Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 45589 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 45589 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 17/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a Napoli il 31/12/1983
avverso la sentenza del 13/10/2023 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13/10/2023, la Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza del 07/03/2022 del G.i.p. del Tribunale di Modena, emessa in esito a giudizio abbreviato, con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione ed € 1.400,00 di multa per i reati, unificati dal vincolo della continuazione e commessi entrambi ai danni di NOME COGNOME, di: 1) truffa in concorso, aggravata dall’avere commesso il fatto ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario e dalla cosiddetta minorata difesa; 2) rapina aggravata dall’avere commesso il fatto nell’abitazione della suddetta Gualtieri e nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.
Avverso la menzionata sentenza del 13/10/2023 della Corte d’appello di Bologna, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con riguardo al rigetto del primo motivo del proprio atto di appello con il quale era stata sostenuta l’insussistenza del reato di rapina aggravata.
Dopo avere evidenziato come anche la Corte d’appello di Bologna abbia ammesso che la persona offesa aveva fornito due versioni diverse dei fatti con riguardo, in particolare, alla violenza che l’imputato avrebbe o no utilizzato per impossessarsi del collier e degli anelli che erano indossati dalla COGNOME, i ricorrente deduce l’illogicità della motivazione con la quale la stessa Corte d’appello di Bologna ha ritenuto di «privilegiar la versione più circostanziata ed esposta il giorno seguente , una volta cessato lo stato di agitazione, causato dall’evento subito», in luogo della versione che risultava dall’annotazione della polizia giudiziaria che era stata redatta il giorno stesso dei fatti 06/09/2016 (nella quale gli operanti avevano scritto che «la donna gli consegnava ancora l’orologio in oro che aveva al polso ed un collier in oro giallo che aveva al collo»).
Secondo il ricorrente, diversamente da quanto avrebbe illogicamente ritenuto la Corte d’appello di Bologna, non sarebbe possibile considerare questa prima versione dei fatti, che era stata fornita dalla COGNOME nell’immediatezza degli stessi, come frutto dell’agitazione del momento e delle conseguenti amnesie e “salto” di alcuni passaggi, atteso che la COGNOME, il giorno dei fatti, aveva mostrato di ben ricordare l’accaduto quanto alle modalità della sottrazione del collier che indossava, avendo fornito, al riguardo, un racconto che non sarebbe né privo di dettagli né connotato da amnesie, e tenuto anche conto del fatto che non sarebbe «pensabile che un aspetto così determinante come l’utilizzo di violenza da parte dell’imputato si potesse dimenticare al momento dell’intervento della Polizia, avvenuto poco dopo i fatti».
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’omessa motivazione sempre con riguardo al rigetto del primo motivo del proprio atto di appello con il quale era stata sostenuta l’insussistenza del reato di rapina aggravata.
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Bologna avrebbe omesso di motivare in ordine alla censura, che era stata prospettata nel primo motivo del proprio atto di appello, con la quale era stata contestata l’affermazione del G.i.p. del Tribunale di Modena secondo cui l’indicazione, nell’annotazione di servizio del 06/09/2016, della descrizione di una dinamica dei fatti diversa da quella che era
stata esposta nella querela che era stata sporta dalla COGNOME il giorno seguente «è verosimile rappresenti un’errata interpretazione della querela della persona offesa».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’illogicità della motivazione con riguardo al rigetto del secondo motivo del proprio atto di appello con il quale era stata chiesta la riqualificazione del fatto qualificato come rapina aggravata come furto con strappo (art. 624-bis cod. pen.).
Il COGNOME deduce che, diversamente da quanto avrebbe illogicamente ritenuto la Corte d’appello di Bologna, dalla descrizione del fatto che era stata fornita dalla persona offesa COGNOME nella propria querela – secondo cui: «mi ritraevo da una parte e l’uomo si avvicinava a me strappandomi il collier in oro che portavo al collo e gli anelli che avevo alle dita» -, risulterebbe che la donna «si ritrae da una parte e non oppone alcuna resistenza attiva alla condotta dell’imputato», con la conseguenza che, poiché la violenza posta in essere «ricadeva pertanto esclusivamente sulla res senza alcun coinvolgimento della persona offesa», il fatto avrebbe dovuto essere riqualificato come furto con strappo, essendo, altresì, non conferente, la sentenza della Seconda sezione della Corte di cassazione n. 16899 del 21/02/2019, COGNOME, Rv. 276558-01, richiamata dalla Corte d’appello di Bologna.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione con riguardo al rigetto del terzo motivo del proprio atto di appello con il quale era stato lamentato l’erroneo calcolo della pena da parte del giudice di primo grado, sull’assunto che, poiché sarebbe stato «impensabile, seppur a fronte della gravità del fatto contestato, che il Gup sia partito, nel calcolare la pena, da una pena base più alta di quasi due anni rispetto al minimo edittale», ne sarebbe conseguito che sarebbe stato «evidente un errore in tale calcolo, probabilmente avendo il Gup preso come riferimento la pena sì “ante riforma 2019” ma la pena modificata dall’art. 1 comma 8 lett. b) della legge 103/2017 in vigore dal 03.08.2017», cioè successivamente al fatto (che è del 06/09/2016).
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con riguardo al rigetto del quinto motivo del proprio atto di appello con il quale era stata lamentata la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Il ricorrente lamenta che: da un lato, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello di Bologna, il G.i.p. del Tribunale di Modena, nel negare la concessione delle suddette circostanze attenuanti, non avrebbe fatto riferimento alla confessione dell’imputato; dall’altro lato, non sarebbe logicamente sostenibile
che la stessa confessione fosse stata parziale per la ragione che l’imputato aveva negato di avere usato violenza nei confronti della persona offesa atteso che «come si è già ampiamente sostenuto nel presente ricorso violenza non vi è mai stata nei confronti della sig. COGNOME e pertanto l’imputato perché avrebbe dovuto confessare qualcosa che non aveva commesso?».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi – i quali, per la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
1.1. Costituisce un orientamento consolidato della Corte di cassazione quello secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre cosiddetta “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prov con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 25261501).
È parimenti consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 280155-01; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018-01; Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, COGNOME, Rv. 256837-01).
Costituisce, ancora, un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione – e anch’esso, come i precedenti, condiviso dal Collegio – quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore
o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probator del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 28074701; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965-01).
1.2. Nel caso in esame, la Corte d’appello di Bologna, come già il G.i.p. del Tribunale di Modena, a fronte della diversità – in particolare, con riguardo alla violenza che l’imputato avrebbe o no esercitato per impossessarsi del collier e degli anelli che erano indossati dalla persona offesa – tra la versione dei fatti da parte della COGNOME che risultava dall’annotazione della polizia giudiziaria del 06/09/2016 (giorno di commissione dei reati) e la versione dei fatti che la stessa COGNOME aveva reso nella propria querela del giorno successivo (07/09/2016), ha ritenuto di privilegiare quest’ultima versione.
Ciò con la motivazione che, posto che, nella suddetta annotazione di servizio, gli operanti avevano dato atto che la persona offesa «si presentava piangente ed agitata, alternava momenti di nitido ricordo a momenti di amnesia», si doveva, pertanto, privilegiare appunto la versione dei fatti che era stata fornita dall , COGNOME il giorno successivo, in quanto tale versione era stata resa quando era ormai cessato lo stato di agitazione in cui la vittima versava il giorno precedente ed era, altresì, «più circostanziata».
Tale motivazione appare priva di illogicità, tanto meno manifeste, atteso che non si può ritenere illogico, e tanto meno manifestamente illogico, a fronte di due versioni dei fatti fornite dalla stessa persona, rispettivamente, il giorno degli stess fatti in stato di agitazione e alternando momenti di ricordo a momenti di amnesia, e il giorno successivo in assenza di agitazione e in modo più circostanziato, ritenere l’attendibilità di quest’ultima versione.
La stessa motivazione della Corte d’appello di Bologna vale evidentemente anche a superare l’affermazione del G.i.p. del Tribunale di Modena – espressa, peraltro, in termini di mera verosimiglianza («è verosimile»; pag. 5 della sentenza di primo grado) – secondo cui la versione dei fatti che risultava dall’annotazione di servizio del 06/09/2016 avrebbe potuto costituire «un’errata interpretazione della querela della persona offesa».
Il terzo motivo non è fondato.
2.1. Gli approdi della giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della distinzione tra le due fattispecie del furto con strappo e della rapina sono noti.
La linea di demarcazione tra tali due reati è stata in particolare individuata con riguardo alla direzione della condotta violenta che è esplicata dall’agente, nel senso che: sussiste il furto con strappo quando la violenza è immediatamente
rivolta verso la cosa, anche se, a causa della relazione fisica che intercorre tra la cosa stessa e la persona che la detiene, può derivarne una ripercussione indiretta e involontaria su tale persona; sussiste, invece, la rapina, quando la violenza è rivolta o si sviluppa sulla persona (Sez. 2, n. 34206 del 03/10/2006, COGNOME, Rv. 234776-01).
È stato precisato che ricorre il reato di rapina quando la violenza sia stata esercitata per vincere la resistenza della persona offesa, giacché, in tale caso, è la violenza stessa, e non lo strappo, a costituire il mezzo attraverso cui si realizza la sottrazione (Sez. 2, n. 2553 del 19/12/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 26228101).
Si è altresì asserito che ricorre il reato di rapina quando la cosa è particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo vincerne la resistenza e non solo superare la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra il possessore e la cosa sottratta (Sez. 2, n. 41464 del 11/11/2010, P., Rv. 24875101).
Più di recente, è stato affermato il principio secondo cui ricorre il delitto d rapina quando la condotta violenta sia stata esercitata per vincere la resistenza della persona offesa, anche ove la res sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo superarne la resistenza e non solo la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, giacché in tal caso è la violenza stessa – e non lo strappo – a costituire il mezzo attraverso il quale si realizza la sottrazione; si configura, invece, il delitto di furto con strappo quando la violenza sia immediatamente rivolta verso la cosa, seppur possa avere ricadute sulla persona che la detiene (Sez. 2, n. 16899 del 21/02/2019, COGNOME, Rv. 276558-01).
2.2. La Corte d’appello di Bologna ha ritenuto che, nella specie, fosse ravvisabile il reato di rapina sulla considerazione che, «essendo la collana aderente al collo della vittima, la violenza si estese necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo superare l’inevitabile opposizione materiale del corpo della COGNOME e non solo la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra possessore e cosa sottratta», con la conseguenza che, «indipendentemente dalla volontaria resistenza della persona offesa, lo strappo della collana recava seco la trasmissione della violenza al collo della posseditrice, senza la quale non sarebbe stato possibile il distacco del bene»; con la precisazione che « o che la vittima non abbia raccontato di essere caduta o di essere stata aggredita o picchiata non toglie che lo strappo ha
comportato un imprescindibile esercizio di energia fisica contro il collo della donna per asportare la collana, il che concreta la violenza diretta alla persona».
Contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, tale motivazione non presenta vizi logici, atteso che non si può reputare illogico, ed è anzi conforme al sopra indicato orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione, ritenere che, poiché la collana è una cosa particolarmente aderente al corpo del suo possessore, la violenza che era stata esercitata dall’imputato per strappargliela si era necessariamente estesa alla persona dello stesso possessore e si era perciò sviluppata sulla medesima, con la conseguente integrazione del delitto di rapina (in tale senso, con riguardo a una fattispecie del tutto analoga: Sez. 2, n. 17348 del 02/04/2014, COGNOME, non massimata).
3. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simil nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, S 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolver al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01).
Richiamati tali principi, si deve rammentare che, ai sensi del secondo comma dell’art. 628 cod. pen., nel testo applicabile ratione temporis (antecedentemente alle modificazioni che sono state disposte con la legge 23 giugno 2017, n. 103), la pena edittale per l’attribuito delitto di rapina aggravata era quella – correttamente indicata dalla Corte d’appello di Bologna – della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da C 1.032,00 a C 3.098,00.
Ciò posto, rilevato che la pena base irrogata di sei anni e quattro mesi di reclusione ed C 1.800,00 di multa è di gran lunga al di sotto della media edittale della pena per il delitto de quo (come risulta di immediata evidenza dal fatto che, per lo stesso delitto, era prevista la pena massima di venti anni di reclusione),
l’obbligo di motivazione si deve ritenere essere stato adeguatamente assolto dalla Corte d’appello di Bologna mediante non solo il riferimento alla congruità della suddetta pena base ma anche alle ragioni di tale ritenuta congruità – che la Corte d’appello ha rinvenuto sia nella gravità del reato, in quanto commesso approfittando, in modo insidioso, della vulnerabilità della vittima per via della sua età molto anziana, sia nella capacità a delinquere del COGNOME, desunta dai suoi otto precedenti penali per rapina, furto e truffa -, avendo così la stessa Corte d’appello dato pienamente e logicamente conto dell’impiego, nell’esercizio delle propria discrezionalità, dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
4. Il quinto motivo è manifestamente infondato.
In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269-01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli fac riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli alt disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Bologna ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l’elemento, attinente alla spiccata capacità a delinquere del COGNOME, dei suoi menzionati numerosi precedenti penali, ritenendo altresì – in modo che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non si può ritenere illogico – di non potere valorizzare favorevolmente la confessione che era stata resa dall’imputato a causa del carattere parziale della stessa, avendo il RAGIONE_SOCIALE
confessato sì la truffa ma negato, però, di avere usato violenza (che aveva invece esercitato, come si è detto, per strappare la collana alla vittima).
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, comunque, espressiva di un giudizio di fatto non sindacabile in questa sede.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17/10/2024.