenza del reato di cui al capo 2) dell’imputazione. La Corte di appello non avrebbe speso alcuna parola sul motivo di gravame con cui si era illustrato che dalle intercettazioni risultava chiaro che il ricorrente fosse assuntore della sostanza indicata nelle conversazioni captate;
5.2. mancanza della motivazione e violazione dell’art. 110 cod. pen. quanto al reato di cui al capo 38), per essere la motivazione sul punto apparente, non essendo stato spiegato quale fosse stato l’apporto concreto fornito dal ricorrente e non potendo il concorso sostanziarsi nel mero adempimento ad una richiesta ricevuta dal proprio genitore.
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto violazione di legge e vizi della motivazione, per essere l’affermazione della responsabilità dell’imputato stata fondata, in violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio e dei criteri di valutazione degli indizi, esclusivamente su un’unica intercettazione ambientale, priva di riscontro oggettivo e avente ad oggetto un colloquio, privo di qualsiasi finalità concreta e non attestante una forma di apporto collaborativo del ricorrente all’attività di spaccio, gestita in maniera autonoma da NOME COGNOME. La Corte di appello avrebbe trascurato le dichiarazioni auto accusatorie del coimputato e avrebbe illogicamente ritenuto che la presenza occasionale del ricorrente all’interno dell’abitazione di NOME COGNOME, padre della fidanzata del ricorrente stesso, equivaleva a consapevolezza di quest’ultimo di fornire con quelle indicazioni circa la presenza delle forze dell’ordine un apporto causale concreto, finalizzato ad assicurare lo svolgimento dell’attività illecita, gestit autonomamente da NOME COGNOME
Il difensore di NOME COGNOME ha dedotto violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla richiesta di riqualificazione del reato di cui al capo 47) ai sensi dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/90 e di assoluzione dal reato di cui al capo 48), perché il fatto non sussiste o è assorbito nel capo 47). Secondo il ricorrente, non vi sarebbe prova sul fatto che la fonte, o quantomeno l’unica fonte, di approvvigionamento di COGNOME fosse stato l’imputato e sul quantitativo di sostanza ipoteticamente ceduto. Dalle conversazioni intercettate non sarebbe emersa la prova di una nuova fornitura effettuata dal ricorrente il 31 maggio 2018, evincendosi soltanto che il ricorrente si era recato presso l’abitazione di Macchia per riscuotere la somma di denaro che il 28 maggio 2018 non aveva ricevuto. La Corte territoriale, inoltre, non avrebbe dato risposta alle deduzioni specifiche, contenute nei motivi aggiunti.
Il 25 settembre 2023 sono stati depositati motivi nuovi nell’interesse di NOME COGNOME con cui si è lamentata la mancanza di motivazione in ordine agli specifici motivi dedotti nell’atto di appello e nei motivi aggiunti, con cui si e censurata l’interpretazione data dal primo giudice alle uniche intercettazioni, poste a base dell’affermazione della responsabilità di COGNOME, e si era evidenziato che l’episodio contestato al capo 48), secondo le stesse argomentazioni del Giudice per le indagini preliminari, doveva ritenersi assorbito nel reato di cui al capo 47), atteso che il 31 maggio 2018 il ricorrente si sarebbe recato da Macchia solo per ritirare il denaro non consegnatogli in occasione della precedente visita del 28 maggio, oggetto della contestazione di cui al capo 47).
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è fondato mentre gli altri ricorsi sono inammissibili.
Prendendo le mosse dal ricorso di NOME COGNOME deve rilevarsi che la Corte d’appello, benché onerata, non ha dato conto compiutamente delle deduzioni difensive, con cui si è censurata la sussistenza degli elementi costitutivi dei reati di cui ai capi 47) e 48) e, in particolare, la valenza probatoria delle conversazioni intercettate, poste a base dell’affermazione della responsabilità del ricorrente.
2.1. Giova premettere che non vi è dubbio che la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. 6, n. 17619, del 08/01/2008, Gionta, Rv. 239724 – 01) è ferma nel ritenere che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se l valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate.
Nel caso in esame, tuttavia, il ricorrente non ha sollecitato questa Corte ad attribuire un significato diverso alle conversazioni intercettate ma ha lamentato che il giudice di appello non ha dato risposta ai motivi di gravame con cui – con rilievi puntuali e specifici – si era evidenziata l’illogicità del significato ad assegnato dal giudice di primo grado.
Al riguardo deve allora ricordarsi che costituisce ius receptum (ex multis: Sez. 4 6779 del 18/12/2013, Rv. 259316) il principio secondo cui, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben
può motivare per relationem; quando, invece, sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anterior o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione d’appello che si limita a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie.
2.2. Nel caso in esame, a fronte di rilievi specifici e decisivi, la Corte d’appello ha dato una risposta inadeguata, affidata a poche righe con cui ha sostanzialmente richiamato la motivazione della sentenza di primo grado.
Di contro, la difesa dell’odierno ricorrente, con riferimento al reato contestato al capo 47), aveva osservato che, dal tenore della conversazione, posta a base dell’affermazione di responsabilità, doveva escludersi che lo stupefacente fosse stato oggetto di cessione da parte dell’imputato, sia perché dalla stessa captazione ambientale si ricavava che quest’ultimo si era recato, in quell’occasione, a casa di NOME COGNOME per riscuotere denaro e non per consegnare stupefacente, sia perché l’imputato dimostrava di non essere neppure a conoscenza dell’esatto contenuto, detenuto dall’interlocutore. Inoltre, la difesa aveva evidenziato che erano incerti la provenienza, il quantitativo, la qualità della droga, così che non poteva concludersi che si trattasse di cocaina, anziché – ad esempio – di sostanza più leggera, con conseguente influenza anche sulla sussumibilità del fatto nella fattispecie di cui al primo comma, piuttosto che al quarto comma, dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990.
Nell’atto di appello e nei successivi motivi aggiunti, inoltre, la difesa aveva rappresentato che con il reato contestato al capo 48) era stata attribuita la cessione del medesimo quantitativo di stupefacente, già oggetto della precedente contestazione. Secondo la difesa, infatti, non solo dalla conversazione sopra citata del 28 maggio 2018 si evinceva che l’imputato sarebbe tornato il giovedì successivo (ossia il 31 maggio) a riscuotere il denaro che il 28 non aveva potuto incassare in quanto Macchia ne era privo, ma era stato lo stesso giudice di primo grado a identificare la droga di cui al capo 48) con la medesima partita già oggetto di contestazione al capo 47). Non ci sarebbe mai stata, quindi, secondo la stessa impostazione fatta propria in sentenza, una seconda autonoma fornitura, così che sarebbe stata errata la condanna dell’imputato in relazione ad entrambi i capi, riferibili in realtà al medesimo quantitativo di stupefacente.
2.3. A tali deduzioni, puntuali, ampiamente argomentate e decisive, avendo ad oggetto gli unici elementi di prova valorizzati dal giudice di primo grado, la Corte del merito non ha dato risposta, così che non può ritenersi adempiuto da parte della menzionata Corte l’onere di adottare un percorso argomentativo, che
desse conto e risolvesse con adeguate affermazioni i nodi problematici, evidenziati dalla difesa del ricorrente.
Siffatte carenze motivazionali risultano di per sé decisive al fine dell’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Bari, per nuovo giudizio sul punto, che tenga conto delle rilevate carenze.
3. Il ricorso proposto da NOME COGNOME è inammissibile.
3.1. Il ricorrente ha censurato l’affermazione della sua responsabilità per i reati ascrittigli, perché fondata esclusivamente su una conversazione intercettata, priva di riscontri.
L’assunto, secondo cui le intercettazioni necessitano di riscontri, è errato.
Costituisce ius receptum, infatti, quello secondo cui il contenuto delle intercettazioni captate fra terzi, dalle quali emergano elementi di accusa nei confronti dell’imputato, o aventi come interlocutore l’imputato stesso, può costituire fonte diretta di prova della sua colpevolezza, senza necessità di riscontri, fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato de conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica (Sez. 6, n. 5224 del 2/10/2019, COGNOME, Rv. 278611 – 02; Sez. 5, n. 48286 del 12/07/2016, COGNOME, Rv. 268414 – 01; Sez. 5, n. 4572 del 17/07/2015, COGNOME, Rv. 265747 – 01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260842 – 01; Sez. 2, n. 47028 del 3/10/2013, COGNOME, Rv. 257519 -01; Sez. 4, n. 31260 del 4/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 256739 -01).
3.2. Il ricorrente, inoltre, ha chiesto una rilettura del compendio intercettivo, senza peraltro dedurre né formalmente, né sostanzialmente il travisamento della prova. Ciò a fronte della sentenza impugnata in cui la Corte di appello – con argomentazioni esenti da vizi rilevabili in questa sede – ha valorizzato una captazione ambientale da cui si evinceva che il ricorrente era consapevole dell’attività di spaccio, svolta dal padre della sua ragazza, e si era prodigato, nell’occasione, per coadiuvarlo sia informandolo in ordine alla presenza di forze dell’ordine nei paraggi sia aiutandolo nel frangente nel confezionamento della sostanza stupefacente da consegnare a un certo NOME.
4. Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
4.1. Il primo motivo non è consentito.
L’appello, proposto dall’imputata, concerneva solo l’affermazione della responsabilità per i reati di cui ai capi 1) e 23) nonché il trattamento sanzionatorio. Le doglianze sulla valutazione della prova per i reati per cui la ricorrente ha riportato condanna, ossia i delitti di cui ai capi 12), 31) e 33), sono
state formulate per la prima volta in questa sede, con evidente soluzione di continuità della catena devolutiva.
Al riguardo deve rilevarsi che il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall’art. 609, commi 1 e 2, cod. proc. pen., il quale attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti nonché alle questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado e a quelle che non sarebbe stato possibile proporre in precedenza.
La disposizione in esame deve essere letta in correlazione con quella dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., che prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello.
Dal combinato disposto delle due norme discende che, ad eccezione di quelle indicate dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., non possono proporsi con ricorso per cassazione le questioni non prospettate in appello (così, in termini generali, Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745 – 01; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, COGNOME, Rv. 255940 – 01).
Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve rilevarsi, quindi, che, nel caso in esame, è precluso alla ricorrente dedurre vizi della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta responsabilità per i reati di cui ai capi 12), 31) e 33), no oggetto dei motivi di appello.
Fermo restando siffatto rilievo, può ad ogni modo aggiungersi che il motivo del ricorso, afferente all’affermazione della responsabilità per tali reati, è stat declinato in modo del tutto generico, essendosi la ricorrente limitata a riportare i principi enunciati dal Giudice della legittimità sulla valutazione della prova indiziaria e ad affermare che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare l’effettiva valenza del quadro probatorio.
Il che non è consentito, dovendo i motivi del ricorso indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che fondano il dissenso, come da ultimo ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268822 -01).
4.2. Il secondo motivo è, in parte, privo di specificità e, in parte, non consentito.
La Corte territoriale, a seguito dell’assoluzione per i reati di cui ai capi 1) e 23), ha motivatamente rideterminato la pena in anni 2, mesi 1 e giorni 10 di reclusione, avendo fatto riferimento alla «gravità dei reati commessi e alla dimostrata capacità a delinquere dell’imputata, che si rendeva complice di alcuni episodi di spaccio di sostanze stupefacenti pur di compiacere ed esaudire le richieste illecite del proprio genitore».
In tal modo la Corte di merito ha assolto al proprio obbligo di motivazione, condividendo il Collegio l’orientamento enunciato in sede di legittimità (ex
mu/tis: Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, COGNOME, Rv. 256197 – 01) secondo cui la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui – come quello in esame – la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nell’ipotesi in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criter di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.
Di contro, la ricorrente non si è confrontata specificamente con le argomentazioni del Collegio del merito, così che la sua doglianza al riguardo difetta di specificità.
Quanto alla residua censura, relativa alla sospensione condizionale della pena, deve rilevarsi che la ricorrente neppure ha sollecitato il giudice di appello al fine della concessione di tale beneficio e questa Corte (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, Salerno, Rv. 275376 – 01) ha affermato che, in tema di sospensione condizionale della pena, fermo l’obbligo del giudice di appello di motivare circa il mancato esercizio del potere – dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito.
Peraltro, nel ricorso per cassazione la ricorrente si è limitata a sottolineare di essere stata infraventunenne all’epoca dei fatti ma non ha indicato gli altri elementi di fatto astrattamente idonei a fondare la concessione del beneficio de quo, che, come è noto, è legata non solo all’entità della pena irrogata ma anche alla sussistenza delle condizioni oggettive e soggettive richieste dall’art. 163 cod. pen. Il che rende la doglianza priva di specificità.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile.
5.1. Deve in primo luogo rilevarsi che già l’atto di appello era generico.
Così come chiarito da questa Corte, l’appellante non può limitarsi a confutare semplicemente il “decisum” del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte, occorrendo, invece, che alle ragioni, poste a fondamento della decisione impugnata, contrapponga argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice. Quand’anche l’appellante reiteri le richieste svolte in primo grado, è necessario che le stesse si confrontino con le considerazioni ivi contenute, dando conto delle ragioni per le quali non si ritengano condivisibili (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, COGNOME, Rv. 268822 – 01).
Ciò non è avvenuto nel caso in esame, essendosi l’imputato limitato ad esprimere il suo dissenso rispetto alla decisione di primo grado, senza indicare le ragioni di fatto o di diritto della non condivisione.
Tale carenza dell’atto di appello è rilevabile anche in questa sede, avendo questa Corte (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, COGNOME, Rv. 270799 – 01) già avuto modo di affermare che l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi rispetto alle ragioni di fatto o di diritto, poste a fondament della decisione impugnata, è rilevabile anche nel giudizio di cassazione, a norma dell’art. 591, comma 4, cod. proc. pen.
Ne discende che il ricorso è inammissibile, proprio perché relativo a provvedimento emesso a seguito di anteriore impugnazione geneticamente inammissibile in ragione del richiamato principio di diritto secondo cui «l’appello (al pari del ricorso per cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata» (Sez. U, COGNOME).
5.2. Del pari, prive di specificità sono anche le censure sollevate con il ricorso per cassazione proposto.
Il ricorrente, infatti, anche in tal caso, si è limitato ad esprimere il propri dissenso rispetto alla motivazione della sentenza impugnata, che ha adeguatamente indicato gli elementi probatori valorizzati e – con specifico riferimento al reato di cui al capo n. 38) – ha delineato la condotta materiale del ricorrente, avendo sottolineato che quest’ultimo aveva seguito le indicazioni del padre nell’attività di sentinella, prima della consegna dello stupefacente.
La declaratoria di inammissibilità dei ricorsi proposti da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché – apparendo evidente che essi hanno proposto i ricorsi determinando la causa di inammissibilità per colpa (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME Marco limitatamente ai reati di cui ai capi 47) e 48) e rinvia per nuovo giudizio su detti capi ad altra Sezione della Corte di appello di Bari.
Dichiara inammissibili i ricorsi di COGNOME NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 17/10/2023