Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 25348 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 25348 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME nato a Soriano Calabro il 26/01/1969
avverso la sentenza del 12/12/2024 della Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio del provvedimento impugnato in relazione al capo A) per mancanza della condizione di procedibilità ed il rigetto nel resto;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. NOME COGNOME che ha insistito nei motivi di ricorso, nei motivi nuovi e chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME a mezzo del suo difensore, propone ricorso per cassazione avverso la sentenza del 12 dicembre 2024 con la quale la Corte di Appello di Catanzaro, ha confermato la sentenza emessa, in data 16 settembre 2022, con cui il Tribunale di Vibo Valentia, lo ha condannato alla pena di anni 3 di reclusione ed euro 7.000,00 di multa in relazione al reato di autoriciclaggio.
Il ricorrente, con il primo motivo di impugnazione, lamenta violazione degli artt. 646 cod. pen. ed 85 dl. 162/2022 conseguente all’omesso proscioglimento per mancanza della condizione di procedibilità per il reato di cui all’art. 646 cod. pen.
La Corte di merito avrebbe erroneamente rigettato la richiesta difensiva sul presupposto della mancata effettuazione degli avvisi alla persona offesa previsti dal dl. 162/2022, senza tenere conto del fatto che l’art. 85 prevede che, in caso di conoscenza da parte della persona offesa del fatto costituente reato in data anteriore al 30 dicembre 2022, il termine per proporre querela decorre dalla data di entrata in vigore del citato decreto legge, con conseguente irrilevanza della mancata effettuazione degli avvisi di legge.
La difesa ha rimarcato che, nel caso di specie, la persona offesa COGNOME avrebbe avuto notizia della notizia di reato fin dal 01 giugno 2021, data in cui veniva escussa come testimone la legale rappresentante della menzionata compagine societaria con conseguente decorrenza del termine per proporre querela dal 30 dicembre 2022.
Il ricorrente, con il secondo motivo di impugnazione, eccepisce violazione dell’art. 648ter.1 cod. pen. nonché carenza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di autoriciclaggio.
La Corte territoriale, con motivazione del tutto apodittica ed apparente, avrebbe fondato la condanna esclusivamente sull’impiego di somme di denaro di provenienza delittuosa in attività di tipo speculativo, senza indicare se tale attività abbia reso più difficoltosa l’identificazione del denaro trasferito dal Lo Faro.
I giudici di appello avrebbero ignorato che le operazioni in esame sarebbero state effettuate mediante i conti correnti intestati ai coniugi COGNOME con conseguente piena tracciabilità ed assoluta idoneità di tali operazioni a rendere maggiormente difficoltà l’identificazione del denaro trasferito dall’imputato.
Tale affermazione, peraltro, troverebbe conferma nella circostanza che tutte le operazioni sarebbero state “individuate” dagli inquirenti grazie alla mera acquisizione della documentazione bancaria relativa ai conti correnti intestati al Lo Faro nonché dall’incontestata provenienza del denaro dal reato di appropriazione indebita commesso in danno della Confeuro.
Il trasferimento delle somme di provenienza delittuosa sul conto corrente personale del ricorrente e la successiva collocazione in un conto deposito titoli non avrebbe comportato alcun mutamento della formale titolarità delle stesse né una reimmissione nel circuito economico con conseguente inidoneità di tali condotte ad ostacolarne l’identificazione. Tale affermazione troverebbe fondamento nell’identità soggettiva tra l’autore del delitto presupposto e la titolarità dei beni di provenienza delittuosa nel momento successivo a tale attività di trasferimento.
Il ricorrente, con il terzo motivo di impugnazione, lamenta travisamento della prova e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui i giudici di merito hanno escluso che la condotta fosse destinata al godimento personale delle somme di provenienza delittuosa.
È stato, in proposito, affermato che l’operazione in esame sarebbe fondata sulla volontà del ricorrente di ottenere un arricchimento personale e non su una volontà di nascondere la provenienza illecita delle somme di denaro in considerazione della piena tracciabilità delle operazioni, effettuate senza ricorrere a stratagemmi ed accorgimenti di alcun tipo.
I giudici di appello avrebbero erroneamente affermato che il Lo Faro “anziché tenere il denaro per sé lo impegna con l’intenzione di trarre profitto, accettando pure il rischio di una perdita” senza tenere conto che il “conto titoli” non comporta alcun rischio di perdita del capitale, essendo un prodotto finanziario che ha la funzione di custodire ed amministrare tutte le tipologie di investimento che un consumatore può sottoscrivere sui mercati finanziari.
Di conseguenza, il versamento di denaro in un conto titoli non comporterebbe alcun rischio di perdita per il cliente con conseguente erroneità dell’affermazione con cui tale attività è stata indicata come speculativa dalla Corte territoriale.
Il ricorrente, con il quarto motivo di impugnazione, lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 648-ter.1, comma terzo, e 62-bis cod. pen. nonché manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti invocate con l’atto di appello.
I giudici di merito avrebbero erroneamente escluso la diminuzione di pena prevista dall’art. 648-ter.1, comma terzo, cod. pen. senza tenere conto che all’epoca dei fatti il reato di appropriazione indebita era punito con la pena fino a tre anni di reclusione.
La Corte territoriale avrebbe, inoltre, fondato il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche esclusivamente in considerazione della gravità dei fatti e della spiccata professionalità dell’agire delittuoso, senza argomentare in ordine alla ritenuta irrilevanza degli elementi favorevoli ad una maggiore mitigazione della pena indicati dalla difesa (incensuratezza, mancanza di pendenze giudiziarie, grossolanità della condotta illecita).
Il difensore del ricorrente, in data 11 aprile 2025, ha depositato conclusioni scritte con le quali ha insistito nei motivi di ricorso, specificando che le condotte di autoriciclaggio si sarebbero concluse in data 8 gennaio 2015.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni che seguono.
Il primo motivo di ricorso è generico e dedotto in carenza di interesse.
Il Collegio intende dare seguito al principio di diritto secondo cui sussiste interesse al ricorso per cassazione, avverso una sentenza d’improcedibilità per estinzione del reato per prescrizione al fine di ottenere il proscioglimento con una diversa formula d’improcedibilità, solo ove il ricorrente deduca quale sia l’effettivo e concreto vantaggio che derivi dalla rimozione del provvedimento impugnato (vedi Sez. 4, n. 19623 del 21/04/2022, COGNOME, Rv. 283213 – 01).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha indicato in alcun modo quale sia l’interesse ad ottenere, in sostituzione della declaratoria di estinzione per sopravvenuta prescrizione, una pronuncia di non doversi procedere per mancanza di querela in relazione al reato di appropriazione indebita e quale risultato vantaggioso potrebbe conseguentemente ottenere
dalla eliminazione di detta sentenza, limitandosi ad argomentare in ordine all’erronea applicazione da parte dei giudici di appello dell’art. 85, dl. 162/2022.
Deve essere, in proposito, ricordato che l’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. pone, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato. Le Sezioni Unite hanno chiarito che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare va individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 17/02/2012, COGNOME, Rv. 251693; Sez. 1, n. 8763 del 25/11/2016, COGNOME, Rv. 269199 01).
Deve trattarsi, pertanto, di interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante, né un tale interesse può risolversi, come nel caso di specie, in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento.
Il secondo ed il terzo motivo di impugnazione, che possono essere trattati congiuntamente in quanto relativi alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di autoriciclaggio, sono al contempo aspecifici e manifestamente infondati.
Deve esser preliminarmente evidenziato che la sentenza di appello oggetto di ricorso costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d’appello a quella del Tribunale sia l’ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri valutativi (Sez. 2, n. 6560 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 280654 – 01).
Occorre, preliminarmente, rilevare che il reato previsto dall’art. 648-ter.1 cod. pen., è un delitto a forma libera realizzabile attraverso condotte caratterizzate da un tipico effetto dissimulatorio e finalizzate ad ostacolare l’accertamento o l’astratta individuabilità dell’origine delittuosa delle utilità che si intendono occultare, ipotesi certamente verificatasi nella fattispecie de qua alla luce di quanto riscontrato dai giudici di merito con argomentazioni congrue e prive di aporie logico-giuridiche.
Entrambe le sentenze hanno dato adeguatamente conto delle ragioni che hanno indotto i giudici di merito ad affermare che il ricorrente abbia commesso il reato di cui all’art. 648ter.1 cod. pen., a seguito di una valutazione degli elementi probatori che appare rispettosa dei canoni di logica e dei principi di diritto che governano l’apprezzamento delle prove.
La Corte territoriale, con motivazione coerente con le risultanze istruttorie ed esente da illogicità, ha ritenuto dimostrato il reimpiego dei proventi del reato di appropriazione indebita in investimenti mobiliari; le condotte descritte nel capo di imputazione sono state correttamente ritenute idonee a perfezionare gli elementi costitutivi del reato di cui all’art.
648-ter.1 cod. pen. in considerazione della natura fraudolenta e dissimulatoria delle operazioni di trasferimento del denaro di provenienza delittuosa (vedi pagg. da 3 a 5 della sentenza impugnata e pagg. da 6 a 9 della sentenza di primo grado).
2.1. L’affermazione difensiva secondo cui la tracciabilità delle operazioni bancarie realizzate dal ricorrente ed il mancato mutamento della formale titolarità delle somme di provenienza delittuosa escluderebbero l’idoneità delle condotte rubricate a rendere maggiormente difficoltà l’identificazione del denaro trasferito dall’imputato, è destituita di fondamento.
Deve essere, in proposito, ribadito che, ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio, non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza, e ciò anche attraverso operazioni o flussi finanziari che risultino pienamente tracciabili (Sez. 2, n. 36121 del 24/05/2019, P.G. contro COGNOME, Rv. 276974 -01).
Deve conseguentemente essere escluso che l’avvenuta identificazione delle operazioni di dissimulazione del denaro o del bene illecito da parte degli inquirenti escluda la punibilità della condotta perché priva di “concreta” capacità decettiva; una tale interpretazione finirebbe per escludere la punibilità di qualsiasi condotta per il solo fatto della successiva verificazione e ricostruzione della stessa e comporterebbe la irragionevole conseguenza di dovere affermare la non applicabilità della norma penale di cui all’art. 648 ter.1 cod. pen. a qualsiasi fatto accertato.
2.2. In tema di operazione bancarie, la giurisprudenza di legittimità ha affermato come rientri tra le condotte idonee a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro anche la condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con denaro pulito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante il mero tantundem (Sez. 2, n. 52549 del 20/10/2017, Rv. 271530-01; Sez. 2, n. 4855 del 22/12/2022, COGNOME, Rv. 284390-01; Sez. 2, n. 10939 del 12/01/2024, COGNOME, Rv. 286140-01) nonché qualsiasi trasferimento di fondi da un conto corrente bancario acceso presso un differente istituto di credito (Sez. 2, n. 10939 del 12/01/2024, COGNOME, Rv.286140-01; Sez. 2, n. 43881 del 09/10/2014, COGNOME, Rv. 260694-01).
Nello stesso senso si è chiarito che integra il delitto di autoriciclaggio la condotta di chi, in qualità di autore del delitto presupposto di truffa, impieghi le somme accreditategli realizzando l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie a fini speculativi, idone a ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro (Sez. 2, n. 27023 del 07/07/2022, COGNOME, Rv. 283681-02) permettendo all’imputato di godere dei beni e denaro senza che sia immediatamente tracciabile la provenienza illecita.
La ratio sottesa all’introduzione delle fattispecie incriminatrice dell’autoriciclaggio si fonda sull’esigenza di impedire che l’autore del reato presupposto possa liberamente disporre del profitto illecito, sottraendolo ogni forma di controllo, e soprattutto di contrastare condotte volte a reinserire tali proventi nel circuito economico legale attraverso modalità che aggravano l’offensiva della condotta, esponendo a concreto pericolo l’integrità e il corretto funzionamento dell’ordine economico.
L’effettiva idoneità dissimulatoria delle operazioni, salva l’ipotesi estrema di cui all’art. 49 cod. pen., non è, peraltro, un requisito del fatto tipico non costituendo l’evento della fattispecie criminosa in esame (vedi Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 279407-01, secondo cui, in tema di autoriciclaggio, il criterio da seguire ai fini dell’individuazione della condotta decettiva è quello della idoneità ex ante, sulla base degli elementi di fatto sussistenti nel momento della sua realizzazione, ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene, senza che il successivo disvelamento dell’illecito per effetto degli accertamenti compiuti, anche grazie alla tracciabilità delle operazioni, determini automaticamente una condizione di inidoneità dell’azione).
In senso del tutto conforme questa Corte ha anche precisato, di recente, con principio che qui si intende ribadire, che “la lecita vestizione delle somme, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto, derivando da una successiva condotta di impiego, sostituzione o trasferimento, costituisce il risultato empirico dell’attività delittuosa” ed è proprio “in forza di tale variegata condotta che le risorse di provenienza delittuosa, pur essendo legate da un nesso di derivazione causale con il delitto presupposto, assumono una diversa veste giuridica naturalistica, in quanto dotate – a seguito dell’operata trasformazione- di una loro autonoma individualità sia per causa che per effetto”. Ne consegue quindi un fenomeno di “autonomizzazione” di quella che ” da un punto di vista economico potrebbe qualificarsi come la provvista del nuovo illecito trasformativo, non soltanto della res in quanto tale, ma anche della sua stessa destinazione funzionale che muta da quella originaria” (Sez. 2, n. 37754 del 07/12/2023, COGNOME, Rv. 285815).
2.3. Nel caso di specie, le plurime e articolate movimentazioni finanziarie attuate, con il palese intento di ricavarne un profitto (impiego dei fondi illeciti nell’acquisto di titoli azionari, trasferimento dei titoli da un conto deposito di un istituto di credito ad altro istituto di credito, utilizzo dei profitti di tali operazioni in operazioni di compravendita immobiliare) risultano, dunque, connotate dalla sistematica e sempre più sfuggente trasformazione della iniziale e consistente somma di denaro attraverso una sostanziale reimmissione del denaro di provenienza delittuosa nel circuito economico-finanziario finalizzata ad ottenere quel concreto effetto dissimulatorio che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile). Ne consegue l’irrilevanza dell’identità soggettiva del titolare del denaro e della mancanza di dispersione o spendita dello stesso segnalate dalla difesa.
2.4. I giudici di appello, con motivazione esaustiva e conforme alle risultanze processuali, che riprende le argomentazioni del giudice di primo grado come è fisiologico in presenza di una doppia conforme, hanno correttamente ritenuto che il ricorrente abbia impresso al denaro di provenienza delittuosa una “destinazione speculativa”, in presenza di forme di investimento del provento del reato di appropriazione indebita diverse dal mero godimento personale di tali somme. In particolare, è stato evidenziato come il ricorrente, lungi dal trattenere per sé il denaro di provenienza illecita limitandosi ad un uso personale, abbia invece deliberatamente scelto di investirlo, nella prospettiva di trarne un ritorno economico.
Deve essere, in proposito, notato che il legislatore, con l’ampia formulazione del testo dell’art. 648 ter-1 cod. pen., ha inteso perseguire, mediante l’utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative) qualsiasi forma di reimmissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all’interno del circuito economico legale attuata mediante condotte che, come nel caso di specie, ostacolino concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa.
Il riferimento all’attività speculativa – espressione che il legislatore ha intenzionalmente lasciato priva di una definizione rigidamente tipizzata – ricomprende, pertanto, una vasta gamma di comportamenti, accomunati dalla volontà di conseguire un profitto attraverso un’analisi razionale e consapevole delle variabili economiche in gioco, secondo una logica costi/benefici, tale da determinare un’alterazione del normale funzionamento del mercato e un’infiltrazione dell’economia legale attraverso la pulitura di capitali dei quali il reo vuole rendere non più riconoscibile la provenienza delittuosa.
In definitiva, deve essere ribadito che “la clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648-ter.1 cod. pen. va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole, e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa” (Sez. 2, n. 30399 del 07/06/2018, COGNOME, non massimata).
In tale prospettiva, deve escludersi che, ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio, rilevi l’effettivo conseguimento di un utile. Ed invero, il primo comma dell’art. 648-ter.1 cod. pen. incrimina non solo la condotta di sostituzione, ma anche quella, più ampia, di mero “impiego” dei proventi delittuosi in attività idonee, per la loro natura e modalità di esecuzione, ad ostacolare in concreto l’identificazione della loro origine illecita.
Il quarto motivo di ricorso è in parte non consentito ed in parte aspecifico.
3.1. La censura con cui il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 648-ter.1, comma terzo, cod. pen. non è consentita in quanto ha ad oggetto una doglianza non dedotta in sede di appello e non rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Va richiamato, in proposito, l’orientamento costante di questa Corte secondo cui la denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello costituisce causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione. I motivi di ricorso con i quali vengono sollevate questioni che, per non essere state dedotte nei motivi di appello, non potevano essere rilevate dai giudici di secondo grado non sono, infatti, proponibili in sede di legittimità per non essere riconducibili nei limiti degli effetti devolutivi prodotti dall’impugnazione (vedi Sez. U, n. 15 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981-01; Sez. 5, n. 12181 del 20/01/2022, COGNOME, non massimata).
Nel caso di specie, la dedotta violazione dell’art. 648-ter.1, comma terzo, cod. pen. non ha comportato l’applicazione di una pena illegale in quanto i giudici di appello hanno ritenuto congrua una pena determinata dal primo giudice in misura comunque inferiore al massimo edittale.
La determinazione della pena, pertanto, non è stata erroneamente effettuata sulla base di una svista matematica ovvero di un sillogismo logico articolato attraverso una motivazione incongrua rispetto a presupposti indicati, ma di una violazione di legge, in quanto tale passibile di divenire definitiva con la maturazione del giudicato qualore non impugnata in appello.
In altri termini si trattava di una pena legale -perché prevista dall’ordinamento- ma illegittima in quanto determinata in contrasto con i principi di legge per la sua quantificazione e, di conseguenza, non emendabile mediante il ricorso per cassazione dal condannato, che avrebbe dovuto chiederne la corretta commisurazione con gli ordinari mezzi d’impugnazione.
Deve esser, pertanto, rimarcato che la violazione dell’ad. 648-ter.1, comma terzo, cod. pen., in assenza di uno specifico motivo di appello, non rientrava tra le violazioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado. Di conseguenza la censura in esame, dedotta per la prima volta nel ricorso in cassazione ha ad oggetto un «punto della decisione» che ha acquistato autorità di giudicato in base al principio del tantum devolutum, quantum appellatum (vedi Sez. 1, n. 2378 del 14/11/1983, COGNOME, Rv. 163151; Sez. 4, n. 17891 del 30/03/2022, Dattola, non massimata) con conseguente tardività della doglianza.
3.2. L’ulteriore censura è aspecifica non risultando adeguatamente enunciati e argomentati rilievi critici rispetto alle ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
I giudici di appello hanno correttamente valorizzato, ai fini del diniego, l’intensa capacità criminale del ricorrente desumibile dalla “spiccata professionalità nell’agire delittuoso” e la mancanza di elementi favorevoli alla mitigazione della pena (vedi pag. 5 della sentenza impugnata).
Deve esser, in proposito, ribadito il principio di diritto secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che, come nel caso di specie, la motivazione faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti
gli altri da tale valutazione (Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021, COGNOME, Rv. 282693 – 01; Sez.
2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02).
La replica contenuta nel ricorso si limita a negare tali circostanze, contro l’evidenza della loro sussistenza con conseguente aspecificità della doglianza. Il Collegio intende, peraltro,
dare seguito al consolidato indirizzo ermeneutico che esclude che la concessione delle attenuanti generiche possa conseguire automaticamente alla condizione di incensuratezza
dell’imputato, condizione indicata dalla difesa come profilo di meritevolezza erroneamente ignorato dalla Corte territoriale (vedi Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986
-01; Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01).
4. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 14 maggio 2024
La Presidente