Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 18094 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 18094 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a Ferrara il 01/10/2002 COGNOME NOMECOGNOME nato a Portomaggiore il 03/03/1987
avverso la sentenza del 05/06/2024 della Corte d’appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME il quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 05/06/2024, la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del 27/06/2023 del G.i.p. del Tribunale di Ferrara, emessa in esito a giudizio abbreviato:
quanto all’imputato NOME COGNOME:
a.1) riqualificata la condotta di cui al capo A) dell’imputazione da rapina impropria in furto in abitazione di cui all’art. 624-bis cod. pen., aggravato dall’uso di violenza sulle cose (ex art. 625, primo comma, n. 2, cod. pen.) – aggravante ritenuta equivalente alle già concesse circostanze attenuanti generiche -,
rideterminava in 2 anni e 8 mesi di reclusione ed € 618,00 di multa la pena irrogata all’imputato per tale reato;
a.2) assolveva il COGNOME dai reati di resistenza a un pubblico ufficiale in concorso (con NOME COGNOME) di cui al capo B) dell’imputazione e di lesioni personali, aggravate dall’avere commesso il fatto contro un’agente di polizia giudiziaria nell’atto dell’adempimento del servizio (ex art. 576, primo comma, n. 5-bis, cod. pen.), in concorso (sempre con NOME COGNOME) di cui al capo C) dell’imputazione;
quanto all’imputato NOME COGNOME esclusa, con riguardo al reato di rapina impropria di cui al capo A) dell’imputazione, la circostanza aggravante dell’essere stata la violenza o minaccia commessa da più persone riunite, e ferma la già ritenuta equivalenza delle già concesse circostanze attenuanti generiche alla recidiva, rideterminava in 3 anni e 6 mesi di reclusione ed € 825,00 di multa la pena irrogata per tale reato di rapina impropria, nonché per i reati, con esso unificati dal vincolo della continuazione, di resistenza a un pubblico ufficiale di cui al capo B) dell’imputazione e di lesioni personali, aggravate dall’avere commesso il fatto contro un’agente di polizia giudiziaria nell’atto dell’adempimento del servizio (ex art. 576, primo comma, n. 5-bis, cod. pen.), di cui al capo C) dell’imputazione.
Avverso tale sentenza del 05/06/2024 della Corte d’appello di Bologna, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti e per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riguardo al giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante di cui all’art. 625, primo comma, n. 2), cod. pen.
Il COGNOME lamenta che «manca completamente la motivazione sul punto», con la conseguenza che non sarebbe possibile comprendere le ragioni che hanno indotto la Corte d’appello di Bologna a ritenere la suddetta equivalenza e valutare quindi se il giudizio di bilanciamento compiuto dalla stessa Corte d’appello «sia corretto o meno».
Il ricorrente rappresenta che, «in ragione della giovane età dell’imputato, del corretto comportamento processuale e per meglio adeguare la sanzione al fatto commesso, si ritiene che le circostanze attenuanti generiche potessero essere bilanciate in termini di prevalenza sull’aggravante di cui all’art. 625 co. 1 n. 2 c.p.».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a due motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 628, 337 e 585 cod. pen., «per carenza dell’elemento soggettivo» dei relativi reati, nonché la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione «in punto di applicabilità degli artt. 628, 337 e 585 c.p. nei confronti del sig. NOME COGNOME».
Il ricorrente contesta anzitutto la qualificazione giuridica del fatto di cui a capo A) dell’imputazione come rapina impropria anziché come furto in abitazione e, in particolare, la tesi della Corte d’appello di Bologna secondo cui egli, mentre era alla guida dell’autovettura Fiat Punto, avrebbe deliberatamente speronato l’autovettura a bordo della quale si trovavano gli agenti di polizia giudiziaria al fine di procurarsi l’impunità.
Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) tale tesi della Corte d’appello di Bologna si fonderebbe sull’assunto che egli aveva contezza della presenza degli agenti della Polizia di Stato all’esterno dell’abitazione della vittima, assunto che, tuttavia, non troverebbe «riscontri oggettivi nello svolgimento dei fatti» e sarebbe confutato dal «tempo, brevissimo, durante il quale tali eventi avevano luogo», non potendo «pensare (anche solo sospettare) il sig. COGNOME di essere sottopost a sorveglianza da parte di agenti in borghese», né «alcun motivo di pensare o sospettare l’intervento della P.G.»; b) egli stava procedendo a bordo dell’autovettura Fiat Punto percorrendo «l’unica strada» a normale velocità e, nell’affrontare una curva, si era «trovat dinnanzi una vettura priva di segni di riconoscimento che invadeva la loro corsia di marcia», sicché, «a quel punto, faceva quello che chiunque altro avrebbe fatto: tentava di evitare lo scontro», sterzando «verso destra», manovra che «non era finalizzata però a “scartare” la Renault della Polizia di Stato – come affermato in sentenza – ma semplicemente per evitare conseguenze dannose per se stesso e per il compagno COGNOME», come sarebbe confermato dal «brevissimo lasso di tempo che intercorreva tra l’uscita di casa COGNOME , l’accensione della macchina, la partenza a bordo della Fiat Punto e la successiva svolta lungo INDIRIZZO»; c) «sul punto non è mai stata eseguita alcuna perizia cinematica volta a stabilire la dinamica del sinistro o la velocità mantenuta dalla vettura condotta dal COGNOME»; d) sarebbe contrario alla logica ritenere, come avrebbe fatto la Corte d’appello di Bologna, che «in quello stesso frangente gli imputati avrebbero avuto il tempo di comprendere di trovarsi dinanzi agli operanti della Polizia di Stato ed avrebbero maturato la decisione di speronarne la vettura per guadagnarsi la fuga»; e) con riguardo al coimputato COGNOME, la Corte d’appello di Bologna aveva ritenuto «che l’esiguo lasso temporale non permettesse di maturare alcuna decisione», nonostante tale lasso fosse stato lo stesso che aveva avuto a disposizione il COGNOME, con la conseguenza che «partendo dal medesimo Corte di Cassazione – copia non ufficiale
dato storico si giunge a due decisioni opposte»; f) se egli fosse stato consapevole della presenza delle forze dell’ordine nel momento in cui usciva dalla casa della vittima del furto «non sarebbe immediatamente risalito in macchina tenendo con sé i guanti, gli strumenti da scasso e la refurtiva» ma, «più verosimilmente, avrebbe tentato la fuga liberandosi di tutto ciò e, altrettanto verosimilmente, non avrebbe deciso di mettersi alla guida sapendo della presenza di “blocco” stradale a pochi metri»; g) allo stesso modo, non vi sarebbero elementi che consentano di ritenere «che egli si fosse reso conto di trovarsi dinnanzi ad una vettura della polizia in borghese», attesa «l’immediatezza dei fatti, l’assenza di segni distintivi da parte degli operanti di P.G. e la collocazione di questi ultimi in corrispondenza di una curva», circostanze che avrebbero dovuto indurre la Corte d’appello di Bologna a chiedersi se egli avesse avuto il tempo materiale per decidere di speronare l’autovettura della Polizia di Stato per guadagnarsi la fuga.
Secondo il ricorrente, non sarebbe configurabile neppure il dolo eventuale del delitto di rapina impropria, atteso che, alla luce di quanto esposto, «non vi erano elementi tali da far presagire all’imputato neppure la possibilità che in quella zona, in quel momento, vi fossero agenti di Polizia».
Per le medesime ragioni, cioè «l’oggettiva impossibilità per Mainenti di intuire la presenza di agenti di P.G. al momento dei fatti», non sarebbero configurabili neppure i reati di resistenza a un pubblico ufficiale di cui al capo B) dell’imputazione e di lesioni personali di cui al capo C) dell’imputazione, in relazione ai quali mancherebbe «totalmente la coscienza e la volontà di porre in essere le contestate fattispecie delittuose, anche sotto il profilo del dolo eventuale», potendosi, al più, ritenere, quanto al fatto di cui al capo C) dell’imputazione», la sua «equivalente colposa».
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , con proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 62, n. 6), cod. pen., «in relazione all’omessa applicazione della circostanza attenuante» prevista da tale disposizione.
Il COGNOME contesta l’asserzione dei giudici del merito secondo cui il risarcimento del danno alle persone offese non sarebbe stato integrale ma parziale.
Posto che la refurtiva che era stata sottratta alla persona offesa NOME COGNOME le era stata interamente restituita, il ricorrente rappresenta che il proprio difensore e quello del coimputato COGNOME avevano raggiunto degli accordi di natura transattiva sia con la sig. COGNOME sia con gli agenti della polizia giudiziaria NOME COGNOME e NOME COGNOME, transazioni con le quali il danno della sig.ra COGNOME era stato quantificato in C 600,00 e il danno dei due menzionati agenti della polizia giudiziaria era stato quantificato in C 300,00 ciascuno.
Ciò rappresentato, il ricorrente deduce che sarebbe «chiaro che accogliendo la proposta formulata dallo scrivente questi hanno ritenuto congrue le somme loro offerte per l’integrale ristoro del proprio danno accettandole tutti senza alcuna riserva», con la conseguenza che, «se gli stessi danneggiati hanno ritenuto congrue le somme offerte loro, non vi è modo né motivo di supporre il contrario».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché è proposto per un unico motivo che non è consentito.
Nell’articolare tale motivo, il ricorrente non ha infatti considerato che la circostanza aggravante del furto in abitazione dell’avere usato violenza sulle cose è una circostanza aggravante che, oltre a essere a effetto speciale (art. 624-bis, terzo comma, cod. pen.), rientra nella categoria delle aggravanti cosiddette privilegiate, o a blindatura forte, atteso che, a norma del quarto comma dell’art. 624-bis cod. pen., essa non può essere ritenuta equivalente o prevalente rispetto alle concorrenti circostanze attenuanti (salvo che si tratti delle attenuanti di cui agli artt. 98 e 625-bis cod. pen.) – sicché è sottratta al bilanciamento ex art. 69 cod. pen. e ne è garantita l’applicazione del relativo regime edittale – e la diminuzione di pena per le circostanze attenuanti opera sulla quantità di pena che è stabilita per la stessa circostanza aggravante privilegiata (su tali questioni: Sez. U, n. 42414 del 29/04/2021, Cena, Rv. 282096-01).
Ne discende che la Corte d’appello di Bologna, col ritenere le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla circostanza aggravante privilegiata del furto in abitazione dell’avere usato violenza sulle cose, ha in realtà commesso un errore di diritto che si è risolto, però, a favore dell’imputato, atteso che, sulla base di tal errore, la stessa Corte d’appello, anziché applicare al COGNOME, come avrebbe dovuto fare, il “garantito” più severo regime edittale di cui al terzo comma dell’art. 624-bis cod. pen. (reclusione da 5 a 10 anni e multa da C 1.000,00 a C 2.500,00), ha irrogato allo stesso COGNOME il minimo della pena che è previsto dal primo comma dell’art. 624-bis cod. pen. (4 anni di reclusione ed C 927,00 di multa).
Il fatto che il ricorrente non abbia considerato tale aspetto e abbia invocato un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche che, come si è detto, è in realtà vietato dalla legge, comporta che il motivo si deve ritenere non consentito.
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché è proposto per due motivi non consentiti.
2.1. Il primo motivo non è consentito.
2.1.1. Costituisce un orientamento consolidato della Corte di cassazione quello secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricor la cosiddetta “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 25261501).
È, ancora, un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 28074701; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965-01).
Non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623-01; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, COGNOME, Rv. 250362-01).
2.1.2. Nel caso in esame, le conformi sentenze dei giudici di merito hanno argomentato come dal compendio probatorio che era stato acquisito a seguito della scelta, da parte dei due imputati, del giudizio abbreviato e, in particolare, dal verbale di arresto degli stessi imputati, fosse emerso che l’automobile civetta della Polizia di Stato «era dotata del lampeggiante acceso», con la conseguenza che la sua appartenenza alle forze dell’ordine era «ben visibile e riconoscibile» (pag. 4 della sentenza di appello) – dovendosi comunque considerare che, nel momento in cui i due imputati si erano vista sbarrata la strada da un’autovettura che si era posta di traverso alla carreggiata, non potevano non essersi rappresentati trattarsi di agenti in borghese che intendevano fermarli (pag. 3 della sentenza di primo
grado) -, con la conseguenza che la condotta del COGNOME, che era alla guida della Fiat Punto a bordo della quale viaggiavano i due imputati, consistita nel compiere un pericoloso improvviso scarto, accelerando la marcia (pag. 4 della sentenza di primo grado) e investendo l’autovettura Renault Megane con la quale gli agenti della Polizia di Stato COGNOME e COGNOME stavano effettuando il blocco stradale, si doveva logicamente ritenere essere stata compiuta per forzare lo stesso blocco, sottrarsi all’arresto e procurarsi, così, l’impunità.
Tale motivazione – dalla quale discende la correttezza, anche in diritto, della ritenuta integrazione degli estremi oggettivi e soggettivi dei contestati delitti d rapina impropria, resistenza a un pubblico ufficiale e lesioni personali (cagionate agli agenti COGNOME e COGNOME a seguito dell’investimento dell’autovettura sulla quale si trovavano) -, appare del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità, in particolare, a quelle che sono state avanzate dal ricorrente, le quali, lungi dal prospettare vizi che siano inquadrabili nell’ambito di quelli che sono indicati nell’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., appaiono piuttosto dirette a evidenziare ragioni in fatto o a sollecitare una differente valutazione del significato probatorio da attribuire alle diverse prove, il che, come si è detto al punto 2.1.1, non è consentito fare in sede di legittimità.
In ogni caso, con riguardo a tali censure, si ritiene comunque di osservare che: a) la motivazione dei giudici di merito non muove affatto dall’assunto che l’imputato avrebbe avuto contezza della presenza degli agenti della Polizia di Stato al di fuori dell’abitazione della sig.ra COGNOME; b) l’autovettura della Polizia di Sta non era «priva di segni di riconoscimento», atteso che dal verbale di arresto risultava che la stessa «era dotata del lampeggiante acceso»; c) la richiesta di giudizio abbreviato non era stata subordinata all’espletamento di una perizia cinematica; d) la diversa decisione alla quale è pervenuta la Corte d’appello di Bologna con riguardo alla posizione del coimputato COGNOME si fonda, del tutto logicamente, sul fatto che a condurre l’autovettura Fiat Punto era il COGNOME e non il COGNOME.
2.2. Il secondo motivo non è consentito.
2.2.1. Ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), cod. pen., è necessario che il colpevole abbia provveduto, prima del giudizio, alla riparazione del danno mediante il risarcimento totale ed effettivo, non potendo a esso supplire un ristoro parziale, avvenuto attraverso la sola restituzione della refurtiva (Sez. 2, n. 9535 del 11/02/2022, Cortiglia, Rv. 282793-01; Sez. 5, n. 44562 del 28/05/2015, Taliji, Rv. 265092-01).
Inoltre, posto sempre che, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), cod. pen., il risarcimento del danno deve essere
integrale, ossia comprensivo della totale riparazione di ogni effetto dannoso, la valutazione in ordine alla corrispondenza fra transazione raggiunta e danno spetta
al giudice, che può anche disattendere, con adeguata motivazione, ogni dichiarazione satisfattiva resa dalla parte lesa (Sez. 2, n. 51192 del 13/11/2019,
C., Rv. 278368-02; Sez. 2, n. 53023 del 23/11/2016, Casti, Rv. 268714-01; Sez.
4, n. 34380 del 14/07/2011, NOME, Rv. 251508-01).
Ciò in quanto, come è stato precisato dalla prima e dalla terza delle sentenze che si sono appena citate, l’attenuante
de quo, di natura soggettiva, trovando la
sua causa giustificatrice non tanto nel soddisfacimento degli interessi economici della persona offesa quanto nel rilievo che il risarcimento del danno prima del
giudizio rappresenta una prova tangibile dell’avvenuto ravvedimento del reo e, quindi, della sua minore pericolosità sociale, postula che lo stesso risarcimento sia
totale ed effettivo, non potendo a esso supplire un ristoro soltanto parziale.
2.2.2. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno negato la sussistenza della circostanza attenuante perché hanno ritenuto che le somme che erano state
corrisposte sulla base degli accordi transattivi che erano stati conclusi con i
danneggiati, «per la loro modestia» (così il Tribunale di Ferrara), costituissero un ristoro solo parziale e non integrale del danno che essi avevano subito in conseguenza dei reati, avendo il Tribunale di Ferrara altresì evidenziato come non fosse stato in alcun modo considerato il danno che era stato arrecato all’autovettura della Polizia di Stato.
Si tratta di una valutazione in fatto (non integralità del risarcimento del danno), che i giudici di merito, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, ben potevano compiere anche in presenza di una transazione spettando agli stessi di verificare la corrispondenza tra transazione e danno – e che, in quanto, appunto, in fatto, non può essere “rivalutata” in questa sede.
In conclusione, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di C 3.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende. ate
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle w spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle t11 ammende. GLYPH – o
Così deciso il 04/03/2025.
z